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I racconti vincitori del premio “Molto forte, incredibilmente lontano”

    Il bando del premio letterario “Molto forte, incredibilmente lontano”, indetto dalla Scuola di scrittura Belleville e dedicato agli italiani che vivono o hanno vissuto all’estero, si è chiuso con oltre 200 racconti inviati da ogni parte del mondo.

    I racconti – della lunghezza massima di 5000 battute, ambientati nel Paese d’adozione e incentrati sul tema dell’arrivo – sono stati letti e selezionati dalla redazione della Scuola Belleville. La rosa dei sei racconti finalisti è stata quindi sottoposta al giudizio di una giuria composta da:

    • Sandro Cappelli, direttore dell’Istituto Italiano di cultura di Parigi
    • Francesca Cristoffanini, direttrice della Scuola Belleville
    • Maria Carolina Foi, direttrice dell’Istituto Italiano di cultura di Berlino
    • Cristina Marconi, scrittrice e giornalista
    • Alessandro Raveggi, scrittore e saggista.

    Agli autori dei primi tre racconti classificati sono state assegnate altrettante borse di studio. Le borse consentono l’accesso gratuito a uno o più moduli del corso Molto forte incredibilmente lontano. Scrivere dalla distanza, il cui inizio è fissato per il 25 marzo 2021.

    L’evento di premiazione in diretta streaming del 23 febbraio 2021 è stato organizzato in collaborazione con l’Italian Bookshop di Londra e la libreria Piolalibri di Bruxelles.

    L’elenco completo dei racconti selezionati che entreranno a far parte della raccolta Molto forte, incredibilmente lontano sarà pubblicato il 7 aprile 2021 su bellevillenews.it. L’edizione in formato e-book della raccolta sarà scaricabile gratuitamente sul sito bellevillelascuola.com dal giugno 2021.



    1° classificato: le motivazioni della giuria

    Un racconto brillante fin dalle premesse: l’arrivo in questione non è – come ci si aspetterebbe – quello del narratore/autore, ma quello del padre: è lui il vero protagonista, l’outsider che ruba la scena a chi scrive.
    Tra uno «stammi sentire» e un «lasciami parlare» l’anziano genitore dilaga, lascia appena al figlio lo spazio di pronunciare qualche frase smozzicata. Più che un incontro, quello tra i due è un disincontro, dal quale il narratore esce, per così dire, narrativamente sconfitto. Questo, infatti, non è più il suo racconto, ma il racconto del padre: un racconto non del nuovo, dell’esotico, ma del familiare, dell’ostinatamente «italiano».
    Il padre arriva, si perde, si arrangia e si ritrova. Solo sul finale la contemplazione del «panorama bello veramente» apre un seducente squarcio sull’altrove, e concede a Bruxelles ciò che è di Bruxelles.


    L’arrivo di mio padre alla stazione di Bruxelles-Luxembourg

    di Francesco Ripa

    «Ho fatto come hai detto tu» mi dice mio padre, «sono uscito e ho seguito le indicazioni per i treni. Ce n’era uno appena sono arrivato, alla mezza».
    Io lo ascolto e mi dico tra me e me, dietro la mia Taras Boulba: lo sapevo che dovevo mandargli un taxi.
    «Come dici?»
    «Dico che dovevo mandarti un taxi. Chissà che treno hai preso».
    «Stammi a sentire» dice lui, «io ho preso il treno e ho fatto due fermate come mi hai detto tu. Meno di venti minuti. Alla terza sono sceso e ti ho cercato, sia dentro che fuori, ma niente».
    «Ti avevo detto Luxembourg. Io stavo là. Un’ora come un fesso ad aspettarti».
    «Ho capito, ma lasciami parlare. Non ti ho visto e ho capito che in effetti la stazione non era quella giusta, d’accordo. Ti avrei telefonato, ma il telefono si è scaricato stamattina, non so come, la batteria è andata da cinquantacinque a zero in un attimo».
    «Non c’era nessuno che poteva aiutarti?»
    «E stammi a sentire» dice lui. «Stavo senza telefono a questa stazione allora è normale che la prima cosa che faccio è cercare di chiamarti. Mi giro un po’ intorno e sento un ragazzo che parla al telefono in italiano. Ho aspettato che finisse per chiedergli di fare una telefonata, ma quello non finiva, e anzi, a un certo punto ha iniziato a camminare. Io ho mantenuto una certa distanza perché non volevo farlo impressionare, e lui intanto camminava. All’uscita della stazione c’è questa piazza circolare con le colonne tutto intorno, no? Con un albergo, mi pare, e un supermer–»
    «Una piazza circolare?»
    «Sì. Il ragazzo prende una delle uscite e continua a parlare al telefono, una conversazione abbastanza accesa con la sua fidanzata, da quello che ho capito, perché al ristorante dove lavora non gli danno dei giorni che gli avevano promesso e lui non può più tornare, capì, e allora lei ha iniziato a fare storie, a dire che deve mandarlo a quel paese e trovarsi un posto migliore o che so io. Io l’ho intuito da quello che diceva lui, che a un certo punto ha alzato il tono e ha detto che non voleva rimanere in mezzo a una strada, che non è facile cambiare lavoro così (ho visto che mentre lo diceva ha fatto schioccare le dita), e cose di questo genere».
    «Papà, ma che –»
    «… e io lo capisco pure, sai. Cioè, al giorno d’oggi mica è facile lasciare un lavoro così dalla sera alla mattina. Però ecco, non potendo tornare a casa, saltava il weekendino alle terme che avevano organizzato».
    Dice proprio così, weekendino alle terme. Con un cenno al cameriere, che mi conosce bene, ordino una seconda Taras Boulba. Mio padre ha a malapena iniziato la sua.
    «La cosa non sta bene alla ragazza, che invece di dimostrarsi comprensiva continua a fare storie, e si vede che ‘sto ragazzo a momenti vorrebbe attaccare e mandare tutto a quel paese, però raccoglie sempre le forze e continua a parlare, si sta trattenendo, però ecco, argomenta e non perde mai la pazienza. Un bravo ragazzo, veramente un bravo ragazzo».
    «…»
    «A un certo punto noto che la conversazione sta per finire e rifletto se avvicinarmi o meno. L’ultima cosa che voglio è dargli fastidio dopo una telefonata del genere, comprendi che la mia situazione non è proprio facilissima. Nel frattempo siamo arrivati ai piedi di una gradinata con la statua enorme di un uomo a cavallo, credo un re, e un bel giardino con due file di alberi. Non so se hai presente, in fondo al giardino c’è una fontana e poi delle scale che portano su, pieno così di gente».
    «Certo che ho presente, ma hai capito che io –»
    «Qui nella folla ho pure rischiato di perderlo di vista, poi lo vedo che cammina spedito verso il fondo del giardino e sale le scale. Io lo seguo e arrivo sotto le scale che ho l’affanno e mi dico, se questo continua così, arrivederci e grazie, non lo riacchiappo più. Invece alzo lo sguardo e lui sta lì, si è fermato alla balaustra, non parla più al telefono e guarda fisso davanti a sé. Piano piano io lo raggiungo e mi metto accanto a lui».
    Mio padre fa una pausa, come se si aspettasse di essere interrotto, ma io non lo interrompo.
    «Ti metti accanto a lui e… ?»
    «E niente, per prima cosa guardo pure io il panorama, bello veramente, si vede tutto il centro, in più il sole si stava abbassando e la luce era uno spettacolo, guarda qua».
    «Papà, ancora giri con questa cosa».
    «Le foto vengono bene, che vuoi. E comunque. Lui sta là accanto a me e non si muove. Io allora mi faccio coraggio e gli dico, guagliò – avevo sentito che era delle nostre parti – mi permetti una domanda?, e lui per mezzo secondo mi sembra confuso poi mi fa: ditemi tutto. Gli spiego la situazione e gli chiedo di fare una telefonata e lui subito: e che problema c’è, tenete, e mi dà in mano il suo telefono ancora caldo. Prima di fare il tuo numero vedo che ci stanno le ultime chiamate sullo schermo e leggo il suo nome, Carmela, una decina di volte. Hai capito, Sté? Come si poteva mai chiamare. Mannaggia a lei, mannaggia».

    Francesco Ripa
    Sono nato a Torre del Greco, Napoli, dove sono cresciuto. Dopo il liceo mi sono trasferito a Roma, poi a Barcellona, poi a Copenaghen, poi a Parigi, poi a Bruxelles, dove lavoro dal 2018. I miei autori preferiti sono Antonio Tabucchi e Don DeLillo. Mi interessa molto il tema della partenza, il concetto di “casa”, e il rapporto complesso con quello che ci si lascia alle spalle quando si parte.




    2° classificato: le motivazioni della giuria

    L’arrivo nella San Pietroburgo nel 1994 descritto come un viaggio nel tempo, prima ancora che nello spazio. Una povertà «mai vista» attende la protagonista dietro la facciata neoclassica di un palazzo affacciato sul canale Fontanka. Il passato, d’un tratto «non è mai avvenuto»: la giovane italiana si scopre straniera a se stessa, stranita, «sonnambula». È muta, impotente come un infante. Il risveglio comincia con Inna, l’affittacamere: è lei la levatrice che con gesti ruvidi («faceva di me quel che voleva. Svegliarmi, nutrirmi, persino spingermi sotto la doccia») e con l’esempio («Inna fumava e anch’io fumavo. Inna beveva birra e anch’io bevevo birra») rimette letteralmente al mondo la protagonista. È cosi che, in un resoconto concentrato e potente imperniato sul contrasto tra esterni e interni, tra dentro e fuori, l’arrivo diventa una meravigliosa, esplosiva rinascita.


    L’arrivo

    di Laura Marzano

    San Pietroburgo 1994, novembre, meno 13 gradi. Il russo che avevo studiato all’Università di Lecce era per me come il latino e il greco, una lingua morta. Per telefono dall’Italia avevo trovato alloggio presso una donna pietroburghese del tutto priva di referenze. Fremevo all’idea di toccare il suolo di Dostoevskij, Puškin e Nabokov. Partenza da Lecce, destinazione Pulkovo, aeroporto di San Pietroburgo. Avevo 24 anni.

    Inna Anatolievna, il donnone affittacamere, possente ed energico a cui ero toccata in sorte, appena fuori dall’aeroporto, alzando una mano, aveva fermato una vecchia Lada occasionale (i taxi erano rarissimi) e mi ci aveva spinto dentro, era balzata su anche lei e attraverso larghi lividi viali mi aveva portato a casa sua.

    La facciata celeste pastello del palazzo neoclassico che si affacciava sulla sponda del canale Fontanka, non lasciava immaginare cosa ci avrebbe atteso all’interno. Varcato il cancello, in un atrio scalcinato, la nostra scala a destra aveva gradini così luridi e sconnessi che a stento la scarpa trovava appoggio per terra tutta intera. Un odore nauseabondo di muffa ti afferrava all’entrata e non ti dava scampo fino al varco della porta blindata del terzo piano. Una povertà simile non l’avevo vista mai. La luce per le scale era fioca e un paio di barboni sostavano sui ballatoi accanto a mozziconi di sigarette e bottiglie semivuote di vodka. Avevano scarponi logori, capelli arruffati e unti, le loro facce erano gonfie e provate. Faceva un gran freddo anche sulle scale.
    Dall’ingresso di casa di Inna incupito da carta da parati marroncina, si accedeva subito nella toilette provvista di fogli di giornale sostituivi della carta igienica e una bottiglietta di plastica con un sapone liquido simile ad acetone era l’unica suppellettile in dotazione della stanzetta.
    Sulla destra il centro della casa: una cucina che andava in profondità sei metri per quattro, in fondo alla quale un tavolo rotondo poteva ospitare dalle tre alle tredici persone secondo necessità. Il pavimento era coperto da linoleum verde chiaro e alle pareti erano appesi quadretti di fiori dai colori tetri. La luce al neon si rifrangeva su una coppetta di vetro giallo ruggine. L’odore che si respirava in casa era un misto di cipolle, olio scadente e umidità di biancheria ancora non asciutta; tutto pareva giungesse da un’epoca lontana e sconosciuta…

    Io, varcata quella porta, non ero più la stessa. I miei 24 anni italiani erano stati d’incanto cancellati. Il passato era svanito come mai avvenuto. Lì dentro c’era un’altra vita in un altro tempo. Non era questione di spazio ma soprattutto di tempo.
    Come sonnambula, trascorsi tre mesi in una stanza rivestita da tappeti scuri, accanto ad un grande armadio che conservava vestiti di chissà chi.
    Inna preparava minestre di pollo e borsc, verza e rape rosse fluttuavano in olio torbido. Sulla tovaglia di plastica grigia decorata da rose sbocciate da tempo, antiche posate d’argento stridevano con il contesto. Inna era un fiume in piena, parlava in maniera concitata e decisa quasi io fossi la migliore interlocutrice possibile. Invece non capivo nulla. Ero diventata muta. Lo stupore di essere lì si confondeva con lo sconcerto. I miei capelli non erano più biondo cenere ma castano spento, i miei occhi avevano cessato di ridere e la mia bocca restava serrata come inadatta a esprimere qualsivoglia concetto. Il corpo si era rimpicciolito e la mia età anagrafica, avrei giurato, era rimbalzata trasponendomi in un’infanzia mai vissuta.
    Tutto quello che avevo studiato, tutto ciò che conoscevo era diventato totalmente inadatto alla mia nuova esistenza.

    Ma Inna fumava e anch’io fumavo. Inna beveva birra e anch’io bevevo birra.
    Mi teneva in ostaggio, faceva di me quello che voleva. Svegliarmi, nutrirmi persino spingermi sotto la doccia sotto un fatiscente scaldabagno che perdeva gas.
    San Pietroburgo, dopo la Perestroika, era davvero pericolosa.
    Si diceva che persone venissero afferrate per il collo e strangolate, negli atri dei palazzi, da ladri e malviventi. Dai portoni spesso si accedeva a vialetti e palazzine che poi affacciavano su altre strade. Così chi entrava in un palazzo poteva tranquillamente dileguarsi e comparire, pochi istanti dopo, in altri luoghi non riconducibili al punto di accesso. Ciononostante io uscendo da casa, vinti i legittimi timori, provavo una felicità scriteriata e inspiegabile. La topografia urbana con i suoi vastissimi spazi sembrava fatta a posta per rendere i passanti piccoli spettri, fantasmi. La Neva e i canali ghiacciati con la loro bellezza toglievano il fiato. Non conoscevo ancora le splendide notti bianche di giugno ma scoprivo i potenti giorni neri di novembre. D’inverno si può contare solo su una manciata di ore di luce.
    Arrivare alla cieca in Russia aveva fatto di me una sprovveduta. Ignorante e sprovveduta. Eppure sentivo di avere in pugno la mia vita, stavo seguendo la mia passione. Dopo tre mesi avevo passato il Rubicone: parlavo russo. Ero diventata me stessa.

    Laura Marzano
    Laureata in Lingue e letterature straniere a Lecce. Lavora tre anni per la Fondazione Memmo a Roma. Ottiene una borsa di studio, di lingua russa a San Pietroburgo. Nel 1998 fa uno stage alla Commissione Europea. Lavora dal 1999 al 2004 al Parlamento Europeo come assistente parlamentare. Dopo un anno di consulenza nella sede della Regione Puglia di Bruxelles, nel 2005 si trasferisce al Cairo e nel 2010 a Washington. Ha vissuto anche un anno a Londra. Attualmente vive a Roma.




    3° classificato: le motivazioni della giuria

    Annalisa Maitilasso evoca con efficacia lo spaesamento e il fecondo stupore che colgono l’expat al momento dell’arrivo, dell’incontro con un paesaggio e una cultura radicalmente altri. I «quartieri che si mangiano l’un l’altro, con ingordigia», gli orizzonti ingombri di rottami e di una vegetazione «verdissima», la corsa in taxi tra buche e pedoni spericolati (o «fiduciosi», a seconda del punto di vista) disegnano il ritratto di una Bamako «intransigente» nella sua diversità, mutevole, quanto mai viva e affascinante.


    L’arrivo

    di Annalisa Maitilasso

    Il primo marabut parla solo bambara e comunque parla poco. Lascia cadere lunghi silenzi tra una frase e l’altra aspettando che Amsa faccia rotolare sul tavolino basso les cauries. Sembrano dadi, in realtà sono conchiglie bianche dall’aria genitale.
    Un altro giro di cauries, un’altra predizione. Paghiamo con biglietti croccanti che minacciano di sbriciolarsi. Tocca a me. Devi chiedere qualcosa, mi ordina Amsa, puntandomi addosso un’artiglieria di seni acuminati sotto la maglietta verde. Ma io cosa chiedo che non mi viene niente di niente? Devi chiedere. Va bene, chiedo. La possibilità che non voglia partecipare non ha spessore, non sta da nessuna parte, men che meno in questa stanzetta tappezzata di poster dei calciatori del Barça e scritte coraniche.
    Messi è lì che mi guarda, più sudato di me. E quindi io chiedo, non lo faccio aspettare.
    Vediamo… dove sarò tra un anno?
    Il tempo evapora, les cauries rotolano e finalmente il marabut risponde. Mi guarda negli occhi, capisco qualcosa. Ma Amsa è arrabbiata e mi spinge via senza tradurre il resto.

    Il secondo marabut sta dall’altra parte del fiume. Per raggiungerlo attraversiamo la città intera. I quartieri si mangiano l’un l’altro, con ingordigia. Il taxi saltella nella polvere. Il tassista canta e, senza smettere di cantare, bercia qualcosa a una signora con un cesto sulla testa che ha appena attraversato alla cieca, senza la minima torsione del collo, piena di fiducia in Dio. Tutti hanno fiducia in Dio a Bamako. In Dio, nei feticci, nei gri-gri, nell’aderenza degli pneumatici all’asfalto dissestato, nei cinesi che possono pagarsi i migliori marabuts di tutta l’Africa e, grazie a quelli, costruiranno il terzo ponte sul Niger in tempi record.
    Nonostante il viaggio di un’ora in taxi, ce ne andiamo deluse. Il secondo marabut non è in casa.

    Il terzo che visitiamo è un feticheur, membro di una rinomata scuola magica. È anche un tipo gioviale e spiritoso che si esprime dando pacche sulle spalle di Amsa. Lei dimagrisce a colpo d’occhio tanto è nervosa. Amsa esige un servizio specifico ed estrae da una bustina un robusto pelo pubico. Ha fretta la mia amica, il santone no. Tira fuori un album di famiglia pieno di ragazzoni sorridenti che posano, come se fossero in gita, davanti a pezzi sparsi di animali sacrificati. Un po’ mi preoccupa Amsa; vedo sporgerle dagli occhi una personalità intransigente. Non si accontenterebbe mai dell’augurio “fortuna in amore”, lei vuole un matrimonio azzeccato con gravidanza a corto giro.

    Discutono. Il pelo è contaminato, non va bene.
    Saliamo in collina per cercare Madame Fatou, una signora dai vasti poteri medianici. Bamako finisce lì, in un prato verdissimo cosparso di carcasse di automobili. Anche il sole è andato a finire là sotto e io non me ne sono accorta: il tramonto è frettoloso da queste parti. Resta qualche avanzo di giorno in cima ai tetti di lamiera scintillante. Un riverbero in fondo alle pupille di Madame Fatou. Assorbono tutto quelle pupille roventi, anche le speranze della mia amica seduta su un muretto in attesa di una boccetta d’acqua miracolosa. Quando Madame mi scorge, ha un guizzo d’odio: non le va a genio la mia pelle scolorita. Me ne accorgo e comincio a tremare. Spero sia solo malaria e non qualcosa di più grave e arcano, frutto di un oscuro sortilegio.

    Ad ogni modo, ho deciso di accompagnare Amsa fino alla fine, o almeno finché non riesce a strappare la sua promessa di un matrimonio rapido e sicuro. L’ho deciso un paio di settimane fa in aeroporto, quando lei mi ha salvato da una folla di acchiappaturisti. Mi ha riconosciuta, nonostante la mia faccia disorientata. Prima volta in Africa? Ha chiesto in un francese rilassato. Non ricordo nemmeno di averle risposto. Lei ha raccolto le mie valige, caricato in macchina il mio corpo inutile, per via del viaggio e dello stupore di tutto, e mi ha portato a casa sua, un piccolo albergo a conduzione familiare con un cortile foderato di buganvillee. Le sono riconoscente. Col tempo, siamo diventate anche amiche. Lei mi tratta con sufficienza, io la osservo con una curiosità offensiva: abbiamo trovato il nostro equilibrio, entrambe prive di sentimentalismi rispetto all’amicizia.

    È notte e io dormicchio su una sdraio di plastica nel cortile di casa. Amsa si è infilata in bagno ad armeggiare con la boccetta. Io sto bene. Il tremito si è rivelato un banale colpo di sole, sparito appena ho messo piede in casa. In fondo Madame Fatou non era altro che una ragazzona volubile, a tratti espansiva e assai svelta nel convincermi a comprare un amuleto.
    Guardo le nuvole nere e ascolto i fantasmi. A Bamako ci sono rumori strani che vengano da sottoterra. Penso che avrei potuto fare mille altre domande al marabut. Come andrà la mia ricerca? Finirò mai il dottorato? Sarò mollata nel frattempo? Mi ammalerò di malaria? Mi porterò dentro quest’Africa prepotente per sempre?
    E invece ho chiesto: dove sarò tra un anno? E lui ha risposto: su! Con gli occhi al cielo.

    Annalisa Matilasso
    Mi chiamo Annalisa. Ho vissuto in città diversissime: Bamako, Toulouse, San Francisco, Tokyo, Rabat, Venezia, Madrid, ognuna pazza a modo suo. Di notte, faccio sogni sovraffollati in cui i paesaggi si mescolano. Di giorno, vivo una vita abitudinaria, senza uscire quasi mai dal mio quartiere, la Latina, nel centro di Madrid. Scrivo per tenere al guinzaglio il mio italiano che altrimenti scappa da tutte le parti.

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