“La superficie” di Francesca Canapa è il testo vincitore della borsa di studio per il seminario online Mondi immaginari. Scrivere un fantasy, in programma dal 18 novembre.
La scrittrice Chiara Strazzulla, docente del seminario, ha apprezzato la capacità del testo di “descrivere un’ambientazione fantascientifica con un linguaggio proprio del fantasy, mostrandosi aperto alla commistione tra i generi. Si distingue per la chiarezza e pulizia della scrittura, ma anche per il modo in cui riesce a trasmettere una sensazione nitida dell’ambiente in cui ci si muove attraverso le percezioni del protagonista. L’interazione tra personaggio e luogo consente di comunicare un buon numero di dettagli senza appesantire la narrazione”.
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La superficie
Jim si vergognava di dover chiedere aiuto, ogni giorno, per aprire il pesante portellone che li separava dalla superficie. Anche se aveva già dodici anni, non c’era un solo muscolo del suo corpo che mostrasse la minima intenzione di crescere. Mentre i suoi coetanei diventavano alti e robusti, mostravano il gozzo e i primi menti ispidi di barba, Jim rimaneva bambino, gracile, fisicamente inadatto alle attività fisiche. Per questo ogni giorno aveva bisogno della guardia di turno all’ingresso dei tunnel: le sue braccia non avevano muscoli a sufficienza per sollevare tutto quel peso. Fortunatamente, Tom era un vecchio amico: conosceva i molti altri talenti di Jim. Quegli stessi talenti erano il motivo principale per cui si presentava ogni mattina sotto il portellone, il passo veloce che risuonava nell’oscurità madida della galleria, la voce ridotta a un sussurro mentre chiedeva (“Uscita?”) quello che avrebbe potuto semplicemente comunicare.
Jim sentì Tom rimboccarsi le maniche, il rumore ruvido del tessuto più distinto mentre la guardia gli si avvicinava sotto il portellone. Udì porte di cubicoli spalancarsi e richiudersi, a qualche manciata di metri dal suo orecchio sinistro. Più in là, chiavi metalliche ruotare nelle toppe. Ancora oltre, in lontananza, il vibrare monotono delle minirotaie. Jim aspirò un’ultima boccata d’aria satura di ruggine e argilla, poi trattenne il respiro mentre Tom saliva a passi cauti la scaletta che lo avrebbe portato alla manopola a ruota, un rintocco metallico per ogni piolo calcato. Jim si affrettò a calarsi il gorgo sul volto, stringendo ancora un po’ la cinghia che lo assicurava alla nuca. Era un modello obsoleto, troppo grande per lui, era scomodo e puzzava di resina sintetica, ma finora si era dimostrato più che decente per il breve tratto di superficie che doveva attraversare. Mentre afferrava un piolo freddo e scivoloso, Jim ripassò mentalmente le regole che suo padre gli aveva fatto ripetere ogni mattina prima della traversata.
Se li sento non li ascolterò.
Se li vedo non li guarderò.
Non lascerò mai la fune.
Il portellone si aprì con un rombo e Jim avvertì la superficie spalancarsi sopra di lui. Percepì il calore intollerabile del suolo sotto il palmo del suo guanto. Un piede fuori, un braccio teso, il pugno stretto attorno alla fune di direzione. In piedi di fronte al mondo di superficie, il portellone tuonò alle sue spalle. Il cigolio della manopola gli sembrò lontanissimo mentre il vento infuocato lo avviluppava come se volesse ingoiarlo intero. La sabbia pioveva insistente contro la parete esterna del gorgo, che premeva gelido contro la sua fronte. Jim non poteva sentirla, non poteva vederla, ma sapeva che la superficie vedeva lui. Ne avvertiva la luce accecante anche nel buio artificiale del gorgo. Il boato del vento che poteva solo immaginare gli riempiva le orecchie nel silenzio assordante del suo scudo visivo. Aumentò la stretta sulla fune. Non si sarebbe mai abituato alla superficie.