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Menti estese. Cinque domande a Francesco D’Isa

    Immagine Essential Grid

    Francesco D’Isa, videoartista digitale e filosofo, è il docente del workshop gratuito su scrittura e IA che si terrà il 17 e 18 ottobre a Milano.
    Il workshop fa parte del percorso “Dimostra di essere umano – Scrivere storie al tempo dell’IA” un progetto Belleville e Lenovo in collaborazione con Intel.
    I posti sono limitati: per candidarsi basta completare il form disponibile su questa pagina allegando un racconto breve sul rapporto tra intelligenza artificiale e creatività. C’è tempo fino al 31 luglio.

    Abbiamo chiesto a Francesco di raccontarci in che modo lavora con l’IA e cosa si propone di fare nelle due giornate di laboratorio.

    Buona lettura!

    1. Come e quando hai iniziato a interessarti all’Intelligenza Artificiale?

    Fin da ragazzo ho guardato con curiosità tutto ciò che toccava il digitale nell’arte. Il vero “clic”, però, è arrivato intorno al 2015, quando Google pubblicò i primi esperimenti di DeepDream: quelle immagini oniriche, un po’ visionarie e un po’ inquietanti, mi hanno fatto capire che l’intelligenza artificiale non era solo un nuovo strumento tecnico, ma un territorio concettuale estremamente interessante.

    Da allora ho iniziato a studiarla anche filosoficamente: mi interessava capire come (e se) cambia la nozione di autore, di originalità e persino di immaginario quando lo strumento di lavoro diventa un sistema statistico. Nel 2018, per mettere alla prova queste domande, ho cominciato a sperimentare con le GAN [Generative Adversarial Network NdR]: era un processo ancora primitivo, con risultati spesso imprevedibili, ma proprio per questo affascinante.

    Negli anni successivi gli strumenti sono diventati più accessibili e sofisticati: Midjourney e Stable Diffusion, ad esempio, mi hanno permesso di intrecciare parole e visioni e a creare una graphic novel come Sunyata. Ancora oggi continuo la mia esplorazione e approfondisco il dialogo tra parola e immagine, che ha sempre fatto parte della mia personale ricerca poetica e intellettuale. 

    2. Che impatto ha avuto lo sviluppo dell’IA sul tuo immaginario e sul modo in cui scrivi?

    Paradossalmente, direi “pochissimo e moltissimo” insieme. Pochissimo, perché il mio metodo di lavoro e il mio immaginario erano già predisposti a fare spazio all’imprevisto: non ho mai creduto a una visione romantica dell’autore come fonte incontaminata di idee; da sempre coltivo il riuso, il montaggio, l’errore come motore creativo. In questo senso, l’arrivo delle IA non ha scardinato il mio processo ma ha trovato un terreno ospitale, quasi inevitabile.

    Allo stesso tempo, l’impatto è stato enorme. I modelli generativi moltiplicano la dimensione della possibilità: ogni prompt è una biforcazione che spalanca scenari visivi e semantici prima impensabili. Questo accelera la mia scrittura in due direzioni. Primo, la casualità: lasciar emergere immagini o testi inattesi, farne attrattori semantici e poi costruirci intorno narrativamente. Secondo, la sottrazione: più gli algoritmi producono ridondanza o tendono a uno standard, più sento la necessità di deviarli, di togliere il superfluo per far emergere quel che sento come più personale.

    Il risultato è un processo quasi zen: affido all’IA una fase di espansione e poi rientro, con calma, per decidere cosa deve restare e come. L’intelligenza artificiale diventa così un fattore di potenziamento cognitivo, non un sostituto: amplifica le traiettorie intuitive, si adatta alla mia logica di collage e di flusso, ma lascia a me la responsabilità dell’ultimo taglio, del ritmo e del silenzio.

    3. Cosa ti ha stupito di più lavorando con l’IA?

    La rivelazione più forte è stata avere sotto gli occhi una prova quasi tattile della “mente estesa” teorizzata da Andy Clark e David Chalmers. Lavorando con i modelli generativi, mi è diventato lampante che il pensiero non è mai stato un monologo chiuso nella mia testa: anche prima dell’IA era già un processo dialogico con strumenti, testi, immaginari altrui. L’intelligenza artificiale rende però questa dinamica visibile in tempo reale; vedi letteralmente l’idea che si prolunga fuori da te, prende forma in un’immagine o in una frase, ti rimbalza addosso e rimodella il flusso mentale.

    In altre parole, l’IA non introduce l’alterità nel pensiero, la amplifica e la porta allo scoperto. È come se, dopo anni in cui percepivo questa compresenza di mente e ambiente, qualcuno accendesse la luce e mi mostrasse l’intera architettura cognitiva: neuroni, prompt, dataset, citazioni, ricordi, tutto nello stesso circuito di elaborazione. Ed è lì che capisci quanto ogni atto creativo sia co-prodotto, quanto l’autorialità sia sempre già condivisa. 

    4. A ottobre le autrici e gli autori dei dieci racconti finalisti della open call “Dimostra di essere umano” parteciperanno a un workshop di scrittura & IA tenuto da te. Come saranno strutturate le lezioni? Che esercizi proporrai? E qual è l’obiettivo del corso?

    Immagino il workshop come un percorso in tre tappe, pensato per trasformare l’IA da oggetto ostile a compagna di scrittura. Prima di tutto apriremo la scatola: dedicherò le prime ore a raccontare che cosa c’è davvero sotto il cofano di questi modelli, dunque architetture, dataset, statistica, bias. Farlo è indispensabile, perché troppo spesso si giudica l’IA (nel bene o nel male) senza sapere come funziona. Analizzeremo insieme il testo generato, lo sezioneremo frase per frase per capire da quali pattern nasce e dove inciampa. È un modo molto concreto per conoscere pregi e difetti di queste tecnologie.

    Poi passeremo a usarla in modo “standard”. Lavoreremo sul prompt design, dalle istruzioni più semplici fino a quelle stratificate, e proveremo subito qualche buona prassi ed esercizio. Infine, la parte per me più divertente: imparare a deviare la macchina, cioè portarla fuori strada in modo creativo ed etico. Qui introdurrò tecniche di “glitch poetico”: vincoli formali bizzarri, richieste paradossali, sperimentazioni di prompt inusuali che costringono il modello a uscire dalle sue frasi fatte. Chiederò poi a ciascun partecipante di dare all’IA un campione del proprio stile, per vedere quanto riesca a imitarlo e, soprattutto, per capire se e dove l’originalità resiste. L’obiettivo complessivo è duplice: offrire strumenti pratici che velocizzino la stesura, e, allo stesso tempo, affinare uno sguardo critico che sappia riconoscere quando l’algoritmo diventa davvero utile e quando rischia di uniformare il lavoro creativo.

    5. Quali sono, dal tuo punto di vista, i miti o gli equivoci da sfatare connessi allo sviluppo dell’IA?

    Ciò che più mi preme smontare è la cortina di miti che avvolge l’intelligenza artificiale e che finisce per distorcere la posta in gioco. Il primo, forse il più diffuso, è l’idea che l’IA strangoli la creatività: come se potendo generare testi o immagini la macchina espropriasse l’artista del suo compito. In realtà non c’è nulla che nasca dal nulla. I modelli ci costringono a riconfigurare l’asse dell’invenzione, con meno enfasi sul gesto “ex nihilo” e più sulla scelta, sull’interpretazione, su ciò che, storicamente, definisce maggiormente la natura di un’opera umana.

    A questo si aggancia la fantasia che l’IA possa fare tutto da sola, lasciandoci semplicemente a guardare. È vero che può sbrigare la parte più meccanica e iterativa del lavoro, ma ogni suo output rimane sospeso finché qualcuno non lo accoglie, lo controlla, lo giudica. Senza di noi l’AI è un oggetto inerte e quando la usiamo abbiamo la responsabilità delle parole o immagini che facciamo nostre.

    Un altro equivoco, alimentato da titoli sensazionalistici, è che queste tecnologie abbiano già raggiunto o stiano per raggiungere un’autonomia quasi sovrumana. In realtà si tratta di motori statistici potentissimi, sì, ma privi di memoria biografica, di motivazioni, di un progetto sul mondo. Il pericolo dunque non è una coscienza aliena che si emancipa, quanto piuttosto la nostra tendenza a mitizzarla, attribuendole un’aura d’infallibilità che giustifica scelte opache o irresponsabili. E, soprattutto, chi la controlla e possiede – umani, insomma.

    Dire quindi “dimostrare di essere umani”, per riprendere il nostro titolo, implica ammettere che la nostra mente non è mai stata un’isola: è sempre stata estesa, ibridata con utensili, archivi, tecniche di memoria. L’IA non fa che rendere evidente questa condizione di co-produzione. Riconoscerlo è il primo passo non per difendere una purezza inesistente, ma per esercitare quella responsabilità creativa che, proprio in quanto ibridi, siamo chiamati a rinnovare. In altre parole, “dimostrare di essere umani” significa imparare che non lo siamo mai stati. 

    Francesco D'Isa

    Filosofo e artista digitale, ha esposto internazionalmente in gallerie e centri d’arte contemporanea. Dopo l’esordio con la graphic novel I. (Nottetempo, 2011), ha pubblicato saggi e romanzi per Hoepli, effequ, Tunué e Newton Compton. Il suo ultimo romanzo è La Stanza di Therese (Tunué 2017), mentre per Edizioni Tlon è uscito il saggio filosofico L’assurda evidenza (2022). Di recente pubblicazione la graphic novel Sunyata per Eris Edizioni (2023). Direttore editoriale della rivista culturale L’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste, italiane ed estere.