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Il primo precetto
di Ti Maddog
Con le spalle curve Bruno esce dal portone di casa. Saluta il vicino con un “buonasera” appena percettibile, sale in auto e parte.
Giunto al lavoro, varcata la soglia, il suo “buonasera” risuona potente, e sulla parete dello spogliatoio il profilo curvo della sua ombra si raddrizza indossando la divisa da lavoro.
Prende un bel respiro e assapora l’aria esausta, se ne riempie il petto come un fumatore d’oppio, e con passi misurati si avvia al suo padiglione.
Il rumore della chiave che fa scattare la serratura precede di poco il saluto del Collega.
– Ciao Bruno, come va?
– Bene, e qui? Tuttapposto?
– C’ha dato qualche pensiero solo il nuovo ospite della 28.
– Cos’è successo ancora?
– Niente di che – precisa minimizzando con una smorfia – ma continua a rifiutare la rieducazione: un uccellino m’ha detto che fa solo finta di ingoiarle, le pillole. Credi sia il caso di fare due chiacchiere con lui?
– Certo che sì – dice Bruno lisciandosi i baffi – Il Direttore c’è?
– Sì, s’è fermato per finire un lavoro.
– Allora lasciamolo lavorare: tanto per noi queste chiacchiere sono diventate una piacevole routine, vero?
A rispondergli basta il ghigno del Collega; risposta che è un impegno. Così Bruno lo saluta battendogli la mano sulla spalla, sugellando l’impegno preso.
– Chiamami quando va via – dice allontanandosi.
Luca scrive alla madre. Non riesce a dormire; così, seduto sul letto, sotto la luce di una lampada da lettura, scrive con mano tremante. Lo fa tutte le sere, e la mano non manca mai di tremare. Luca scrive come se le stesse parlando; a tratti posa la penna, quasi la stesse ascoltando.
Finita la lettera, inizia a seguire l’eco dei passi in corridoio come seguiva a casa il ticchettio dell’orologio: solo facendo così riesce a prendere sonno ma quello che viene non è mai un sonno ristoratore, anche se gli occhi si chiudono.
E tutte le palpebre che si chiudono, se non sei morto, si riaprono. Anche le sue, sentito il suono incestuoso del metallo sul metallo, scattano.
Luca resta in ascolto seppur non sente più nulla.
Il perdurare del silenzio non lo rassicura ma gli concede un dubbio: pensa a un’allucinazione.
Solo il tempo di pensarlo e il suono ritorna; più vicino di prima. Non è un’allucinazione. Così Luca si rifugia sotto la coperta e si schiaccia alla parete. Non vorrebbe sentire quel clangore. Ma non può; la sua volontà vale zero. Perfino il metallo che risuona lo sa, perciò avanza sicuro e si fa sempre più vicino, così vicino che Luca inizia a chiedersi quando finirà.
A dargli la risposta è la paura che veglia nella sua mente.
Bruno opera sempre al meglio. Dei pochi errori ha fatto tesoro. Procede come se nulla potesse fermarlo, preceduto dal Collega.
È concentrato. Al punto da dimenticare lo strumento che ha in mano, ma non l’autorità che rappresenta: è il volontario custode dell’ordine che dà una collocazione; è l’invenzione ludica che legittima l’assurdità del suo ruolo… condotto dai pensieri, si ferma quando il Collega apre una porta.
Una torcia elettrica buca l’oscurità.
– Vallo a svegliare! – ordina Bruno.
Il Collega trova il letto di Luca: stende il braccio e scuote un corpo che pare addormentato.
– Sveglia! Dobbiamo fare due chiacchiere.
Luca rimane immobile.
– Dico a te, in piedi! – e gli dà uno scossone che fa scivolare a terra la lettera.
Bruno sente cadere qualcosa e punta la torcia sul pavimento – Guarda cos’è quel foglio!
– È una lettera – dice il Collega che inizia a leggere – Cara mamma…
– Ridammela! – scatta Luca.
– Perché se no cosa mi fai? – sibila il Collega avvicinandogli il viso.
Luca china la testa. Il fetore che esce da quella bocca incombe asfissiante come la paura.
– Poche storie e seguici.
Il Collega, lentamente, si fa da parte, quasi a dare il cambio a Bruno in uno schema collaudato.
Ma quando la mano che stringe la lettera arriva alla sua portata, Luca gliela porta via con gesto incontrollato e si appiattisce alla parete.
– Adesso m’hai rotto le palle! – esplode il Collega, che viene stoppato da Bruno.
– Quante storie per una lettera – interviene calmo – Non puoi reagire così. Volevamo solo parlarti, ecco perché siamo qui. Tienila, non vogliamo portarti via la lettera… la mamma è sempre la mamma, capace d’ogni sacrificio per un figlio, anche di farlo rinchiudere.
Luca lo fissa interrogativo.
– Non lo sapevi, tossico dimmerda: è stata la mammina a metterti qua!
– Non è vero! Non ci credo – ripete Luca ossessivamente.
– Basta chiacchiere, in piedi! – ordina Bruno strappandogli la lettera di mano.
Luca prova a riprendere la lettera ma il Collega lo blocca serrandogli un braccio al collo.
– Adesso la custodiamo qui – dice Bruno infilando la lettera nella tasca dei pantaloni – vicino al cazzo che piace tanto a quella troia della tua mamma.
Ridono, Bruno e il Collega, e ridere rilassa, lo capisce anche Luca che sente ridurre la stretta al collo. Così d’istinto si spinge mani avanti verso le tasche di Bruno, ma la sorte gli mette in mano i suoi testicoli che Luca può strizzare con rabbia.
– Figlio di puttana! – sferza Bruno col manganello sulla testa di Luca per fargli mollare la presa.
E Luca si piega, ginocchia a terra; il Collega, mosso da cameratesco senso di colpa, lo stende con un calcio in culo. E poi è Bruno a scalciare, compensando la ridotta spinta con la frequenza dei calci: due, quattro, sei… uno dietro l’altro trovano in Luca un facile bersaglio mentre il Collega lo lavora ai fianchi.
Nel silenzio del Padiglione l’urlo lacero di Luca è come lo stridente violino di un’orchestra gipsy che dà il via all’euforia; manganelli d’ordinanza suonano la violenta canzone, testate percuotono il pavimento come colpi di rullante che annunciano la fine del pezzo. Di quel pezzo di carne, nella cella 28, che vomita sangue.
Bruno ha solo un pensiero quando a fine turno esce dal carcere: ancora non si capacita d’aver mancato al primo precetto, che recita “Il detenuto non si massacra in sezione, si massacra di sotto”.
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