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Marco Rossari / Le cento vie di Nemesio

    Storicamente incolpevole, colpevolmente storico, Nemesio cuoceva nel suo brodo.

    Ebbe la sensazione di annegare al rovescio. Il liquido fu risucchiato da un vortice aspiratutto chiamato con scarsa fantasia «vita» e lui cominciò a boccheggiare. Quella forza oscura voleva lui. C’era una luce in fondo al tunnel, ma più che l’aldilà ricordava una mattina bigia nella città di Milano a fine Ottocento. Inoltre il foro – viscido e nauseabondo, sebbene ai particolari non fece caso – era minuscolo: sgusciare di lì?

    Nemesio fece un ultimo tentativo per divincolarsi dal maelstrom che lo inghiottiva come in un terrificante racconto di mare, poi si arrese all’evidenza: il cammello sarebbe passato dalla cruna dell’ago.

    Provò a gridare ma il fiato s’inceppò, come se il secolo gli stesse andando di traverso.

    Luce.

    Nemesio proruppe in un enorme sbadiglio.

    «Signora, è morto.»

    In verità era solo intontito.

    Da quel momento, per qualcosa come due anni, Nemesio non fece altro che sbadigliare. Piangere, mai. Solo tediarsi. Dondolare, trangugiare: quella routine avrebbe steso un adulto, figurarsi un lattante.

    E cagare.

    Tra i motivi di ebete afflizione dimostrata a tutta prima dal bimbo, c’era il fatto di essere diventato una specie di depuratore al contrario. Addio purezza edenica: dal latte alle pappe preparate nella vecchia cucina della loro signorile casa milanese fino all’acqua cristallina che arrivava dalle vicine Alpi, l’esserino era in grado di trasformare ogni bella cosa in merda.

    E che merda.

    Eccelleva a tal punto nella disciplina che a lungo ebbe l’impressione di essere nato per lavorare come un filtro, una macchina concepita da un alchimista con il gusto del paradosso: una pietra filosofale a rovescio.

    Quando non era preso dalla merdificazione, Nemesio meditava sulla noia. Quella degli altri, soprattutto.

    All’inizio erano preoccupati.

    «Non piange mai!» annaspava la madre, Nora.

    «Stanco che nemmeno Lazzaro risorto,» mormorava il padre, Augusto.

    Ma poi il suo sbadiglio si propagò come le onde concentriche dopo il plumfete di un sassolino nell’acqua – o forse come uno sbadiglio. Fatto sta che l’intera casa cadde in un torpore invincibile.

    La famiglia Viti si declinava in due esemplari: Nora e Augusto.

    Lei veniva da un paesino modesto sulle rive del lago di Garda, dov’era nata e cresciuta da una famiglia modesta di origini modeste, e dove la famiglia milanese per nulla modesta di Augusto possedeva una grande villa dove, appunto, amava villeggiare. I due si erano imbattuti l’uno nell’altra in paese. Imbattuti alla lettera. Lui camminava a occhi bassi per il corso, lei passeggiava svagata per il corso, finché non erano andati a sbattere. Una, due, tre volte, al che – onde non avvilire il senso del caso – avevano sentito il dovere di rivolgersi non la parola, troppo presto, ma almeno un cenno del capo. In futuro i loro amplessi avrebbero mantenuto quella caratteristica, constando in un incontro accidentale sull’asse centrale del letto, seguìto da un borbottio di scuse da parte di Augusto.

    Quell’ingegnere muto e pensieroso affascinò Nora. La fanciulla amava l’opera e a Milano c’era il Teatro alla Scala, a pochi passi dalla casa di quel signore. Incline alle fantasticherie, immaginò dietro quel silenzio una sensibilità superiore, o comunque un mistero. Quando dal cenno si passò alla parola, dalla parola al verbo, dal verbo al complimento oggetto, insomma quando cominciarono a chiacchierare, il mistero se possibile s’infittì, perché Augusto era a dir poco laconico. Troppo tardi, anni e anni dopo, in un pomeriggio fatale, sarebbe arrivato il fiat lux e Nora avrebbe capito che il mistero non era mai esistito, se non nella sua mente modesta di donna modesta; ma in quel momento la curiosità ebbe la meglio. In uno dei loro estivi inciampi serali, l’afa intiepidì i lombi di Augusto che, dopo essersi assicurato che la faccenda non fosse invisa alle rispettive famiglie, in uno slancio eroico per un uomo chiuso e taciturno come lui, la chiese immodestamente in moglie.

    La risposta fu un modesto sì.

    Abbandonando il lago per il mistero, Nora fu inizialmente rasserenata dalla tetraggine di Augusto, che non sembrava nutrire dubbio alcuno sul mondo.

    In viaggio di nozze, davanti a uno splendido tramonto sulla riviera sorrentina, quando Nora si voltò per sollecitare una frase a effetto dal fresco sposo, lui sospirò, aprì bocca e sussurrò che il muretto era sbreccato perché avevano usato poca calce.

    «Vedete?»

    Se non poetica, Nora trovò l’osservazione rassicurante.

    Cogito, ergo non sum: questo era il motto di Augusto. La coscienza è nemica dei fatti e i fatti erano l’unica scienza che si sentiva di avere. A Milano il lavoro era una religione e il profitto una salvezza. Quando non viveva in fabbrica, non viveva. O viveva a metà, con il cuore nostalgicamente rivolto al frastuono nelle orecchie degli altri, alle schiene curve degli altri, alla fuliggine sul viso degli altri.

    «Il lavoro è vita,» soleva dire. Anche se per gli altri era una specie di morte.

    Tutti i giorni il padre prendeva la nuova linea tranviaria fino a Monza e tornava a sera inoltrata, schivando i Campari in Galleria Vittorio Emanuele. Inflessibile, uggioso: crescendo Nemesio avrebbe imparato a conoscere la sua severità, ad esempio quando avanzava del pane a tavola e se lo ritrovava accanto al posto il giorno successivo con una cifra sulle briciole avanzate, per enumerarle.

    Un giorno, vista l’adorazione verso il rigore, Nemesio avrebbe cominciato a chiamarlo Padre Augusto, come un devoto dei fatti, un pio della qualcosologia.

    Proprio questa durezza aveva crepato il modesto guscio di Nora. Faticando a individuarne la sorgente nel marito, la donna tendeva a sfogare l’ansia verso l’esterno: tutte le amiche avevano avuto già almeno sei figli e lei nemmeno uno. Loro parlavano il francese e a lei scappava ancora qualche parola in dialetto. Loro sapevano scegliere un cappello elegante e lei se lo dimenticava a casa quando andava a passeggiare sotto il sole del parco Sempione.

    «Non mi sento all’altezza,» diceva Nora a sera, rivolta alle russate di Augusto.

    «Non crucciarti,» rispondevano le russate. «Il bambino arriverà.»

    «Tu credi?»

    «Zzzzzzzzzzì.»

    Nora era già passata per sette aborti spontanei, dodici bambini nati morti, una gravidanza isterica, ventiquattro pargoli deceduti prima di compiere un anno e un terribile raffreddore.

    Quest’ultimo l’aveva prostrata.

    A dire il vero nemmeno i lutti l’avevano allietata e – dopo questo estremo tentativo di avere un bambino, tutto sommato riuscito – trovava la presenza di Nemesio a tal punto impercettibile da risultare irrilevante.

    Nora avrebbe preferito pianti, caos, rutti omerici. E invece: un silenzio disarmante. E tantissima merda.

    La casa scivolava nel letargo.

    Il movimento ipnotico con cui sua madre faceva ondeggiare la culla di legno – «Intagliata nel 1895», recitava l’incisione all’interno, anche se la madre tendeva a coprirla con un lembo della copertina, perché le ricordava la figlia (o il figlio? mah, al momento non ricordava) che aveva perso quattro anni prima – era a tal punto efficace che quasi sempre era lei ad assopirsi, russando a gola spiegata, e Nemesio restava senza compagnia.

    Mentre la madre ronfava, Nemesio fissava gli stucchi del soffitto e i vasi di cristallo, ammirava le evoluzioni del pulviscolo fluttuante nella lama di luce che cadeva dalle ampie vetrate, faceva enormi bolle con il naso. Un pomeriggio una delle più riuscite si staccò dalla narice e cominciò a fluttuare sopra la culla. Sfiorò la guancia della madre che brontolava sommessa, strappando a Nemesio una risata, poi salì verso il lampadario a goccia. La superficie traslucida della sfera di muco rifletté l’argenteria sul tavolo imbandito per il pranzo, le candele, il quadro con un lontano antenato, i tendaggi pesanti, l’ampio salone silenzioso. La bolla esitò, prese una leggera corrente d’aria, si lasciò trasportare verso la finestra aperta e, proiettando un impossibile riflesso negli occhi opachi del piccolo Nemesio, uscì per le strade del centro di Milano, occupate da un frenetico viavai di carrozze, qualcosa come due o tre, che innescarono un dibattito a bordo strada sul traffico impossibile.

    «Di questo passo dove andremo a finire?» domandò un conoscente al padre di Nemesio che rincasava dalla fabbrica.

    «Roba da matti,» rispose Augusto. «Possibile che un giorno tutti quanti avremo un landò?»

    La bolla planò sopra il cappello di paglia del padre di Nemesio, indugiò sopra il bastone da passeggio di un vecchio notaio acciaccato e andò a planare sul delizioso cappellino di una dama a passeggio.

    Infine la corrente fece volteggiare la bolla mucolitica sotto gli occhi di una bimba: incantata, allungò una mano e quando la vide esplodere scoppiò in lacrime.

    Era la prima femmina che Nemesio faceva piangere e non sarebbe stata l’ultima.

    Piano piano, il piccolo cominciò a dare segni, se non di vitalità, almeno di vita. La balia fu la prima ad averne contezza. Sulla propria pelle. Ormai in là con gli anni, assuefatta a ogni tipo di svezzamento, scoprì di non avere mai trovato una bocca tanto avida.

    «Cäl fiulìn non è quieto,» sentenziò in dialetto pavese. «È solo che si annoia.»

    L’inazione del corpo – una robusta serenità, una salda pacatezza – trovava compensazione nell’attività frenetica delle labbruzze, perché ogni seduta d’allattamento la lasciava prostrata.

    «Äm cav’äl fià,» diceva, aggiustandosi turbata la camicetta. «Non sono labbra, ma artigli.»

    Turbata da quelle protuberanze carnose, la donna decise di porre fine alla carriera e preservare quel che restava dei capezzoli già martoriati. Quando lo salutò con una prudente carezza alla testa, ebbe l’impressione che il bimbo si passasse una lingua lasciva sulle labbra. La donna tirò indietro la mano di scatto, si aggiustò un bottone della camiciola e prese congedo.

    «Diàul

    Nemesio cominciava a fare i primi passi da gigante del Novecento.

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