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Dopo trent’anni
di teresa righetti
Ci ho sempre visto poco.
Da ragazzetta andavo a bottega da una sarta su per il vicolo. Aveva una stanzetta con un tavolo di legno e ci stava seduta dietro a spiegarci come cucire al dritto e al rovescio. Eravamo quattro o cinque ragazze, dipendeva dai giorni. Io portavo un paio di occhialetti tondi che mi si erano rotti mentre correvo sulle scale, un giorno che ero in ritardo e mamma voleva essere in chiesa presto. Ci avevo agganciato un laccio: me lo tenevo in bocca per farmeli stare sul naso, mentre cucivo. L’ho sempre odiato – cucire – ma non si poteva fare molto altro, ai tempi, e a scuola mi ci hanno mandato fino alla quinta, non di più. Ci ho perso la vista – a bottega.
Non ho mai avuto i capelli troppo lunghi o troppo cotonati, non ho mai messo orecchini pendenti, anche se andavano tanto. Con gli occhiali stanno male: fanno disordine, sono esagerati. Ne avevo anche un paio da sole: me li sono fatta fare dall’ottico del Borgo che ero già sposata. Ho portato gli stessi per vent’anni, senza nemmeno sapere se mi stavano bene. Se mi stavano bene gli occhiali in generale. Ma alla fine facevano parte della mia faccia, da che mi svegliavo a che andavo a dormire: quando tutti hanno iniziato a mettere le lenti a contatto ero ormai così abituata a vedermi con gli occhiali che senza non mi sembravo più io.
Ci ho sempre visto poco, comunque.
La miopia non si fermava. Cambiavo lenti e montature, ma il mio mondo era sempre un po’ a chiazze, i colori erano sempre un po’ confusi – il verde con il grigio, il giallo con il bianco. Ero sempre un po’ spaesata, in mezzo alla gente, al mercato delle erbe, in piazza alla processione del Venerdì Santo. Inciampavo. Ho passato una vita – a inciampare.
Ma com’era bello il Natale! A volte, la sera, mentre passeggiavo a braccetto con Adele avanti e indietro per il Corso, mi facevo scivolare gli occhiali sul mento e guardavo le luci che passavano da una parte all’altra della via: grossi soffioni luminosi, e intorno un buio nero nero di ombre che passavano senza potermi vedere. Perchè se togli gli occhiali il mondo sparisce, e tu sparisci con lui.
Mi hanno operata di cataratta all’occhio sinistro, dieci anni fa. Avevo iniziato a vedere peggio del solito: le cose erano diventate opache, annebbiate, come se le guardassi attraverso una spessa patina di sabbia. Ricordo di essere stata quasi una settimana a letto, dopo. La lente sinistra dei miei soliti occhiali era troppo forte per il mio nuovo occhio – che aveva perso tutte le diottrie e ci vedeva quasi bene. Con gli occhiali mi sentivo strabica ma senza ci vedevo doppio.
Quando è successo la seconda volta, il dottore mi ha detto – Questa volta la facciamo con il laser – l’operazione, intendeva – non sentirà niente.
Ma un po’ di paura ce l’avevo comunque. Da giovane sognavo spesso di essere cieca, degli incubi terribili! Dormo ancora con la tapparella un po’ alzata – che se mi sveglio di notte e intorno c’è buio pesto mi piglia un colpo.
Ma il chirurgo – che è lo stesso che cura mia figlia da vent’anni – dicono che è uno dei migliori d’Europa. Quando sono arrivata in ospedale, è venuto a presentarsi, mi ha preso una mano e mi ha tranquillizzata. Non sentirà niente – ha ripetuto, e mi ha guardato attraverso le lenti con i suoi occhietti piccoli. Uno sguardo buono, comprensivo. Sembrava dire – la capisco – e il suo “non sentirà niente”: una promessa sincera da mantenere a costo della vita. A dopo – gli ho detto – ma ho continuato a stringergli la mano finchè lui non mi ha dato dei leggeri colpetti sul palmo, con la sua, e se n’è andato sorridendo.
Io sono rimasta lì nella sala d’attesa, con i miei pantaloni del pigiama bianchi a fiori rosa, sbiaditi, e il camice verde tutto aperto sulla schiena.
Eravamo in quattro. Un signore ancora più anziano di me, una donna sulla quarantina con i capelli rosso fuoco e un’altra in ciabatte di pelo. Tutti con lo stesso camice. Ci siamo alzati tutti contemporaneamente, quando sono venuti a chiamarci.
Sono scesa in sala operatoria con le mie gambe, accompagnata da un’infermiera che era tutta chiara. L’ho guardata da vicino, in ascensore: non era giovane e non era vecchia, non era bella e non era brutta, ma molto gentile sì – e chiara, anche. Un’infermiera gentile in zoccoli e pantaloni bianchi che non la smetteva di chiedere e parlare e sorridere. È rimasta di fianco al mio letto durante tutta l’operazione – insieme a un’altra a cui non ho dato un volto, perchè mi hanno tolto gli occhiali appena superate le porte automatiche della sala.
Mi hanno fatto sdraiare e mi hanno tenuto aperto l’occhio tirandomi le palpebre con qualcosa che sembrava un foglio di carta, poi ci hanno fatto un buco e mi hanno puntato in faccia una luce. Ho visto solo questo – mentre il dottore tagliava e pinzava e sollevava e chiedeva strumenti e metteva gocce – luce. Ma ho sentito ogni piccolo tocco come se mi arrivasse direttamente al cervello.
Mi hanno dimessa il pomeriggio. Sono tornata a casa in macchina con mio nipote, con i miei occhiali infilati in una busta di carta gialla. Me li rigiravo in mano come se non aspettassi altro che rimetterli e scoprire cos’era cambiato. Non mi accorgevo che l’occhio sinistro, anche senza lente – anzi, proprio senza lente! – già distingueva i contorni delle cose. Tutto il mondo era sempre stato lì – e io semplicemente non ero riuscita a metterlo a fuoco. Un mondo a metà.
L’ho tenuto ben chiuso durante tutto il tragitto – l’occhio – e anche dopo, a casa, sdraiata sul divano con la coperta sulle ginocchia.
Quando si è fatta sera, mi hanno chiamata per cena.
Mia figlia mi ha aiutato ad alzarmi, mi ha accompagnato in bagno, mi ha tolto la benda lentamente per non farmi male. Mi sono rimaste le ciglia tutte incollate, ho sbattuto la palpebra a fatica, temevo di non riuscire più ad aprirla.
Nello specchio c’era la stessa faccia di sempre: un ovale poco preciso, lineamenti indistinti, due tondi neri senza contorni, una macchia grigia in cima alla testa. La mia faccia senza gli occhiali – una non faccia.
Ma mentre mia figlia mi guidava fuori dal bagno, lungo il corridoio, porta dopo porta, ho iniziato a mettere a fuoco i dettagli: un quadro storto sulla parete, un cartello con scritto “non disturbare”, un paio di scarpe di pelle abbandonate in un angolo.
E sì che ci ho sempre visto poco.
Poi ho attraversato la porta finestra e ho visto il mondo come non lo vedevo da tanti di quegli anni da non saperli più contare. E avevo ancora nella tasca della gonna, ben stretta tra le dita, la busta gialla degli occhiali – che da un momento all’altro avrei dovuto tirarli fuori, e qualcosa sarebbe cambiato.
Invece era già cambiato, e io semplicemente non me n’ero accorta.
Appoggiata al parapetto di pietra, con la testa all’indietro, dopo trent’anni ho visto le stelle.
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