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Da che punto guardi il mondo

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    Molto forte, incredibilmente lontano” è il corso che la Scuola Belleville dedica agli expat, a coloro che vivono o hanno vissuto fuori dal proprio paese natale e vogliano raccontare quella – spesso fondamentale – esperienza.
    La prima edizione si è tenuta dal 25 marzo 2021 al 27 gennaio 2022. Abbiamo chiesto a Cristina Marconi, docente titolare del corso, di raccontare cos’è stata per lei, grazie anche alle parole di chi quel corso l’ha frequentato e vissuto.


    La prima edizione del corso “Molto forte, incredibilmente lontano” è finita con la mia scrivania sommersa da una decina di testi lunghi, romanzi o mémoir, alcuni in una fase ancora aurorale, altri già decisamente maturi, che raccontano in modo intimista o avventuroso l’esperienza della distanza dal paese d’origine. Storie d’amore in Bangladesh, esistenzialismo per le strade di Bruxelles, pepati tormenti madrileni, drastiche spaccature londinesi, ipnotiche rinascite lusitane, saghe familiari con ambientazioni internazionali sono solo alcune delle storie nate dall’immaginazione di una classe forte, curiosa, appassionata. Siamo partiti da lontano: nelle prime lezioni, nei primi compiti, ci siamo concentrati sulla messa a fuoco di personaggi e paesaggi, sul recupero di uno sguardo fresco, sulle sensazioni che hanno accompagnato la scoperta di un mondo nuovo, sull’elaborazione della trama e sul modo migliore per gestire un nemico che, quando si osserva un luogo, ha molto spesso la forma di un cliché. O magari addirittura di un turbocliché.

    Scrive Filippo Lo Bello, allievo del primo modulo:

    Parigi è una vertigine.
    Se non si sta attenti, si rischia di caderci dentro.
    Un turbocliché. Luogo dell’immaginazione che smette di essere reale nel momento stesso in cui lo si pensa. Perché i rimandi sono infiniti.
    A questo pensava Nino, seduto alla terrazza di un caffè, sorseggiandone uno troppo lungo, con la malinconia dei pomeriggi di aprile, la luce che si allunga sui marciapiedi a misurare le giornate.
    «Quando senti che stai cadendo, aggrappati». Louis glielo ripeteva spesso. «Ti gira la testa? Le parole si confondono? Tu fermati e aggrappati».
    L’idea di aggrapparsi a un cliché non lo rassicurava. Quanto è solido un cliché? E se poi si rompe?
    Aveva provato a smontarli, farli a pezzi piccoli da disporre sul tavolino. Si era messo seduto, la penna blu in mano, il quaderno aperto alla pagina bianca. Come Perec, aveva provato ad esaurire un luogo, annotando ogni minuscolo dettaglio, cercando di descrivere quel “resto” libero da un immaginario costruito. Il bus 68 che scende per la rue de Belleville alle 16 e 07, il cameriere di Aux Folies che porta un vassoio con le tazze di caffè crème, la mano della signora che tiene una sigaretta come fosse un sesto dito, e così via.
    Solo che a un certo punto, sulla pagina appariva una macchia d’inchiostro che assomigliava a qualcosa di conosciuto. Metteva a fuoco e si accorgeva che dentro il bus c’era una coppia di innamorati che si baciava dentro a due impermeabili uguali. Il cameriere, chiamato Ribéry per la cicatrice che gli attraversava metà della faccia, indossava una maglia a righe blu orizzontali. E la signora dai capelli arruffati, dietro alle nuvole di fumo, assomigliava incredibilmente a Edith Piaf. Sulla strada, i passanti camminavano quasi tutti con una baguette sotto il braccio e due bambini correvano elettrici dietro a un cane con la lingua penzolante di nome Julius.
    Niente, non se ne esce, si era detto. Non si può scrivere senza rimanere impigliati nella rete dell’immaginario.
    Nino aveva provato a cambiare tattica. Si era messo a camminare senza meta, per perdersi nella vertigine e ritrovarsi da qualche parte, in qualsiasi momento, ad assaporare solamente il reale. Il sapore è uno solo, si rincuorava. Quanti sapori può avere un moelleux au chocolat?
    Camminava facendo grandi giri concentrici, ripercorrendo una mappa improvvisata sul corpo di un’enorme lumaca bianca. Le gambe lo portavano su un percorso già scritto, e così si fermava davanti la casa di Cortázar in rue Martel, nel X arrondissement, chiedendosi se avrebbe incontrato la maga, che andava in giro guardando per terra in cerca di qualcosa di rosso. Cambiava quartiere per scendere per la rue Mouffetard, senza un apparente motivo ma con la paura intima di non trovare quell’ostello in cui anni prima, nel buio di una camerata, l’estate fuori ad aspettare, aveva sentito il sapore di Olga. Le labbra rosa di Olga. Scuoteva la testa per liberarsi dal ricordo e continuava a camminare lungo la riva del Canal Saint Martin, attraversando il ponte mobile per poi salire su quello rialzato e da lì, aspettare le chiuse della diga per guardare il battello del canauxrama passare pieno di turisti, che se lo sarebbero portato dentro alla memoria dei propri telefoni, come un ricordo felice. Perché, adesso se ne rendeva conto, faceva parte anche lui di quella vertigine.
    Provava a parlare, con un orgoglio che non sapeva spiegare da dove venisse, in un perfetto francese marcando la sua pronuncia originale, cercando di resistere agli accenti e alle formule cordiali. Il risultato era un’insalata di incomprensioni, fino a che non tornava a finire le frasi con quel sospiro, che pareva farle volare via. E aveva ripensato a quella volta in cui, al ristorante, quello in cui si può mangiare un piatto di patate al cantal anche dopo le dieci di sera, per mettersi a turno, quando il proprietario, un tipo con la coda lunga e sempre in tuta, lontano dall’immaginario di un maître, quando gli aveva chiesto di dargli un nominativo: Ninó, aveva risposto. E quel suo amico che era venuto a trovarlo, era scoppiato a ridere. E Nino, si ricordava, non aveva capito perché.
    Tanti sforzi per cancellare le immagini che ingombrano la vista, per non caderci dentro, non erano serviti a niente.
    Allora, rassegnato, Ninó saliva sulle colline a guardare Parigi, a respirare quella luce tanto descritta e immortalata, che non si poteva fare altro che contemplarla dall’alto, muovendo le mani in ampi gesti e ridendo forte, come ci si aspettava che avrebbe fatto.

    Dopo alcuni decenni di relativa stanzialità, la letteratura italiana contemporanea si sta impossessando nuovamente del tema dell’altrove, anche come riflesso inevitabile di un fenomeno migratorio che, in forma diversa rispetto a quello otto e novecentesco, è ormai impossibile da ignorare. A partire, a essere partiti in questi anni sono stati spesso ragazzi con una buona istruzione, alla ricerca di qualcosa di più avvincente di un posto di lavoro, e con un’identità ormai spesso ibrida. Ne abbiamo parlato con scrittrici come Claudia Durastanti, Lorenza Pieri e Laura Pugno e con Alessandro Raveggi, tutti autori dalla forte componente “straniera”. Nella seconda edizione, i nostri interlocutori saranno Giulia Caminito, Maddalena Fingerle, Chiara Barzini e Lisa Ginzburg.

    Tra le esperienze raccontate nel corso, alcune guardano all’Italia come al vero altrove. Quanto può essere strenuamente esotica una città come Roma agli occhi della francese Nathalie Périssé, che pure ci ha sempre vissuto? «Lo splendore può fare male, può dare sensi di colpa dovuti al rimpianto di non starne in contemplazione perenne», scrive di Roma, sulla quale offre una prospettiva mai logora. Mentre in altri casi è solo nel ricordo lontano che si può recuperare la grazia impreparata di un primo sguardo, della sorpresa, come ha fatto Laura Marzano rievocando il suo lontano periodo russo e uno “zakot” che, tutt’a un tratto, non è apparso più come la traduzione russa di “tramonto”, bensì qualcosa di completamente diverso e nuovo.

    “D’accordo Sasha, ci vediamo domani in stazione alle 11, spero che ci sarà il sole!”.
    Il giorno dopo, con la mia amica Valeria arriviamo alla Baltijvskij Voksal, la stazione di San Piertroburgo, puntualissime. Negli zaini abbiamo infilato uno spray contro le zanzare, due bottiglie di bianco portate dall’Italia, un telo e un costume di ricambio.
    La stazione è stranamente bella: piccola, accogliente, colorata. Invece di incupire mette di buon umore.
    “Sasha, che felicità vedere il mar Baltico con te per la prima volta!”
    “Ragazze, non è esattamente come il Mediterraneo ma ha il suo fascino”.
    “Sasha, ma Pascia e Katia non sono ancora arrivati?”
    “No, li aspettiamo. Intanto volete una sigaretta?”
    Fumiamo tutti e tre. Scherziamo sulla bellezza delle donne russe, con cui davvero non possiamo competere, e passa una mezz’oretta.
    “Sasha perché non chiami Pascia per sapere che fine abbiano fatto?”
    “No Laura, gli amici, quelli veri, si aspettano senza chiamare”.
    “Mah, Sasha se lo dici tu”.
    Penso tra me e me che aspettare all’infinito sia una follia bella e buona.
    Sasha inanella per noi un numero di aneddoti inverosimili sulle sue missioni militari. Ufficiale dell’armata rossa, ha vissuto allenamenti duri e ha conservato solo ricordi intrisi d’ironia tagliente e vivace.
    Ore 12.30 il nostro bivacco in stazione sembra non finire mai. Apriamo una delle due bottiglie, mentre di Pascia e Katia neanche l’ombra.
    “Porca miseria Sasha, andiamo al mare dai. Loro poi ci raggiungeranno. Li abbiamo aspettati un’ora e mezzo, non se ne può più, non è gentile da parte loro non farsi neanche vivi e lasciarci cosi in stazione all’infinito …”
    “Laura, sch sch, stai calma, arriveranno. Noi siamo loro amici e questo in Russia vuol dire aspettarli, se necessario, tutto il giorno”.
    Se non fosse per il bianco sarei furibonda.
    L’attesa è snervante.
    Ore 14.30, siamo ancora lì. Eccoli finalmente! Pascia e Katia arrivano passeggiando lentamente, sorridono, sono mano nella mano. Nessuna scusa, nessuna giustificazione, non fanno neanche finita di essere trafelati.
    Mi sento proprio un’italiana viziata e intemperante. Loro ci abbracciano felici e finalmente prendiamo il treno per la costa.
    Scesi dal treno il mare è violaceo e grigio. Quasi non c’è differenza tra lui e il cielo. Un’atmosfera plumbea e pesante.
    Sfido si beva tanto qui! È questione di sopravvivenza.
    Mi armo di non poco coraggio per mettermi in bikini. Me ne serve ancora di più per tuffarmi in quell’acqua fredda e polverosa.
    Impossibile vedere il fondo.
    Poi uscendo dall’acqua vedo Sasha venirmi incontro. Indossa uno slip di lycra nero attillato con una grande stella gialla al centro.
    Mai visto un costume più inverosimile! Talmente orribile, osceno e ingenuo da regalarmi un’emozione insensata. Amo Sasha, amo il suo assurdo costume e amo il suo sorriso che ricorda Macario. Insieme a Sasha è uscito all’improvviso anche il sole. Lui dice” Какой красивый закат”. Capisco solo la prima parola vuol dire “bello”. Chiedo il significato della seconda: Sasha risponde: “закат» significa tramonto. Per me quella parola non è la traduzione russa di un vocabolo italiano ma l’essenza vera e nuova del miracolo del tramonto.
    Son pazza dell’intero pacchetto; lui legge i miei pensieri ed entra nel mio tramonto.

    Per molti versi i corsi di scrittura somigliano a delle lezioni di canto: l’obiettivo è far venire fuori l’individualità di una voce attraverso una tecnica che serve a liberarla. Spesso si tratta di timori, di un uso eccessivo dell’aggettivazione, di una sorta di pudore che impedisce di andare dritto al punto, di riferire la propria impressione per quella che è, senza bisogno di annacquarla con considerazioni razionaleggianti – freni, secondo il linguaggio del nostro corso – o nasconderla dietro uno stile ornamentale – fiocchetti, mi piace chiamarli, inutili e raramente eleganti – o, peggio ancora, dietro un umorismo di grana grossa che rischia di spuntare le armi ben più affilate dell’ironia. Ironia che invece Cecilia Gragnani usa splendidamente nel descrivere piccole scene di vita internazionale.

    IL POLLO
    “Queste cosce di pollo sono deliziose, non trovi?”. Credo sia stata una delle prime domande che mi ha rivolto. Certamente è una che chiede spesso. Non ho mai incontrato qualcuno con una tale passione per uno specifico taglio di carne e con altrettanto terrore del silenzio. Quest’ultimo va riempito con qualsiasi ovvietà, veloce, subito, o si rischia di non aver nulla da dire, forzati a contemplare i propri pensieri. In parte la invidio per le priorità che si è data, per la scelta di vivere la vita come se gli avvenimenti le ruotassero attorno, senza toccarla.
    Quando entra in una stanza è sempre preceduta da un io imponente e ciccione che riempie ogni dove e schiaccia gli altri. Io penso che, io trovo che, io dico che, io faccio, io sì, io no. Quello non mi piace, quello è brutto, quello è sbagliato, quello è insensato, quello –
    E lasciaci vivere Dio santo.
    Ha sempre caldo, anche a meno venti. Non l’ho mai vista indossare una sciarpa, un cappello. Predilige magliette e canottiere. Quando il termometro segna 15 gradi lei si denuda e loda la calura. Io accendo una stufa. Il clima inglese è perfetto alla sua temperatura corporea, tutto ciò che è inglese è perfetto alla sua carne anglosassone.
    Eternamente frizzante e gioiosa, deve essere uscita fuori dalla madre già entusiasta. Non è azzardato pensare che la prima parola che abbia detto sia stata “adoro”. O “pollo”. La sua unica religione è un cieco amore per la vita, molesto più che contagioso.
    Alla soglia dei 70, le daresti 50 anni. La vita le ha risparmiato tragedie e disgrazie, o forse è stata abile nel farsele scivolare addosso. Sicuramente ci seppellirà tutti. Non ha mai avuto nemmeno un raffreddore, una storta, un’allergia, una verruca, una caccola. Il marito, che manovra come una campionessa di video giochi, le sta al passo come può.
    Le sue giornate si alternano tra passeggiate di campagna, intorno al villaggio in cui vive e in cui dovrebbero vivere tutti perché è meraviglioso, la cura della casa, l’esibizione dei sottobicchieri di cui è fanatica, il cruciverba del Daily Mail unica fonte di verità e la richiesta continua di notizie su sua nipote, mia figlia, il trofeo ricevuto per la pensione, da issare e mostrare ad ogni occasione.
    Pensavo che scappando nel regno del progresso avrei evitato figure tradizionali da incubo e invece ci ho sbattuto la faccia contro, ci sono entrata dentro.
    Mia suocera possiede un vasto repertorio di opinioni non richieste: “Come siete melodrammatici voi italiani”; “Se proprio ti rispediscono da dove sei venuta James verrà a trovarti una volta all’anno, due, che problema c’è!”; “Non vivrei in nessun altro posto al mondo”; “Non è meraviglioso che sia uscito il sole?”; “Sono già le 6? Ma è volata la giornata!”; “In Italia non avete la cottage pie?!”.
    Mi trovo spesso in difficoltà di fronte alle sue domande. Oscillo tra la risposta troppo educata che mi provoca l’ulcera e l’insulto violento. Una in particolare, l’ho vissuta male.
    Un mese dopo il referendum, in Cornovaglia, durante uno dei mesi di giugno più caldi che l’Inghilterra ricordi, ha fatto in mio onore le lasagne, sommerse tra l’altro da svariate foglie di insalata.
    “Allora Cici, come sono?”.
    Come sono? COME SONO?
    Il tempo si è fermato, sospeso. Mi sono sentita posseduta da un alieno con la bocca sformata e il collo pulsante pronto ad esplodere. Poi ho respirato profondamente.
    Un po’ diverse da come le facciamo noi, ma-
    “In che senso diverse?”. Insiste e mi interrompe.
    Diciamo che usiamo diversi ingredienti, ma non importa, davvero, sono dettagli. Il rosso c’è ma è il sugo, in genere è il pomodoro però bella l’idea del peperone, interessante.
    Cerco una scusa per lasciare il tavolo e mi allontano verso la cucina. Riesco a fare sei passi.
    “Non ti sono piaciute?”
    Mi ha seguita.

    Iniziato a fine marzo 2021 e concluso a fine gennaio 2022, il corso è stato l’occasione per numerose letture, accomunate dal ruolo centrale del viaggio, dell’avventura e dello spaesamento, dal Seminario sulla gioventù di Aldo Busi alle Centurie di Giorgio Manganelli passando per Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli fino a Dove mi trovo di Jhumpa Lahiri, solo per citarne alcuni. Nel corso dei tre moduli sono intervenuti numerosi interventi di esponenti del mondo dell’editoria – agenti, scout, editor, esperti di social media – che hanno spiegato agli studenti gli aspetti più tecnici di un mondo che un esordiente raramente conosce e nel quale potrebbe non aver neppure voglia di addentrarsi, lasciando così a una pagina ben concepita, al racconto della distanza una funzione intima, diaristica, perché no, unicamente privata.



    > La nuova edizione del corso “Molto forte, incredibilmente lontano” partirà il 24 marzo. Iscrizioni e informazioni sono disponibili qui.

    Cristina Marconi

    Ha vissuto a Londra per dieci anni. Laureata in Filosofia alla Normale di Pisa, fa la giornalista, scrive per Il Messaggero, Il Foglio, e altre testate, parla spesso alla radio. Il suo romanzo d’esordio, Città irreale (Ponte alle Grazie 2019), è entrato nella dozzina dello Strega e ha avuto vari riconoscimenti, tra cui il premio Rapallo Opera Prima e il Premio Severino Cesari Opera Prima. Ha pubblicato A Londra con Virginia Woolf (Giulio Perrone Editore 2021), Come dirti addio (Neri Pozza 2022) e Stelle solitarie (Einaudi 2024).