Vai al contenuto

Il racconto vincitore della borsa di studio “Giuseppe Pontiggia”

    “Come bottiglie” di Simonetta Gallucci è il racconto vincitore della borsa di studio per la nona edizione della Scuola annuale di scrittura. Un momento normale nella vita di una coppia diviene lo spunto per una crisi e per l’epifania della protagonista, che, colpita da un oggetto apparentemente banale – una bottiglia di salsa al pomodoro – riscopre sé stessa e si libera dalle costrizioni di un rapporto soffocante.

    ***

    Come bottiglie

    Sclack! Il suono salì fino al soffitto, colpì il faretto centrale, rimbalzò sulle pareti e arrivò all’orecchio di Anna, secco. Si guardò intorno: bianco il soffitto, bianca la luce del faretto, bianche le pareti. E ancora, bianchi i mobili di rovere laccato, bianco il piano in marmo della cucina, bianco il pouf in pelle. Bianca la camicia in lino di Leonardo che stava preparando il pranzo mentre lei, sfatta, se ne stava raggomitolata sul divano, pure quello bianco. Tutto quel bianco era straniante. Lei, in tutto quel bianco, era straniata. Ed estranea. “Non sei felice?” – così sua madre – “Leo è un uomo perfetto” – squittivano le amiche – “e poi, quando ti ricapita?” – sempre sua madre. Sottintendendo che a lei, Anna, rispetto alle premesse, non poteva che andare meglio di così. Avevano ragione. Avevano tutti ragione. Eppure, per lei l’uomo e la sua casa sembravano uno di quei vestiti che, quando passi davanti alla vetrina, ti costringono a fermarti. Ad ammirarli. Solo che poi, quando ti decidi a provarli, scopri che non ti cadono a pennello, anzi, sottolineano le imperfezioni. Leonardo c’entrava poco, era lei quella difettosa. “Smettila di fare i capricci, hai un’età”, aveva detto sua madre quando le aveva raccontato che Leo le aveva proposto di andare a vivere insieme. Così lei, da brava bambina ubbidiente, i primi di settembre aveva cacciato la sua vita fino a lì in una decina di scatoloni, che ora giacevano accatastati in un angolo del soggiorno, aveva buttato il ciarpame accumulato negli anni e raccolto parte del guardaroba in una valigia mastodontica comprata per l’occasione. Guardò proprio la valigia, aperta al centro della stanza, che rigurgitava vestiti gettati dentro alla rinfusa. Poi spostò lo sguardo in direzione di Leonardo: fai la brava, si disse.  

    Si alzò e lo raggiunse. Lo abbracciò da dietro in punta di piedi e, col mento poggiato sulla sua spalla, gli chiese:

    – Cosa mi prepari?

    – Pasta al pomodoro – fece lui, mostrandole una bottiglia con l’etichetta gialla del supermercato sotto casa.

    Anna indietreggiò.

    – Io quella roba non la mangio.

    Leonardo si voltò a guardarla.

    – Cos’ha che non va? – chiese.

    – Non puoi capire.

    Lui incrociò le braccia al petto, aspettando una spiegazione. Lei sospirò, prima di iniziare: – Ha fatto sclack.

    – E quindi?

    – Non lo so, ma non era un bel rumore.

    Leonardo guardò l’orologio: erano già le 12:45 e, solitamente, lui pranzava alle 13:00 in punto. Trattenne una smorfia di disappunto e domandò:

    – E sentiamo allora, come dovrebbe fare?

    Anna chiuse gli occhi e arricciò le labbra: – Pffff.

    Pfffff?

    – Sì. Come un soffio. Una liberazione.

    Lui spense il fuoco, girò attorno al bancone, la oltrepassò e andò a sedersi in poltrona; lo stomaco, allenato da anni di orari prestabiliti, già brontolava, ma era chiaro che non sarebbe stato soddisfatto nell’immediato. Ciò che non riusciva a comprendere, invece, era perché Anna si fosse messa a fare le bizze.

    – Posso? – chiese Anna, indicando la bottiglia lasciata aperta sul piano della cucina.

    – Fai pure.

    Lei la prese con entrambe le mani e la portò alla bocca. Infilò la punta della lingua e raccolse una goccia rossa che fece subito sparire serrando le labbra. I muscoli si contrassero in una smorfia.

    – Cosa c’è ancora? – chiese lui.

    – Il sapore.

    – Fammi sentire – disse. Le andò vicino e intinse l’indice.

    – Il dito no!

    – Guarda che ho le mani pulite, eh!

    Anna scosse la testa: – Non puoi capire – ripeté.  

    – Cosa c’è da capire?

    Un mondo, c’era da capire. Il suo.

    Anche da bambina Anna a settembre si trasferiva; una settimana, non di più, a casa della nonna, assieme a sua madre, per partecipare a quella che, negli occhi di allora e nei ricordi di oggi, era una festa.

    Il primo giorno si viveva l’attesa, allestendo la soffitta. La vasca da bagno poggiata su quattro mattoni, che troneggiava al centro della stanza, veniva coperta da assi di legno e una cerata, per trasformarla in eccentrico piano di lavoro. Le cucine, quella a gas da viaggio e quella a legna, tirate a lucido. La nonna verificava che il serbatoio dell’acqua fosse colmo, mentre la mamma sturava il gabinetto, posto in un angolo e riparato da una leziosa tenda a fiori semitrasparente. All’imbrunire, si avvitavano le lampadine che poco illuminavano e, sotto una luce giallastra, si toglieva il cellophane a callare, quartare e conche: tutto era pronto.

    Il secondo giorno un uomo con le scarpe ancora sporche di terra, le maniche della camicia arrotolate al gomito, apriva una piccola processione che si snodava su per le scale e fino in soffitta. Una sequela di Re Magi trasportava quintali di pomodori appena colti. Chiudeva il corteo la nonna col suo passo claudicante. Salutava gli uomini di fatica per poi affacciarsi dal lucernaio e urlare: – Domani passate a prendere i vuoti!

    Poi si piegava e capovolgeva le cassette. I pomodori si sparpagliavano sul pavimento in cotto e correvano fin negli angoli della mansarda, un red carpet sul quale la nonna sfilava, china, impegnata nella selezione. I buoni finivano passati, i brutti nella spaccatella e i cattivi direttamente in pentola. Per una settimana la dieta diventava monocromatica, ché il pomodoro è la variante veg del maiale, non si butta via niente: pasta al sugo a pranzo, pane e pomodoro per merenda, insalata di pomodori a cena. Dopo i primi tre giorni, anche le feci cominciavano a virare sul rosso, accompagnate dal bruciore intestinale e dall’insofferenza.

    – Nonna – diceva allora Anna – non ne posso più. Ho sempre questo sapore in bocca -. La nonna portava una pagnotta al petto, tagliava una fetta spessa due dita e gliel’allungava: – Accompagna col pane – diceva. E poi, quando verso il quarto giorno, a furia di mangiare pomodori, la bocca cominciava a irritarsi, la nonna versava qualche goccia d’olio sul fazzoletto e glielo passava sulle ferite: – Così s’addolcisce – diceva.

    Anna era maturata insieme ai pomodori, anno dopo anno. La prima volta era ancora in carrozzina. Sua madre la lasciava a dormire cullata dall’aria pregna di soffritto, dondolandola con un piede, mentre le mani erano impegnate a imbottigliare.

    Crescendo era arrivata anche la noia: – Che faccio? – chiedeva Anna.

    – Vieni, stai qui a farmi compagnia. – La nonna lavava i pomodori in un enorme catino di zinco. 

    – Nonna, piscia!

    – Gioia, stai quieta.

    – Ma piscia!

    – Stringi forte forte le gambe, quando finisco ti ci porto.

    – Non a me, a quello – diceva Anna, indicando il catino.

    A sei anni era stata promossa. Restava sempre seduta accanto alla nonna, ma ora aveva davanti una bacinella azzurrina colma d’acqua fresca. Il suo compito era risciacquare e trasferire i pomodori lucenti in una cesta di vimini.

    – Adesso che faccio? – si lamentava dopo aver terminato.

    – Gioca, basta che non ti avvicini alla salsa.

    Poi finalmente, a dieci anni, era approdata alla fase più divertente, diretta dalla mamma: il riempimento. Le avevano messo davanti una ciotola profumatissima di basilico e una distesa di bottiglie, tutte riciclate, sistemate in ordine di altezza.

    – Queste sono per l’aggiunta – diceva sua madre indicando quelle basse e tozze nelle quali Anna riconosceva il succo di frutta che beveva per merenda. – E queste la dose per due persone – continuava, mostrando le bottiglie di Peroni del papà. – Poi per i pranzi ci sono queste. – Lo aveva detto con tanta enfasi che Anna si era fermata a osservarle qualche minuto in più. Eleganti, affusolate, con la pancia decorata da una scritta.

    – Ora guarda. Tu prendi una foglia di basilico, te la arrotoli sul dito, lo infili nella bottiglia e poi lasci cadere – Si era fermata per accertarsi che avesse capito. – Io con ‘ste mani gonfie non riesco più.

    Anna si era impettita e messa all’opera, aggredendo subito i soldatini della prima fila. Poi era passata ai cavalieri Peroni e infine, con la deferenza che spetta a re e regine, alle mitiche Coca Cola da un litro. Qualcosa però era andato storto. Non sapeva nemmeno come fosse successo. L’indice incoronato dal basilico le era rimasto incastrato nel collo di una bottiglia. Aveva provato a sfilarlo, ma niente. Si era arresa, alla fine.

    – Mamma!

    – Che succede?

    – Guarda – e aveva mostrato il dito intrappolato. Si era avvicinata anche la nonna. Aveva mosso gli occhi dalla bottiglia alle guance rigate di Anna un paio di volte, poi aveva scosso la testa e sospirato: – Povera bottiglia.

    Plop. Questa volta un tonfo esausto. Mentre Anna vagheggiava sull’infanzia, Leonardo era tornato ai fornelli, riprendendo la preparazione esattamente dal punto in cui lei l’aveva interrotto. Come se le parole di Anna fossero uscite dalla finestra aperta senza che lui le avesse ascoltate.

    – Quasi pronto – le disse. – Ammesso che sia di tuo gradimento – continuò sarcastico. Intinse il mestolo nella padella e se lo portò alle labbra; lo leccò e schioccò la lingua: – Per me, è squisito. E per te? – le chiese porgendoglielo; una goccia si staccò e andò a schiantarsi sul pavimento. Anna, a piedi nudi, la calpestò, per andare verso la spazzatura; solitaria, giaceva la bottiglia dalla bocca larga. Andò a recuperarla.

    – Che fai? – chiese lui.

    – La lavo.

    – A che ci serve?

    – Dov’è il giornale? – Anna, frenetica, si muoveva per la stanza. Pescò dalla valigia una canottiera, la usò per avvolgere la bottiglia, che posò poi sul pavimento, con delicatezza. Leonardo la seguiva con lo sguardo: – Si può sapere che ti prende? – chiese.

    Lei si accoccolò per richiudere la valigia, senza rispondergli. Si rimise in piedi e si mosse verso l’uscita, con la bottiglia sottobraccio.

    – Dove credi di andare? – La voce di Leonardo si fece più bassa, quasi minacciosa.

    – A casa mia – disse Anna. Una casa con le pareti rosse, l’orologio rosso, il lampadario rosso, i cuscini rossi.

    – A far cosa? – continuò lui; sul collo gli stavano comparendo delle chiazze violacee, la vena della tempia gli pulsava.

    – La salsa.

    Sofia Zanderighi