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Stefano Raimondi
>> Il cane di Giacometti
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Venerdì 5 giugno 1987
A bunda, duas luas gêmeas em rotundo meneio. Il culo, due lune gemelle in tondo dondolio, cantava il poeta. Nel miracolo d’esser due in uno, pienamente. Gabriel Robernilsen de Rocha quel poeta non l’aveva mai letto, no. Però fin da ragazzino l’aveva fatta semplice, lui: Gabriel di giorno, Gabriela di notte. Quel fisico che lo rendeva un giovane maschio di tutto rispetto – muscoli lunghi e duri, arnese robusto, pettorali pompati al punto giusto in palestra e culo di marmo ben tornito (a bunda é a bunda, redunda: il culo è il culo, a tutto tondo, concludeva l’ode Drummond de Andrade, brasileiro come Robernilsen) – con il favore della luna gli consentiva di tramutarsi in una seducente ragazza dal seno ancora acerbo, men che mezzo meloncino di Cavaillon, seconda misura scarsa; una seducente ragazza, pelle color melassa dono di una nonna chocolat e felini occhi verdi eredità del nonno portoghese. Chi fossero i nonni per parte di padre, e chi poi fosse il padre – chissà?
Quella sera aveva scelto una balera dalle parti del l’Ortica, già dopolavoro dei ferrovieri. Ma questo Gabrielita non poteva saperlo, faceva parte di un passato milanese a lei estraneo. Lo sapeva bene, invece, il Lombardi, il Pepp Lombardi, el pusée bon trumbé, il miglior idraulico da quarant’anni sul mercato di Lambrate, affidabile, eh, «son minga un teròn» amava ripetere, «anca se noi lombard sem semper pusée pochi, chichinscì» aggiungeva subito ammiccante: e il Pepp sapeva bene che lì, al Rosamunda, che mò da un anno se ciamava Miradatango, chissà perché, fin gli anni del boom c’era stato il Circolo Ferrovieri, che poi, con lo sboom, si era… come si diceva anmò? riciclato, sì, ecco: si era riciclato. Ci veniva ogni tanto a ballare, lui, che ci piaceva il lento, e più adesso che era rimasto vedovo, e quella sera, che il tempo già quasi diceva estate per afa e calura, si era portato dietro il nipote, il figlio di sua sorella, che di rubinetti e viti non ci capiva un niente che era un niente ma a calci in culo un diploma di perito l’aveva pur preso. Emidio, se ciamava, come il nonno, cioè il padre del Pepp e della Maria: ma siccome che la Maria s’era regolarmente sposata, e in chiesa, Emidio di cognome faceva Giavazzi. E quella sera l’era pusée gandula del sòlit, gabian e müff in ta’l cantòn, non ballava, non rideva, faceva nagotta, doma sbavigliare.
«Dai, zio, ci ho sonno».
Un cadenass. E il Pepp, invece, oh, proprio in quel momento aveva incrociato due fanali verdi, un vestito rosso, una pantera nella balera, un poco acerba di pere, forse, ma che cosce, che gambe, che panettone! E come li sapeva muovere, quei bei marmocchi! La camicia aperta sino al barborin, i jeans stretti sotto lo stomaco sporgente, il Pepp decise che era l’ora di scatenarsi in qualcosa di più trasgressivo ed erotico di un lento. Con quelle mele, eh, che mele! che mele!, altroché lenti, non ci voleva men che una samba, un mambo, una beguine di quelle vere!
Proprio in quell’istante, manco gli avesse letto nel pensiero, quasi avatar del maestro Pippo Barzizza, il lasagnone che dirigeva quei quattro disperati travestiti da orchestra attaccò una rumba, la Rumba tabù: negrite appassionate… e appassionato il Pepp si lanciò.
Ben presto i fanali verdi lo misero a fuoco. E, incredibile, la pantera non distolse lo sguardo. Anzi: sorrise! Soldi? Ma anca füdess, ben disposto a pagare, certo!
«Zio…»
Liquidò quel pirla dell’Emidio con due fogli da dieci, più che bastanti per un taxi: lo dicesse pure, in famiglia, ma lui, ed or che più divina / la notte s’avvicina, lui a quella pantera no che non rinunciava. Ritornò in pista.
Ora ballavano vicini vicini, e lei gli strofinava la coscia tanto che le altre coppie li lumavano un po’ infastidite. Peggio per loro, pensò il Pepp, rosso in volto, e ci si mise d’impegno. Poi, quando rimase senza fiato, le propose di bere qualcosa.
«A casa mia?» chiese lei in un sussurro profondo. Tombola, pensò lui.
Fuori, «Sei in macchina?» le chiese, e al suo no le indicò la sua Ford Escort. Lei gli passò una mano sul fianco, lo attirò a sé in un bacio profondo. Poi, mentre lui cercava di riacquistare equilibrio, lei, ecco, fece una cosa inattesa: si sfilò le scarpe rosse e prese a correre.
Il Pepp si portò la mano alla tasca dei jeans ma già aveva capito: quella troia scappava con le scarpe in una mano e il suo portafoglio nell’altra. E lui scattò come ai suoi tempi migliori, gridando «Al ladro» mentre due coppie, nel parcheggio, guardavano stupite senza intervenire. La pantera troia correva come il Carl Lewis, e il Pepp dietro, e mentre quella scappava nella notte lui scivolò, cadde sul fianco, si appoggiò a un’auto urtando con un forte dolore al gomito lo specchietto retrovisore, sbuffò: la corsa era finita. Si sentì stupido. Per un riflesso automatico, guardò l’auto che aveva urtato. Oltre i vetri oscurati si distingueva qualcosa. Ma cosa? Sulle prime non capì, poi mise a fuoco e iniziò a gridare.
Il cadavere dell’uomo era sul sedile posteriore, a destra, rannicchiato in decubito laterale sinistro, le ginocchia flesse: era stato attinto da quattro pallottole, due al torace, una al cranio – sangue e cervello ovunque – e una quarta aveva raggiunto, perforandoli più volte, i pantaloni, determinando probabilmente la lesione contusiva in regione glutea.
Attinto, lesione contusiva, regione glutea… no, si disse Melis, il dottor Maisano – un nome un destino: medico legale – quanto a verve non valeva certo Lissoni, ormai libero pensionato in quel di Santa Margherita Ligure. E maledetta la sua abitudine – sua di lui, Melis – di non prendersi mai il riposo di venerdì, così, con Iurilli in ferie e gli altri a godersi il fine settimana lungo, era toccato a lui d’alzarsi e vestirsi nelle tenaglie della notte.
Considerò il Lombardi Giuseppe, artigiano idraulico, al quale avevano portato un caffè: così, almeno, risparmiava sull’iter della denuncia, visto che nel portafoglio c’erano patente, carta d’identità, tessera bancomat – era al passo coi tempi, lui – e carta di credito. Un agente stava già provvedendo a comunicare i dati. Per il resto, poco da dire, il Lombardi. E la pantera? C’entrava niente con l’omicidio, questo era chiaro. Ma l’avrebbero identificata, oh, sì. E invece no, lo sapeva: perché erano pochi, e non avevano tempo per reati minori. A meno che non fosse schedata dalla Buoncostume. O che qualche avventore della balera la conoscesse.
E il morto? Si poteva identificare, lui? Era sua, quell’Audi 80 nera? Improbabile, visto che sul cadavere non c’erano documenti. A meno che non fosse una rapina finita male. Così male da sparare? Quattro colpi? No, improbabile, benché sul polso sinistro, abbronzato, spiccasse netta la pallida impronta lasciata da un grosso orologio che non c’era più. Ma allora, perché quattro colpi? Troppi, per una rapina. E poi, rannicchiato sul sedile posteriore… E i finestrini intatti… Una resa dei conti? Un rapimento finito male? Di certo, non la prima vittima del traffico nel fine settimana del Grande Annuncio dell’Estate.
Il brigadiere D’Aiuto confermò che di bossoli ce n’era uno solo, finito sotto il sedile di guida. Pertanto, l’omicidio era avvenuto altrove. Ma con la vittima nell’auto e le portiere aperte. Era di pessimo umore, D’Aiuto. Appena deciso un fine settimana fuori Milano, lui e Bonaria, e subito un morto in piena notte. La notte di venerdì! Venerdì, poi: era già quasi l’alba e fra poco sarebbe arrivato il sabato.
E la pantera? No, non l’auto della polizia, la femmina fatale che aveva rapinato il Pepp: uno degli uomini al parcheggio era un insegnante Isef, e aveva detto che era pronto a giurare che quella lì, a dispetto del vestito e dei tacchi alti, correva come un uomo, anzi, non poteva che essere un uomo. Povero Lombardi: un bacio alla francese a un uomo. Per essere un idraulico, questa volta non aveva capito un tubo.
Per la gioia di quanti assistevano affacciati ai condominii dell’Età del Boom – l’imprevisto spettacolo di sons et lumières non era certo gran che, ma era gratuito – un’ambulanza portò il cadavere all’obitorio. Maisano salutò e se ne andò. Arrivò un carro attrezzi: si sarebbe occupato dell’Audi, che sarebbe stata sottoposta a ogni possibile esame. L’autista scese, fece firmare a Melis due moduli mentre il suo collega, inclinato il pianale d’acciaio, impugnava il gancio da traino.
«Avete finito?» chiese a quelli della Scientifica, che stavano eseguendo un primo controllo.
«E questo cos’è?» esclamò, ignorandolo, un agente allungando la mano guantata fra sedile e portiera, là dove prima sedeva il morto.
«Oh, no!» Pallido, D’Aiuto si voltò verso Melis: «Un Arcano dei tarocchi!»
E Melis, incredulo: «Un altro?»
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