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Philippe Roth
>> Why write?
di Giacomo Papi
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A meno di non fare un inventario, è difficile raccontare che cosa contenga “Why write?”, l’antologia di Philip Roth uscita il 12 settembre negli Usa e non ancora tradotta in Italia, che raccoglie la selezione definitiva dei suoi interventi sulla scrittura dal 1960, quando era ancora sconosciuto, al 2013, quando era diventato lo scrittore più celebrato d’America e, forse, del mondo. La raccolta è una miniera di materiali diversi – conferenze, saggi critici, discorsi pubblici, lezioni, interviste fatte e subite nel corso di cinquant’anni di vita e lavoro – dove i temi si mischiano, ritornano, cambiano, come in un gomitolo di fili che si aggrovigliano o si sciolgono l’uno nell’altro. L’unica è scegliere un filo: per esempio, la distanza tra autobiografia e romanzo, cioè tra vita e letteratura, un tema che ritorna in molti interventi, fino quasi a sembrare un’ammirazione – e una forma di invidia – nei confronti di altri scrittori che hanno avuto da raccontare vite più dolorose, ma anche avventurose, di quella di Roth.
Il saggio su Franz Kafka che apre la raccolta incomincia con la descrizione di una fotografia dello scrittore scattata nel 1924, l’anno in cui sarebbe morto, «a quarant’anni (my age)», scrive Roth (il saggio è del 1973). Kafka ha «uno sguardo intenso, umano, di stupefatta padronanza di sé – enormi paure, enorme controllo», che potrebbe descrivere anche – lampo di ironia a parte – quello che Roth lancia dalla copertina del libro. Ha un occhio che sorride, l’altro arrabbiato, la camicia a quadretti e i grattacieli di Newark alle spalle, la bocca contratta in un’espressione che non si capisce se sia l’inizio di un sorriso o di un rimprovero. Nel saggio Roth racconta l’ultimo anno di vita di Kafka: l’allontanamento da Praga per andare a Vienna a curarsi e i suoi amori con Dora e Milena, come se lasciare la casa del padre per andare a morire sia stato per lui il solo modo per vivere e amare.
Roth traccia la propria traiettoria di scrittore nel secondo testo, “Writing American Fiction” del 1960. Parlando del caso delle sorelle Grimes, due ragazzine uccise da un maniaco a Chicago nel 1956, e del circo mediatico che la loro morte avrebbe originato, Roth scrive: «L’attualità vanifica di continuo le nostre capacità e la cultura estrae quasi ogni giorno personaggi che sono l’invidia di qualsiasi romanziere». Gli scrittori parlano raramente di «invidia», e ancora più di rado ammettono di provarla. Quella di Roth è per la fantasia della realtà, non certo per i più grandi scrittori americani della sua epoca: a suo dire Norman Mailer, J.D.Salinger, Bernard Malamud e Saul Bellow falliscono una rappresentazione adeguata dell’America contemporanea. La conclusione è che l’unica strada per scrivere letteratura del proprio tempo è rifugiarsi nel Sé, nell’autobiografia romanzata, in un «Sé immaginato come unica cosa apparentemente reale in un ambiente altrimenti apparentemente irreale».
Nonostante Roth abbia attuato questa sua dichiarazione di intenti, nel corso della raccolta continua a trapelare il dubbio contrario: che creare alter ego (o «Sé immaginati») in letteratura non sia sufficiente, neppure se questi alter ego sono Alexander Portnoy o Nathan Zuckerman. Si avverte una curiosità continua, quasi un’invidia, per gli scrittori che abbiano vissuto e sofferto davvero, o che almeno si siano confrontati con il mondo reale attraverso il lavoro, insomma per chi, come Kafka, abbia trovato il coraggio di lasciare la casa del padre (che nel caso di Roth, e di tutti gli scrittori delle religioni del Libro, potrebbe perfino coincidere con la scrittura). Molti romanzi di Roth possono essere visti come capitoli di un’anatomia della casa paterna (e materna): dei tic, delle pulsioni e delle nevrosi, violenti e ridicoli, che popolano quell’organismo autorigenerante che è la famiglia.
In una conversazione del 1974 con il critico italiano Walter Mauro – “Writing and the Powers That Be” – Roth parla della sua adolescenza e del suo rapporto con il padre: «Se qualcosa mi pesava addosso non era il dogmatismo, l’irremovibilità e similari, ma il suo illimitato orgoglio per me. Quando provavo a non deludere lui o mia madre non era mai per paura del pugno di ferro o delle punizioni, ma di spezzare il loro cuore». «Famiglia e religione come forze coercitive sono state un soggetto ricorrente nei miei romanzi, particolarmente fino a Lamento di Portnoy compreso», ma «certamente, a parte la satira su Nixon [“La nostra gang”, 1971], non ho mai scritto niente di intenzionalmente distruttivo. L’attacco polemico o blasfemo alle autorità mi è servito più come tema che come racconto». Questa «ribellione» mancata fu parzialmente compensata – o forse sublimata – dal sesso: mettere in scena il corpo «come un macchinario o un giocattolo erotico – con orifizi, secrezioni, tumescenze, sfregamenti, fuoriuscite, e tutte le astruse complicazioni della sessotettonica – e poi sistemare quell’ossessione in un contesto familiare del tutto banale, dove i temi del potere e della sottomissione, tra le altre cose, possono essere visti nel loro aspetto quotidiano più ampio invece che attraverso le lenti della pornografia». In Roth il Sé e la famiglia sono il teatro – e la prigione – in cui la pulsione si produce e cresce, senza però potersi mai attuare davvero.
Questo contrasto tra desiderio vitale e desiderio mentale riaffiora anche nello straordinario incontro tra Roth e Primo Levi che avvenne a Torino, per quattro giorni, nel settembre 1986, otto mesi prima che lo scrittore di “Se questo è un uomo” si togliesse la vita. Roth parte dal lavoro, dalla fabbrica di vernici alla periferia torinese dove Levi lavorò per trent’anni, dopo il ritorno da Auschwitz. Scrive Roth: «Per quanto lontana dallo spirito della prosa, la fabbrica è chiaramente vicina al suo cuore». Dalla fabbrica, la scena si sposta nella casa di Levi, la stessa dove era nato e dove pochi mesi dopo sarebbe morto, la stessa in cui visse per tutta la vita, con la sola interruzione di Auschwitz. In quell’appartamento Levi vive con la moglie Lucia e la madre di novant’anni, mentre la suocera di novantacinque abita a due passi e il figlio nell’appartamento di fronte. «Non so di nessun altro scrittore contemporaneo – scrive Roth – che per così tanti decenni sia di sua volontà rimasto intrappolato intimamente e in un contatto così diretto, ininterrotto, con i propri parenti stretti, il proprio luogo di nascita, il luogo dei suoi antenati e in particolare del suo ambiente lavorativo, che a Torino, sede della Fiat, è largamente industriale». Indicando il suo tavolo da lavoro, Levi dice a Roth: «La scrivania su cui scrivo occupa, stando alla leggenda familiare, il punto esatto dove vidi per la prima volta la luce».
Il dialogo incomincia dal lavoro e dalla scritta sulla porta di Auschwitz: «Arbeit Macht Frei» («Il lavoro rende liberi»). Roth chiede a Levi se i suoi libri possano essere letti come un tentativo di «riconsegnare al lavoro il suo significato umano»… «Faussone ti dice: “Ogni lavoro che incomincio è come il primo amore”». Levi risponde che da ragazzo la sua «devozione al lavoro» fu una reazione al dolore che gli provocava l’inibizione e la timidezza verso le ragazze. Quando nel 1938 furono promulgate le leggi razziali, racconta Levi, «alcuni compagni delle scuole “Ariane” ci sfottevano dicendo che la circoncisione non era altro che una castrazione, e noi, almeno a livello inconscio, tendemmo a crederlo, con l’aiuto delle nostre famiglie puritane. Penso che a quel tempo il lavoro fu per me una compensazione sessuale più che una passione reale». Per molti prigionieri di Auschwitz il lavoro, il «lavoro ben fatto», fu l’unico appiglio per sopravvivere e per preservare un nucleo di dignità. Per Levi l’elemento salvifico fu anche la curiosità, l’attitudine a osservare e registrare – da chimico, da entomologo, da scrittore – «il mondo e le persone che avevo intorno». «Il mio modello (o se preferisci il mio stile)», dice a Roth , «è quello dei “report settimanali” comunemente usati nelle fabbriche: deve essere preciso, conciso, e scritto in un linguaggio comprensibile a ognuno nella gerarchia industriale».
Parlando di “La tregua”, il seguito di Se questo è un uomo, Roth esprime tutta la propria meraviglia e ammirazione: parla di «esuberanza», «riconciliazione con la vita che ha luogo in un mondo che a volte ti appare come un Caos primigenio»: «Tu sembri», chiede Roth, «una persona che ha bisogno, prima di tutto di forti radici – nella sua professione, nei suoi antenati, nella sua regione, nella sua lingua –, eppure quando ti sei trovato tanto solo e sradicato quanto può esserlo un uomo, hai considerato quella condizione un dono». Primo Levi risponde: «Un mio amico, un medico eccellente, tanti anni fa mi disse: “I tuoi ricordi del prima e del dopo sono in bianco e nero; quelli di Auschwitz e del tuo viaggio verso casa sono in Technicolor”. Aveva ragione. La famiglia, la casa, la fabbrica sono cose buone in sé, ma mi hanno deprivato di qualcosa che mi manca ancora oggi: l’avventura». Non è soltanto l’«avventura» come oggetto letterario a suscitare l’interesse di Roth, è anche il lavoro. Dopo avere elencato una lista di grandi scrittori-lavoratori – gli impiegati delle assicurazioni Kafka e Wallace Stevens, l’editore T.S.Eliot, il dirigente di una fabbrica di vernici Sherwood Anderson – Philip Roth chiede: «Mi domando se tu davvero pensi a te stesso come più fortunato – perfino meglio attrezzato per scrivere – di quelli tra noi che sono senza una fabbrica di vernici e di tutto ciò che implica questo tipo di legame». Dopo avere aggiunto alla lista Italo Svevo, «manager commerciale di una ditta di vernici a Trieste», Primo Levi risponde: «No, come ho già accennato, non ho rimpianti. Non credo di avere sprecato il mio tempo facendo il dirigente in una fabbrica. La mia militanza in fabbrica – il mio servizio obbligatorio e onorevole là – mi ha tenuto in contatto con il mondo delle cose reali».
In molti dei testi che compongono “Why write?” Roth sembra sospettare, e sentire, che questo «mondo delle cose reali» rischia di essere inghiottito e allontanato dall’ipertrofia del Sé letterario, e del «Sé immaginato». Se il senso della letteratura si riduce all’affermazione dell’Io – «Here I am», è un’espressione che ritorna più volte – il mondo può retrocedere a sfondo e farsi contorno. Nella conferenza che chiude l’antologia – il discorso “The Ruthless Intimacy of Fiction” tenuto il 19 marzo 2013 al Museo di Newark per festeggiare il suo ottantesimo compleanno – Roth scrive: «Stavo dicendo che questa passione per la specificità, per l’ipnotica materialità del mondo in cui uno si trova, è proprio il cuore del compito che è stato ingiunto a ogni scrittore americano dal tempo di Herman Melville e della sua balena, e di Mark Twain e il suo fiume: scoprire la più attraente, evocativa descrizione verbale di ogni minima cosa americana. Senza una rappresentazione forte della cosa – animata o inanimata – senza la rappresentazione cruciale di ciò che è reale, non c’è niente».
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