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Il rossetto
>> racconto

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    Laventicinquesimaora

    Il rossetto

    di Aurora Tamigio

     

    Il terzo giorno di scirocco c’era così tanta sabbia in casa che mia madre aveva dovuto mettere rotoli di stoffa sotto le porte, perchè la tosse di mio fratello aumentava e lei era certa fosse per colpa dell’aria malata che entrava. Per tre giorni e tre notti porte e finestre erano rimaste chiuse. Le maniglie dritte come piccoli soldati impettiti. I raggi che penetravano, aguzzi e pieni di granelli e si depositavano lungo le pareti, negli angoli e sopra i mobili. All’inizio il sole di aprile si era solo scontrato sui vetri, poi aveva iniziato a riscaldare il legno esterno delle porte. Infine, il calore aveva costretto mia madre a mettere stoffa anche intorno alle maniglie di ottone, prima che diventassero incandescenti. A mezzogiorno c’era così tanta foschia che io e mio fratello Lulo ci eravamo messi con il naso contro i vetri caldi a provare a distinguere la strada. Le porte di casa erano chiuse già da una settimana. Via Dante era sporca, affollata di uccelli che frugavano fra i cumuli di sporcizia. Ogni volta che il vento del Sud arrivava, con il suo soffio rabbioso, lo scirocco raccoglieva sabbia a grandi mani nei deserti d’Africa e la faceva viaggiare per chilometri, scagliandola in tutte le direzioni. E se nel deserto le torri del vento riuscivano a spingere via i soffi cattivi e ad accogliere nelle cittadelle solo l’aria pulita del Nord, le nuvole di sabbia che viaggiavano lontano diventavano subito tempeste. Mia madre teneva la casa chiusa – con noi dentro – ormai da sette lunghissimi giorni. Respiravamo solo l’aria compresa fra le nostre pareti, aria che mia madre puliva con piante di aloe e areca in ogni stanza. Ci annoiavamo a morte. Io, mio fratello e persino mia madre. Non aveva mai fumato così tanto come in quella settimana. Un pomeriggio, dopo pranzo, mi aveva chiamato dalla sua camera da letto. Lulo stava fiatando sul vetro del soggiorno, per provare a scriverci sopra.

    «Cesare, passami la borsa per favore».

    Di solito, dopo pranzo, durante le ore più calde, mia madre si metteva insieme a noi di fronte alle finestre roventi, a fumare una delle sue sigarette da uomo. Io respiravo l’odore di fumo, di vestiti puliti e di dentifricio salato – l’odore di mia madre – e guardavo fuori.

    Quel pomeriggio, invece, lei era seduta sulla poltroncina del soggiorno. Io le avevo passato la borsa e lei se l’era appoggiata sulle ginocchia. Aveva tirato fuori un piccolo specchio e il tubicino dorato di un rossetto. L’avevo guardata a lungo, mettersi il rossetto e avevo anche spalancato la bocca, senza accorgermene, imitando involontariamente le sue smorfie. Quando se ne era accorta, la macchia rossa delle sue labbra si era aperta in un sorriso. Così mi aveva detto di avvicinarmi e mi aveva messo in mano il rossetto, per provarlo. Non ci avevo pensato due volte e il mio tentativo si era concluso in uno sbaffo ondulato. Lei aveva riso. Dalle finestre la luce illuminava il viso di mia madre in tanti granelli di polvere. Aveva preso dalla borsetta che teneva sulle gambe una piccola matita rossa. Non un rossetto, ma solo una matita e me l’aveva passata sulle labbra. Era dello stesso colore amaranto del rossetto. Il rossetto, aveva detto, è tutta questione di contorno. Quando c’è il contorno già fatto, il rossetto viene fuori dal suo tubetto da solo, girando tre volte su se stesso. Quando mia madre aveva riaperto le finestre, dopo venti giorni di isolamento, pavimenti freschi e vetri consumati dalla sabbia, io ero in grado di fare il contorno a ogni cosa.

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    Scuola di scrittura Belleville