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Matteo Giordano è il terzo classificato al premio Laventicinquesimaora

    Dalla fine degli anni Ottanta, di Matteo Giordano

    Matteo Giordano è il 3° classificato al premio letterario “Laventicinquesimaora”, dedicato al racconto breve.

    La traccia del premio, che quest’anno è giunto alla sesta edizione, è stata pubblicata il 28 novembre e i partecipanti hanno avuto venticinque ore per scrivere un racconto di massimo 3.600 battute. Il tema di questa edizione è “Ma il cielo è sempre più blu”: ai candidati è stato chiesto di scrivere una storia completamente ambientata all’aperto.


    3° classificato: le motivazioni della giuria

    Dalla fine degli anni Ottanta presenta, nonostante la brevità, una struttura temporale complessa, incentrata sul «movimento tra un prima e un dopo» (Federico Baccomo), su un trauma infantile che, apparentemente slegato dal resto, costituisce sia il tirante della storia (con finale a sorpresa), sia l’ombra che aleggia nella voce narrante e ne cadenza il racconto – quel “dalla fine degli anni Ottanta” che funge da leitmotiv, incatenando presente e passato.


    Dalla fine degli anni Ottanta

    di Matteo Giordano

    Ho investito la signora Lattanzi. L’ho messa sotto con la bici.
    Filavo veloce sul pavé del centro storico lungo la ZTL presa contromano mentre la signora Lattanzi usciva dalla macelleria: non la vedevo dalla fine degli anni ottanta, ma in quei due secondi in cui la misi a fuoco feci in tempo a riconoscerla. Si era piantata in mezzo alla strada e non c’era stato modo per me di evitarla. Sentii chiaramente il rumore delle ossa che si rompevano, il naso spezzato come un grissino quando lo colpii con la spalla; avevo messo i piedi a terra evitando di cadere, lei era volata di qualche metro facendo schizzare in piedi un gruppo di anziani al tavolino del bar Centrale. La gamba destra della signora Lattanzi era piegata innaturalmente, l’avevo sbriciolata dal bacino in giù.
    Più tardi dissero che il cuore le si era fermato praticamente subito.
    Far sistemare la forcella anteriore della bici danneggiata nello scontro mi sarebbe costato qualche turno extra al ristorante.
    C’era un cielo azzurro d’inverno, di inverno al nord, con la luce di metà mattina che riflette il ghiaccio sui tetti e contamina la purezza dell’aria. Con la signora Lattanzi ancora a terra mi era venuto di guardare le nuvole: non lo facevo dalla fine degli anni ottanta.
    Il posto migliore dove guardare le nuvole è lungo il canale che dal fiume corre fino alla centrale elettrica: non ci vado dalla fine degli anni ottanta ma credo sia ancora così; da piccolo pensavo che le nuvole fossero timide, in genere passano veloci e solo se non si accorgono che le stai guardando prendono forma; io ci vedevo un sacco di cose, ero diventato talmente bravo che era come guardare un film di cui si può decidere la trama: credevo fosse la più bella forma di distrazione possibile, il modo migliore di trascorrere i pomeriggi d’Agosto fra i compiti delle vacanze e il Festivalbar. Ma la distrazione può essere pericolosa.
    Un giorno mentre guardavo incastrarsi due nuvole che parevano pezzi del Tetris, seduto ai bordi del canale, venni distratto dal rumore scoppiettante di un Ciao bordeaux. Il Ciao ce l’aveva anche mio fratello maggiore e così avevo risposto quando il tizio in canottiera e pantaloncini mi aveva salutato; era uno del quartiere, anche se io non ci avevo mai parlato: mi faceva impressione il suo labbro leporino.
    Calzava delle Espadrillas bianche e mi aveva domandato se sapessi come si arrivava al fiume.
    «Stai attento quando vai al fiume», mi diceva sempre mio fratello agitando l’indice, «la gente ci va in camporella, oppure a farsi. Lo sai che cosa vuol dire andare in camporella?»
    Indicai al tizio col labbro leporino il sentiero che arrivava al fiume.
    Con voce tranquilla mi chiese se lo potevo accompagnare mentre teneva il motore del Ciao su di giri.
    Balbettai qualche scusa: era tardi, dovevo andare, i compiti delle vacanze, il Festivalbar.
    Muovendo ancora il labbro leporino disse che aveva un sacchetto di patatine e aggiunse che mi avrebbe fatto un massaggio alle gambe.
    Ho sempre pensato di essere stato un cagasotto: calci nelle palle e via di corsa, ecco cosa avrei dovuto fare, ma dopo è sempre troppo facile parlare. Tutta colpa delle nuvole.
    Al funerale della signora Lattanzi, fuori della chiesa tra gente del quartiere che non vedevo dalla fine degli anni ottanta, c’era anche suo figlio; mi dava fastidio guardarlo in faccia, non per un senso di colpa ma perché proprio non potevo sopportare il suo labbro leporino.
    Ero talmente in pace per avergli ammazzato la mamma che quasi mi dispiaceva non avere fatto la comunione.

    Scuola di scrittura Belleville