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“Anatolia”. Uno dei tre testi vincitori della borsa di studio Giuseppe Pontiggia

    Anatolia, di Acelya Jonac

    Anatolia di Acelya Yonac è uno dei tre racconti vincitori della borsa di studio intitolata a Giuseppe Pontiggia per la 5° edizione della Scuola annuale di scrittura.


    Il corso, che inizierà il 9 novembre, prevede 300 ore di lezione, esercizi e pratica dedicate alla scrittura narrativa, all’editoria, alla sceneggiatura e al giornalismo. Tra gli insegnanti Walter Siti, Laura Pariani, Giorgio Fontana, Andrea Tarabbia, Piero Colaprico, Francesca Serafini, Sandrone Dazieri, Nicola Fantini, Edgardo Franzosini, Barbara Gatti, Stefano Raimondi, Edoardo Brugnatelli, Martino Ferro, Matteo Caccia, Loredana Lipperini, Enrico Ernst, Matteo Speroni.


    Per le iscrizioni entro il 15 ottobre è previsto uno sconto del 10%
    : tutte le info sul sito di Belleville.


    >> Anatolia

    di Acelya Yonac

    Divora. E divori lo spazio che mi separa dal mio nome. Quelle prime voci fuori dalle finestre delle case lo hanno cantato per la prima volta. La mattina, una domenica di settembre di pioggia, qualche goccia esile, timidamente è scesa sul bianco delle grate, le grate delle finestre, le finestre delle bambine che non possono uscire di casa, e così sussurrano nomi trascinando le loro esistenze con il vento tra i vicoli, guarda è nata. Tra le grate, è nata, piove senza vento, si chiama Anatolia. Ricordo quella mattina e la sua acqua magra a riposo sul terreno, sulle rocce, sui tetti rossi delle case quasi a renderle marroni per poi scappare in fretta verso mezzogiorno con il sole, colorare tutto come prima, niente macchie, solo quello che è sempre stato nella sua semplicità. Poche strade, poche case, poche famiglie, pochi bambini, poche femmine. Ne rammento il racconto. Quando nasce una nuova vita nel villaggio, guardano al cielo, alle nuvole, contano le gocce se piove, e se non piove è una giornata senza pioggia. Ogni nascita si divide così, tra pioggia e sole, senza mai decidere se una è più fortunata dell’altra, e le bambine guardano tra le grate, e passano gli anni, le nuvole diventano tempeste.

    Davanti alla mia finestra una sedia di legno con il sedile in kilim sgualcito dai pomeriggi passati a osservare l’albero davanti a casa cercando di vedere oltre le foglie quando cadono in autunno, oltre la strada, oltre l’angolo in fondo alla strada. Chiamano il mio nome e appoggio il mento nel palmo della mano e chiudo le dita come per affacciare il viso in punta di collo un centimetro oltre prima che il freddo di queste regioni montagnose non cali nella valle e il buio non attutisca le voci che cantano per annunciare le nascite e i morti, i matrimoni e le guerre. La finestra rimane chiusa al mondo, l’inverno è bianco e nero, e gli altri non esistono, nessuno mi chiama per nome se non con un cenno del capo, uno sguardo nel bagliore del fuoco, e io guardo la sedia e aspetto la sedia, anche se la sedia è lì e non si muove. Non è il momento.

    L’autunno è la mia stagione preferita, si aprono nuove cornici tra gli alberi e posso rifugiarmi nella mia stanza, dove sono nata, e aspettare. Cammino a piedi nudi e pettino i miei capelli, poi mi siedo e chiudo gli occhi e li riapro, ogni volta qualcosa di nuovo sfiora i colori della mia cornice, un uccellino fa irruzione sui rami, una foglia rossa cade, una vola lontano e vado con lei. Vado. Muovo i miei piedi sotto le mie ginocchia piegate sulla sedia, sotto la gonna, sotto strati di tessuto, i miei piedi sono sporchi come se avessi camminato per miglia, è solo che sono anni che sono scalza, non ho mai messo le scarpe, non sono mai uscita fuori dal giardino. Solo il mio nome è andato oltre il cancello. Tutti sanno chi è nato, tutti sanno chi è morto. Io sono nata, Anatolia, sono ancora qui, finché non pronunciano il mio nome tra le grate, sono ancora qui. Un giorno cambierò casa, e mi mancherà il mio albero.

    Scendo a raccogliere una foglia rossa, è caduta sotto l’albero, quasi ad accarezzarne le radici. La nascondo sotto il cuscino, le camere non hanno porte, non voglio che buttino la mia foglia solo perché è morta. Quando dovrò andarmene la porterò con me, bisogna sempre portarsi un ricordo, per non dimenticare tutti i giorni che ho passato a guardare l’albero seduta davanti alla finestra. Anche io perdo le foglie, e sono rosse, come un albero da poco anche io ho le mie stagioni. Le camere non hanno porte, e le stanze non hanno segreti, nella nostra casa sussurri scivolano tra le pareti e dovrò imparare a camminare con delle scarpe per andarmene, presto dicono, presto avrò una nuova casa. Della mia infanzia non ho altro che una foglia d’autunno nascosta tra le federe del cuscino. Il giorno della partenza la dimentico lì, dimentico tutto, e non m’importano le vie che attraversiamo, sono poche, come sono le mie scelte.

    Una nuova finestra, un nuovo albero. Aprono le finestre, s’innalza un canto tra le grate, si diffonde orchestrale in tutto il villaggio, alzano in cielo la bambina che è nata tra le cosce di un’altra bambina, il suo nome accende le voci di tutti gli abitanti, non piove, non c’è il sole, solo una grande nuvola che promette tempesta. Mi siedo così per giorni e mesi con la bambina in braccio a osservare il frammento di cielo. Sgozzano l’agnellino in giardino, i miei piedi scalzi rossi sulla pianta, rosso è il presagio della vita e della morte, è un giorno di festa e mangiamo l’agnellino e ne mandiamo un po’ alla famiglia di Mine che è povera. Mine mi porta la frutta dal mercato, non mi porta nient’altro.

    Un giorno le chiedo di dimenticare il cancello aperto, ricordati dell’agnellino le dico, ricordati di tutto, lascia il cancello aperto, dimenticalo. I miei piedi sono rossi non li ho ancora lavati, calpesto l’erba, la terra, niente è pulito, dico. Se piove sulla strada sarà come rinascere. Fa caldo, è estate. Manca poco alla fine di quelle giornate di luce. Ogni mercoledì, dopo il mercato, Mine porta la frutta e la verdura, mi muovo in cucina con in braccio la bambina, le donne si mettono al lavoro, io rubo un frutto ed esco in giardino. Appoggio la bambina sull’erba. Dimentico le scarpe nell’armadio, le ho messe solo una volta, per venire qui. Scivolo via dal cancello dietro, cammino nel deserto delle strade dell’Anatolia, nei campi, i miei piedi si coprono di terra ocra. Non aspetto più. Forse qualcosa sta aspettando me, e ho capito male, ho capito male la vita. Sono ancora in tempo per andargli incontro, per camminare, mi volto un paio di volte, o forse dovevo aspettare, come farà a trovarmi ora? Se continuo a muovermi di continuo?

    Come la foglia d’autunno tra le mie federe del cuscino, sono un autunno tra le stagioni della vita, eppure quest’anno è la mia estate.

    Le grate bianche sono silenziose. Ogni nome è ripetuto due volte, una volta alla nascita, una alla morte. Per i nomi che vagano per non tornare, non ci sono tradizioni. Chi leggerà il suo nome quando dovrà essere accolta nell’aldilà, si chiede il marito. Chi farà della sua vita un canto, piange la figlia. Un nome che è una geografia non può vagabondare all’infinito.

    Sotto i piedi scalzi c’è la terra. Sopra la testa il cielo.

    Tra la nascita e la morte, lascia che divorino il tuo nome. In quel tempo vissuto tra i due mondi c’è la tua vita, prima e dopo esiste il divino, ed è questo che cantano, e presto dimenticano. Tra la gioia e il dolore, sono attimi nell’attesa. Si può aspettare in giardino o camminando, senza sosta. Dimentica il mio nome, perché vorrà dire che sono morta, lascia che io sia nata e te lo abbia detto il mio nome, il resto è un mistero, come lo è vivere, come lo è sparire.

    Lascia che nessuno sia padrone del mio nome, delle mie stagioni, delle mie cosce, dei miei piedi. Lascia che il mio sangue sia dei poveri e che io non appartenga a nessuno, e che io non sia solo un racconto, una parola.

    Bianche grate in case di fango. Sono come le foglie dell’albero. Cado oppure volo lontano.

    Scuola di scrittura Belleville