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Il racconto vincitore della borsa di studio “Cantiere romanzo”

    Borsa di studio Cantiere romanzo

    American Bar di Giovanna Vicari è il racconto vincitore della borsa di studio per il corso “Cantiere Romanzo”, in programma a Milano dal 9 aprile 2022.
    L’American Bar del titolo non è in America, bensì in un luogo non meglio definito della provincia romana. La protagonista, assunta come cameriera, impara a conoscerne gli avventori («gente che ha tempo da perdere») e il proprietario, Gigi: muscoloso, impenetrabile e di poche parole, simile a «un padre, di quelli che ti scegli e che ti chiede poco indietro». Il racconto mette in scena la relazione tra lui e la protagonista grazie a uno stile ellittico e minimalista, lavorando sui dettagli fisici («ha occhi affusolati che mi fanno pensare all’antico Egitto»), sui dialoghi e sul non detto (la figlia di Gigi, che si suppone morta in un incidente stradale). Ne esce il quadro di una provincia desolata, dove non c’è spazio per epifanie o trasformazioni, come testimonia il finale tragico e privo di catarsi.


    American Bar

    C’è la possibilità che mi sia sbagliata, dico.
    Come?
    C’è la possibilità che mi sia sbagliata, mi hanno detto di venire qui.
    Chi cerca.
    Nessuno, sono venuta per il lavoro.
    L’uomo oltre il bancone è pelato, basso, il fisico muscoloso. Immagino abbia polpacci tesi e gonfi, di quelli che mi fanno inorridire.
    Si è girato e fa sbuffare la macchina del caffè dell’American Bar. Il posto è deserto, a eccezione di un omino rattrappito seduto davanti a una Peroni da sessantasei. Mi viene voglia di uscire e accendermi una sigaretta. Invece quello mi schiaffa davanti una tazzina fumante e si mette a bere il suo caffè con tutta calma.
    Mando giù il mio.
    Ha occhi affusolati che mi fanno pensare all’antico Egitto; mi chiedo se si è truccato, non capisco chi si truccherebbe per venire a lavorare in un posto così e poi mi dico: Oh, sì. Lui sì. Lo farebbe.
    Finalmente si decide.
    Quando puoi cominciare?
    Anche ora, rispondo. Inizio subito se vuole.
    Nello specchio della parete dei superalcolici ho un aspetto orribile. Troppo magra, troppo bianca, troppo stanca. Le spalle di Gigi invece sono forti.
    Dammi del tu, dice, e mi tende una mano tozza.
    Con l’altra mi passa una parannanza nera. Ognuno ha la sua, dice. Te la porti a casa e te la lavi tu. Io controllo solo che sia pulita, ma lo faccio tutti i giorni quindi rispetta il decoro di questo posto. Che siamo persone pulite qui.
    Questa è una delle cose che imparo quel giorno. Gigi alle apparenze ci tiene, eccome.
    Alle apparenze.
    Invece di ciò che avviene dietro al bancone non se ne occupa troppo.
    Il prosciutto con cui facciamo i tramezzini è una forma ricomposta da cui dobbiamo stare attenti a sfilare i grumi di plastica, per dire.
    O l’acqua in cui immergiamo il mocio, quella la cambiamo una volta a settimana, e la spugna gialla con cui faccio le pulizie vale per tutto.

    La seconda cosa che imparo è che l’American Bar è Gigi e Gigi è l’American Bar. Ma questo non ve lo so spiegare. È una roba che dovreste vedere, vera come i pini rinsecchiti davanti all’insegna fluorescente che accendiamo solo dopo le sei.

    La terza è che la gente dell’American Bar, quasi mai è la gente della stazione. Quelli che i treni li prendono davvero, non si siedono mai. Passano al bancone come anguille viscose, umide, bevono appena un caffè, e sguisciano verso i binari al primo rintocco della campanella.
    La gente che viene da noi è gente che ha tempo da perdere.
    Ha capelli unti, corpi rinsecchiti che sanno di sambuca e modi gentili.
    Quando all’alba tiro fuori le sedie e i tavoli di plastica si avvicinano lenti e li occupano come ombre, mute, silenziose anche tra loro, in un andirivieni che dura fino a notte inoltrata; finché Gigi gli strappa gli sgabelli da sotto il sedere e li manda a dormire.

    Così la quarta cosa che imparo è che Gigi è un padre, di quelli che ti scegli e che ti chiede poco indietro. La sua vita comincia quando esce dalla palazzina in cui vive, davanti al bar, e finisce quando ci rientra in piena notte, dopo aver mandato a dormire il paese e aver fatto sferragliare la serranda fino a terra.
    Dicono che aveva anche una figlia vera e che gli è morta schiantata contro un platano sulla statale. Ma io non so se è vero.
    Dicono che gliela ricordo per qualche ragione, ma non so se è vero neanche questo.
    Una mattina siamo lì fuori. Un regionale è appena ripartito verso Viterbo e io e lui proviamo a fumarci una sigaretta, senza farla fumare al vento. È una di quelle mattine di novembre che c’è il sole ma fa un freddo cane. Il lago è ispido, increspato.
    Gigi alza la mano in cui stringe la cicca e indica su, Lo vedi quello?
    Che?
    Il quarto in alto a sinistra è il mio, dice, e mi indica un balcone al penultimo piano. Sarà lungo due o tre metri. Le ringhiere gialle mangiate dalla ruggine.
    Lo vedo, dico.
    Da lassù si vede tutto il lago. Una volta ci facciamo una cena di pesce lassù, mi dice, ma di pesce di mare. Che a me quello di lago mi fa schifo, dice. C’ho uno a Ladispoli che mi mette da parte le cose migliori a due lire prima di portarle a Roma. Basta che lo avviso prima. Ci facciamo uno spigolone, i calamari e pure il sautè. Che dici?
    Mi guarda con quegli occhi egiziani che brillano e non ho il coraggio di dirgli che io il pesce lo odio e mangio solo i bastoncini Findus.
    Certo, dico. Quando vuoi.
    Scanso lontana la sigaretta che rotola fino al centro della strada e seguo un uomo in piumino lucido e completo che ha imboccato la porta del bar. Quel giorno il cielo è così terso che il sole arriva fino alle bottiglie di gin dietro al bancone e la luce rimbalza su tutte le pareti.
    Il pomeriggio Gigi mi dice, forse c’ho un po’ di febbre. Ti dispiace se salgo a casa?
    Vai, dico. Tutto sotto controllo.
    Non ti scordare di portarti a lavare la parannanza, mi dice.
    Io neanche mi giro, che ormai lo so come vanno le cose. Alzo il braccio con cui sto asciugando i bicchieri e faccio un cenno di saluto distratto.

    Saranno le otto o le nove quando sento il tonfo.
    Sicuro non c’è più luce, è buio pesto; ma questo non vuol dire perché a novembre è buio pesto dalle cinque. Il vento strapazza i pini e a terra è pieno di aghi e c’è un freddo che taglia la pelle e poi io e il lago e quella massa nera in mezzo alla strada.
    È un cane, penso. Un paio di passi dopo riconosco la giacca militare di Gigi. Il pelo del cappuccio si muove schizofrenico nelle raffiche. Della testa tonda, rasata, non c’è rimasto niente.

    Scuola di scrittura Belleville