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Il racconto che ha vinto il corso “Laboratorio sul racconto”

    Laboratorio sul racconto, Eli Gottlieb

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    Il racconto che ha vinto il corso “Laboratorio sul racconto”

    con Eli Gottlieb, in diretta su BellevilleOnline dal 20 maggio.

     

    Bando della Borsa di studio:

    Scrivi un racconto inedito della lunghezza massima di 10.000 battute (spazi inclusi). Il testo deve essere in formato word o pdf, nominato: «Titolo del racconto – Nome e cognome dell’autore».

     

    Testo vincitore:

    Un temporale, in alto a destra

    di Massimiliano Maestrello

     

     

    Il sogno si presentò pochi giorni dopo che avevo cominciato a dormire sul divano. Sognavo sempre la stessa cosa: camminavo in una radura, e al centro di questa radura c’era un albero. L’albero sembrava venire da un’illustrazione di un vecchio libro di botanica: la chioma alta, verde scuro, il fusto largo e nodoso da pianta secolare. Più mi avvicinavo e più distinguevo la corteccia, un mosaico di scaglie di legno sistemate una vicina all’altra. Allungavo una mano a toccare il fusto, e in quel momento lo sentivo cedere, come se dentro fosse cavo e vuoto. La corteccia si sfaldava in frammenti leggeri come sughero. Da quel buco che si era formato usciva una bestia, qualcosa di simile a un tarlo, ma più grosso e viscido.

    La prima volta che lo sognai era grande poco più di un dito. Notte dopo notte crebbe di dimensione e cambiò d’aspetto: lungo come un braccio, prima, poi gonfio e strisciante come un enorme lombrico, e molle di sangue come una sanguisuga. La pelle era lucida, oscena e in qualche modo irresistibile. Provavo a toccarlo, ma l’essere si ritirava dentro il buco. Anche se non lo vedevo, continuavo a sentire il suono che faceva all’interno dell’albero, mentre lo divorava poco a poco.

    Mara mi disse del ritardo un sabato mattina, mentre usciva per andare al lavoro. Un paio di frasi veloci, mentre posava la tazzina del caffè nel lavandino e si muoveva verso l’attaccapanni.

    «Perché non me l’hai detto prima?» le chiesi.

    «Non ci penso tutti i giorni. E comunque volevo essere sicura».

    La guardai mentre si infilava il cappotto e si metteva la tracolla della borsa sulla spalla. Nonostante fosse vestita come al solito – indossava sempre il tailleur che le imponevano al lavoro – c’era qualcosa che stonava. Nei colori, forse, oppure nel cappotto che mi sembrava troppo pesante per la giornata che si vedeva fuori dalla finestra. O magari era colpa del colletto che era rimasto sollevato su un lato. Mi avvicinai per sistemarlo, ma Mara aveva già messo la mano sulla maniglia e aperto la porta.

    «Forse è meglio fare il test» dissi.

    «Lo so».

    Finì che il test di gravidanza, quel giorno, non riuscì a comprarlo, e quando mi offrii di raggiungere la farmacia di turno più vicina mi disse che si poteva anche aspettare. «Un paio di giorni in più non cambiano nulla, a questo punto» fu la sua risposta.

    Per tutto il weekend vivemmo come dentro una bolla di sapone, pronta a esplodere da un momento all’altro. Litigammo per cose stupide, ma non era una grossa novità.

    Il lunedì il test diede un risultato negativo. Mara decise comunque di consultare un medico. Lo specialista le diede appuntamento per due giorni dopo: confermò che non era incinta, e che non c’era niente che non andasse. Sembrava tutto risolto. Invece, quella stessa sera, a letto, Mara non riusciva a prendere sonno.

    «Che c’è?» le chiesi.

    «Ci ho pensato. All’avere un figlio, intendo».

    Ne avevamo già parlato altre volte. «Mi sembrava fossimo d’accordo su tutto» dissi.

    «Lo so» rispose. «Ma ci ho pensato, e forse il problema non è solo quello».

    Non lo disse in maniera esplicita, ma il problema eravamo noi. Io, se l’avessimo voluta vedere dal suo punto di vista. Provai a chiederle di più, ma si chiuse dietro a qualche frase smozzicata e a un silenzio sempre più insistente. Mi convinsi che la colpa di quelle parole doveva essere legata allo stress accumulato in quei giorni, ma la situazione non migliorò. Anzi: durante la settimana seguente la tensione diventò una sorta di barriera invisibile che ci impediva di parlare e di toccarci.

    Una sera decisi di mettermi sul divano a dormire. Volevo vedere se Mara sarebbe venuta a chiamarmi, quando si fosse accorta che non ero accanto a lei. Non lo fece. Né quella sera, né in quelle successive. In pochi giorni dormire sul divano diventò una specie di abitudine. Iniziai a sognare il tarlo.

    Era l’appartamento di Mara, quello, perciò, quando fu chiaro che le cose si stavano guastando del tutto, tornai nella casa dei miei genitori.

    La mia camera, identica a come l’avevo lasciata, mi appariva come quella di una persona che non riconoscevo del tutto – un ragazzino di cui ricordavo solo vagamente qualcosa – e cercavo di passarci solo il tempo necessario. Dopo il lavoro, cominciai a dedicarmi a lunghe passeggiate nella campagna. Ripresi anche a correre, un’abitudine che avevo abbandonato da tempo.

    Certe sere mi mettevo sulla terrazza con qualcosa da bere e guardavo le ombre allungarsi, i colori della campagna spegnersi, rendendola qualcosa che sembrava freddo e inospitale. Il vento muoveva le foglie sugli alberi, schiacciava l’erba alta ai lati dei fossi, riempiendo il buio di rumori simili a passi. Dopo un paio di notti avevo iniziato a rifare il solito sogno: ancora quel tarlo enorme, che divorava l’albero e si affacciava e scompariva in un buco sempre più largo e profondo.

    Fu in quello stesso periodo che mi convinsi che Mara dovesse avere un altro uomo. Iniziai a prendere la macchina dei miei – una precauzione per non farmi riconoscere –, raggiungevo la città e parcheggiavo nelle vicinanze del suo appartamento. C’era quasi sempre la luce accesa, in casa, oppure il bagliore azzurro del televisore che si rifletteva sui vetri della finestra.

    Un paio di volte aspettai sveglio fino alla mattina successiva per sorprenderla mentre se ne andava accompagnata da qualcuno. Ero sicuro che sarebbe successo. Invece, vidi Mara uscire ai soliti orari con Lola al guinzaglio. La faceva camminare lungo la via, strattonandola mentre si attardava ad annusare qualcosa lungo il marciapiede. Io cercavo di nascondermi meglio all’interno dell’auto, di non farmi scoprire, ma sembrava che Mara mi avesse completamente cancellato dal suo orizzonte: nemmeno una volta si girò in direzione dell’auto, nemmeno quando le tenevo gli occhi fissi addosso, cercando di ricordarmi il tocco delle sue mani che vedevo strette intorno al guinzaglio, di intuire le sue forme sotto la tuta che indossava per uscire di casa.

    Gli appostamenti davanti all’appartamento di Mara continuarono per qualche settimana. Restavo lì, continuando a schiacciare i tasti dell’autoradio fino a trovare una stazione che mandasse qualche canzone che conoscevo. Quando non riuscivo più a sopportare la musica o le voci dei dj, spegnevo la radio, accendevo il motore e partivo senza avere in mente una meta ben precisa. Abbassavo il finestrino in modo che l’aria mi colpisse la faccia, e vagavo per la città, accelerando e rallentando al ritmo del traffico e dei semafori, dirigendomi verso i quartieri periferici fino a perdere l’orientamento, scegliendo a caso dove svoltare. Mi perdevo in quel panorama fatto di condomini tutti identici, piazzali di chiese abbandonati, bar chiusi con le sedie di plastica impilate davanti alle saracinesche. Quando l’indicatore della benzina si avvicinava alla riserva, guardando le indicazioni, cercavo di ricostruire un percorso che mi riportasse in un tratto di strada conosciuto.

    Sulla via del ritorno mi fermavo spesso a uno di quei baracchini sistemati lungo le provinciali che restano aperti tutta la notte. Compravo birra e patatine fritte e, a qualsiasi ora, c’erano sempre giovani affamati e uomini soli che mangiavano piegati sui tavolini, guardando qualcosa lungo la strada. Mi chiedevo perché fossero lì, da cosa si stessero allontanando o dove stessero tornando.

    Mangiare a quell’ora mi metteva sonno. Arrivavo a casa e crollavo sul letto. Se sognavo il tarlo, quelle sere, lo sentivo masticare all’interno dell’albero, ed era come averlo nello stomaco.

    Mara mi telefonò e mi disse che dovevamo parlare. Risolvere, disse, per la precisione.  

    Decidemmo di trovarci a casa sua, dopo il lavoro. Io avevo ancora un mazzo di chiavi di riserva, perciò, prima che rientrasse, salii nel suo appartamento. Lola mi corse incontro. Saltava e abbaiava, ma non riuscivo a capire se fosse contenta di rivedermi o mi considerasse già un estraneo.

    «Silenzio» le dissi allora, stringendole il muso nel pugno. Uggiolò, e tornò nel suo angolo.

    Diedi un’occhiata al salotto, entrai in cucina e in camera da letto. Non era cambiato molto, naturalmente, ma ebbi la conferma che le nostre foto insieme erano scomparse. Non riuscii a trovarle nei cassetti della credenza e nemmeno in quelli dei comodini.

    Vicino alla televisione c’era però un’altra foto. Mara me ne aveva parlato in più occasioni, e la riconobbi subito, anche se quella era la prima volta che la vedevo. Mi aveva raccontato che quella era la sua foto preferita, e che stava in un vecchio album delle vacanze in Grecia che i suoi genitori conservavano ancora dopo tanti anni. Doveva essere riuscita a recuperarla, in qualche modo.

    Nella foto c’era Mara – al massimo otto o nove anni – sulle spalle di uno zio all’epoca poco più che ventenne – uno zio di cui in famiglia si parlava sempre poco volentieri. Le mani del ragazzo stringevano le caviglie di Mara che gli penzolavano davanti al petto, mentre lei rideva con la testa leggermente piegata a sinistra e la bocca spalancata. Sulla lingua si vedeva il bozzo rosa di una gomma da masticare, dello stesso colore della canottiera che le copriva parte delle spalle abbronzate. Anche lo zio rideva, come se il peso di quella Mara in miniatura fosse minimo e riuscisse a sentire la sua risata anche senza vederla. Dietro di loro il muro di una terrazza che si affacciava sul mare, e poi la distesa blu dell’acqua. Tutti i colori avevano quella tonalità commovente e pastosa delle vecchie foto. Ma c’era un particolare che sembrava rompere quell’attimo di gioia perfetta: nell’angolo più in alto, a destra, si vedeva un accumulo di nubi nere, minacciose. Forse, poco dopo, era piovuto.

    Premetti un dito su quella porzione di foto, provando a nascondere le nuvole che annunciavano il temporale. Lo premetti e lo tolsi, ancora e ancora, come se quel piccolo gesto potesse davvero cambiare qualcosa.

    Poi sentii un rumore, il suono di una chiave che girava nella toppa.

    Era Mara che rientrava in casa, e non sapeva ancora che ero lì.

     

    >> Il corso di Eli Gottlieb “Laboratorio sul racconto” inizierà il 20 maggio su BellevilleOnline. Sarà in diretta streaming tutti i mercoledì dalle 19:30 alle 20:30 per 10 lezioni.

    Leggi qui il programma del corso e scopri come iscriverti.

    Gli allievi dovranno partecipare con un proprio racconto (massimo 10 mila battute), che sarà letto dal docente e dagli altri partecipanti e analizzato durante il laboratorio.

    I racconti dovranno pervenire entro la mezzanotte di domenica 17 maggio all’indirizzo info@bellevilleonline.it.

     

     

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    Scuola di scrittura Belleville