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Il violoncellista
>> racconto

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    Il violoncellista

    di Elena Nappi

    Il pane in Bosnia si chiama somun. E’ una pagnotta rotonda e sottile. Nel forno, con il calore, la pagnotta si gonfia al centro, dove si forma una sacca d’aria tra la base e il lato superiore. L’interno è vuoto, non c’è mollica. Bisogna mangiarlo caldo, quando è freddo ha tutto un altro sapore. Sono in fila da almeno 10 minuti. Il pane sta finendo e ci saranno altre 20 persone prima di me. Il panettiere, il Pekara, un omone dalle mani ruvide e la faccia dura, ci guarda infastidito. Vorrebbe andar via il prima possibile, come tutti noi. Stare qui a lungo è pericoloso. Ma in fondo lo è anche muoversi, passare per certi posti. Io non ho paura o forse, oramai, mi ci sono troppo abituato per sentirla. Anche i panettieri non la sentono, i panifici sono una delle poche cose che hanno continuato a funzionare, a sfornare pane, nonostante bombe e cecchini in agguato. Il Pekara ogni giorno provvede a sfamare noi, la popolazione civile, e anche le truppe quelle appostate sulle colline tutt’intorno a Sarajevo. Le persone in fila sono in silenzio, non parlano, non chiedono, non vogliono sentire, non vogliono sapere. E neanche io. Non si parla in fila per il pane, si aspetta. Da quando è cominciato l’assedio mi sembra di non fare altro che aspettare. Io Aspetto. Aspetto di ricevere il mio pane, aspetto di ritornare al mio scantinato. Aspetto che questa guerra finisca. Questa guerra che mi ha insegnato la calma, è la calma che ci tiene in vita, la calma come forma di ribellione. Passerò davanti alla Chiesa, quel che ne rimane. Mamma non vuole, ma io voglio ritornare in fretta a casa.

    Da questa finestra mi sembra di guardare alle cose come da un altro pianeta. Qui c’è il silenzio, fuori rumore di spari, urla e caos. Qui tutto è lento, niente si muove, neanche io. Mi trascino da una parte all’altra della casa, aspetto, mentre lì fuori le poche persone che passano si muovono freneticamente. Corrono, si affannano per allontanarsi il prima possibile. Laggiù, stare fermi ci rende bersagli. Dovrei esercitarmi al violoncello, ma mi hanno distratto quelle persone in fila. Ferme in mezzo a quel caos fatto di polvere e macerie e resti e gente che cerca qualcosa, chissà cosa. Quelli lì però, in fila per il pane, sono fermi. Fermi eppure, in quella loro immobilità, frenetici. Si guardano attorno, a destra a sinistra, alle loro spalle. Uno sbatte freneticamente un piede, uno tamburella con le dita della mano sulla gamba. Solo un ragazzo, avrà 15 anni, è in fondo alla fila, aspetta con una calma assoluta il suo turno. Lui non batte il piede, non tamburella le mani sulla gamba, aspetta. Lui, quel ragazzino magrolino e pallido, semplicemente aspetta. Senza impazienza, senza guardarsi attorno come se non lo sentisse il peso dello sguardo dei cecchini. Quando esplode la granata vedo solo polvere che si alza e il ragazzino fagocitato dentro una nuvola grigia.

    Mi sono rintanato qui, con il mio violoncello, perchè sono un codardo. Lo sono sempre stato. Ma ora ho bisogno di fare qualcosa, di smettere di trascinarmi da una parte all’altra. Sarà per quell’espressione del ragazzino, non lo so… Sono sceso tra quei resti, macerie di un caos ormai fattosi quiete. Ho incominciato a suonare l’adagio di Albinoni, è successo e basta, non l’ho scelto, si è composto da solo si è incollato alle corde e alle mie dita. Mentre la suono però penso che questa musica contenga una calma, una calma triste, angosciosa ma allo stesso tempo piena di speranza, la stessa, identica, calma che ho visto poco fa sul volto del ragazzo, appena prima dell’esplosione. Forse è pericoloso stare qui, in piedi, fermo. Ma di tutte le immobilità che ho sperimentato nella mia vita, questa, è quella che mi fa meno paura.

    Sono le quattro del pomeriggio. Lo sguardo cade fuori dalla finestra a cercare ancora quel ragazzo. Ieri sono morte 22 persone, hanno detto alla radio. Da ieri per me la morte non è nient’altro che il bianco delle ossa e dei muscoli dei corpi dilaniati dalle bombe. Chiudo gli occhi, provo a scacciare l’immagine. Oggi ho più paura di ieri a scendere ancora laggiù, ma ora non posso farci niente. Devo scendere, tornare lì tra quel bianco di ossa e muscoli. Devo suonare.

    Ho suonato tutti i giorni, per 22 giorni. Sempre alle 4. Sempre l’adagio. Avrei potuto suonare qualcos’altro, avrei potuto suonare ogni giorno una cosa diversa. Il primo giorno ho suonato per il ragazzino, il secondo per l’anziano che era proprio davanti a lui e si sfregava freneticamente le mani, il terzo per la signora bionda a metà fila.

    Anche oggi sono arrivate le 4. Uno spera di poter sfuggire a certi momenti, al peso che ti fanno sentire. Mi sono ripromesso che avrei smesso. Guardo oltre i cadaveri di edifici neri e vuoti, le buche delle granate ricoperte di cemento rosso, e cerco di vedere la mia Sarajevo. Di trovare quella Sarajevo che non c’è più. I palazzi austroungarici del centro e del lungo fiume, i caffè, le tortine di latte e mais, il profumo di samun per le strade. Non esiste più niente di tutto questo e quella Sarajevo, la mia Sarajevo, non c’è più. Le persone che ci vivono sono malate dentro. Quando ho suonato la prima volta volevo solo onorare la memoria di quel ragazzino. E poi quella dell’anziano, e poi quella della signora bionda. Uno alla volta, ho provato, nell’unico modo che sapevo, a onorarli tutti. Questo è quello che ho pensato quel pomeriggio 23 giorni fa.

    Per quelle ventidue persone che sono morte mentre aspettavano il pane, per loro è bastato un attimo. Il suono di una sola granata. Un solo rumore, forte, intenso come il rumore di una granata può cambiare una vita. Bisognava coprire il rumore delle granate, coprire quel rumore con qualcos’altro, nascondere ai miei occhi quelle storie. Ho immaginato per ciascuna di quelle 22 persone un ritorno alle proprie case, ai propri cari. La musica in fondo dovrebbe servire a questo no? Generare un altro tempo dentro al nostro tempo. Una miniatura dell’eternità in questa squallida finitezza umana.

    Ho onorato i morti, suonando per 22 giorni. Ma eccomi qui, ancora con il mio violoncello.Uno pensa di poter sfuggire a certi pesi, certe responsabilità, forse è una stupidaggine ma mentre suono ho come l’impressione che quell’adagio tenga insieme i pezzi e che se smettessi di suonare Sarajevo cadrebbe. Ho suonato per costruire un finale diverso a quei 22 morti, per dargli un altro tempo, un altro finale, e ora continuo a suonare, non per loro, non per i morti, ma per tutti quelli che sono ancora vivi.

    Il pane in Bosnia si chiama somun. E’ una pagnotta rotonda e sottile. Nel forno, con il calore, la pagnotta si gonfia al centro, dove si forma una sacca d’aria tra la base e il lato superiore. L’interno è vuoto, non c’è mollica. Bisogna mangiarlo caldo, quando è freddo ha tutto un altro sapore. Ecco ora che ho il mio pane posso tornarmene al mio scantinato. Non passerò per la vecchia Chiesa, farei prima certo, e poi mamma non lo saprebbe mai, ma di qua non ci sono colline e mi sento sicuro.

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