“Di profilo” di Marta Barattia è il racconto vincitore della borsa di studio per il laboratorio Cantiere romanzo con Vincenzo Latronico, in programma a Milano dal 15 aprile al 2 dicembre 2023.
A partire da una situazione relativamente ordinaria – la visita inattesa di uno sconosciuto – il racconto mette in scena la progressiva (e surreale) invasione dell’appartamento della protagonista ad opera di una ridda di personaggi tanto diversi tra loro quanto spiazzanti. All’afflusso costante di personaggi sempre nuovi, corrisponde la progressiva perdita di ordine e senso dell’universo della protagonista, che sul finale appare spogliato dei suoi connotati realistici, perfettamente permeabile alla dimensione immaginifica dell’esistenza, libero dalla tirannia del significato, e perciò, in un certo senso, sconfinato.
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Di profilo
Alina uscì dalla doccia e afferrò l’accappatoio. Lo specchio del bagno le restituiva un’immagine dai contorni vaghi. Strofinò un asciugamano sui capelli corti e spalancò la finestra per far uscire l’umidità.
Guardando in strada vide un uomo. Camminava avanti e indietro nella luce feroce, osservando la casa; ogni tanto si fermava e appoggiava un occhio a una fessura della staccionata.
“Posso aiutarla? Cerca qualcuno?” disse Alina.
“Cercavo Alina Olmo”.
“Sono io. Ci conosciamo?”.
“Abbiamo un amico in comune: Enrico Borgna”.
Alina strinse il nodo della cintura dell’accappatoio e si guardò le mani cercando di ricordare. Enrico Borgna. Il nome non le era nuovo ma non riusciva a farsi venire in mente dove si fossero conosciuti. Mordicchiò con insistenza una pellicina a lato dell’unghia del pollice.
“Mi chiamo Franco Armidio. Sono nuovo da queste parti; ho pensato che, dal momento che siamo entrambi amici di Enrico, sì… beh… insomma. Ci tengo a integrarmi nella comunità”.
“Certo, sicuro”.
“Mi offre un bicchiere d’acqua? Se non è di troppo disturbo. Oggi è caldissimo”.
“Le apro. Solo un momento”.
Alina richiuse la finestra e i suoi piedi lasciarono una sequenza di impronte umide sul parquet in finto rovere del corridoio. Non aveva potuto permettersi un massello, ma i nuovi materiali vinilici erano praticamente indistinguibili dal legno vero. A parte quel leggero odore di gomma.
Lanciò l’accappatoio oltre il letto, sul pavimento, perché non si vedesse dalla porta. Si infilò slip e reggiseno e un prendisole color prugna. Lisciò alcune volte con la mano il copriletto e spostò più sotto il libro che stava in cima alla pila, sul comodino. Ora il titolo in vista era I fratelli Karamazov e non più I love shopping.
Andò al citofono, schiacciò il pulsante di apertura del cancelletto e attese.
Franco salì a due a due i gradini delle prime tre rampe di scale, poi si fermò. La fronte era imperlata di sudore, il fiato corto. Estrasse dalla tasca dei bermuda un fazzoletto e un pettine. Si asciugò bene le pieghe ai lati del naso e, specchiandosi alla bell’e meglio sulla placca di ottone di un campanello, si ravviò i capelli controllando che i pochi che aveva spuntassero sulla fronte e sui lati e che il berretto nascondesse la lucida chierica sulla nuca.
Quando comparvero sul pianerottolo del terzo piano, dove attendeva Alina, avevano entrambi un aspetto riposato e rassicurante e un sorriso bianchissimo.
“Siete in due. Non mi ero accorta”.
“Il signore qui mi segue da qualche giorno. Ho pensato che, diventando amici noi due, e grazie anche all’amicizia in comune con Enrico… non le dispiace, vero?”.
“Ma no anzi, accomodatevi sul divano,” e piegandosi leggermente in avanti per una stretta di mano “piacere, Alina”.
“Giorgio Speroni. Le andrebbe di darci del tu? Ora che siamo amici”.
Dietro il divano un adesivo murale gigante raffigurava una baia di sabbia bianchissima con lunghe palme magre, curve su un mare cristallino. I due sedettero fianco a fianco, le mani sulle ginocchia, gli sguardi fissi su Alina che si era come bloccata davanti alla cucina.
“A cosa stai pensando?” le chiese Franco.
“Non ricordo più cosa dovevo prendere”.
“Dell’acqua” disse Giorgio. “Frizzante, per me, se ce l’hai”.
Alina annuì e aprì l’anta del frigorifero. Fu sul punto di afferrare la bottiglia di Ferrarelle effervescente naturale, poi cambiò idea ed estrasse il cartone del latte, due uova, il burro. E dalla dispensa il pacco dello zucchero e la farina.
Neanche un’ora e la torta paradiso era cotta.
Alina grattò via con la lama del coltello una mezzaluna di superficie bruciata e spolverò con abbondante zucchero a velo. Poi la servì agli ospiti in salotto.
“Mi piace” disse Franco.
“Mi piace” disse Giorgio.
“Condivido” disse la ragazza con il vestito a fiori e gli occhiali da sole, abbronzatissima, appoggiata languidamente al bracciolo del divano. Aveva acceso l’abat-jour e teneva il viso girato verso la luce, le labbra in fuori che inumidiva di continuo con la punta della lingua.
Alina la fissava nel tentativo di ricordarsi quando fosse arrivata.
“A cosa stai pensando?” le chiese la ragazza.
“A volte mi sembra di non vederci bene” disse Alina, sbattendo più volte le palpebre.
“Non si vede bene che con il cuore” dissero Franco e Giorgio.
“L’essenziale è invisibile agli occhi” concluse la donna dai capelli stopposi e giallastri in piedi al centro del tappeto, che stringeva con due mani una borsetta a pois con il chiaro intento di mascherare la spessa piega di carne del girovita. Aveva orecchini pendenti, lunghe unghie marmorizzate e una macchia di rossetto sull’incisivo destro.
“Mi sono permesso di aprire a Ursula, dato che è un’amica. Mia e di mia nipote Ava” disse Giorgio.
“Era la mia babysitter” disse la ragazza sul divano, nebulizzandosi il décolleté. “Guardando lei ho imparato come usare lo spray autoabbronzante”.
Alina andò in cucina in cerca di una sedia da offrire alla nuova arrivata. Benché il salotto apparisse spazioso per via della spiaggia caraibica e dei numerosi specchi alle pareti, misurava appena due metri e mezzo per tre. Troppo poco per affiancare stabilmente al divano un paio di poltrone. Ma le fu impossibile raggiungere il tavolo: davanti ai fornelli si era radunata una piccola folla vociante. Qualcuno cucinava, altri si offrivano di assaggiare, altri ancora commentavano gli ingredienti e le date di scadenza sugli alimenti. Pensò che forse sarebbe stato più semplice arrivare allo sgabello del bagno, ma quando tentò di aprire trovò chiuso.
“Occupato” disse una voce dall’interno.
Alina appoggiò l’orecchio alla porta e in rapida successione sentì lo sciacquone, un rubinetto che si apriva, lo scorrere metallico degli anelli della tenda nella doccia, il phon e l’epilatore elettrico. Nel retrocedere andò a sbattere contro un omone corpulento dagli avambracci coperti di tatuaggi. Aveva briciole di torta paradiso impigliate nella barba.
Alina contò trenta persone in tutto, forse quaranta.
Pensò che se avesse chiuso la porta la situazione si sarebbe quantomeno stabilizzata. Ma all’ingresso una donna, con i capelli corti e un prendisole color prugna, accoglieva i nuovi arrivati con risolini squillanti.
“Benvenuti, piacere, io sono Alina. Fate come se foste a casa vostra”.
Alina si nascose in camera da letto. Girò due volte la chiave nella serratura. Sentiva pulsare le vene del collo. Si passò più volte l’indice sopra il labbro superiore. Ci volle quasi un minuto perché si accorgesse di un ragazzino che giocherellava con le cornici sul comò. Le foto ritraevano tutte dei gatti.
“Belli. Sono tuoi?”.
“Sì. Cioè no. Le cornici sono mie. I gatti no. Sono allergica”.
“Ah” rispose deluso.
“Quanti anni hai?”.
“Undici. Ma all’ingresso ho detto sedici” disse lui con un sorrisetto complice. “Perché non metti una foto tua?”.
“Sono troppo pallida”.
“Tieni, prova questo” disse mostrandole un boccettino. “È bronzificante. C’è una ragazza di là che spiega come si usa”. E le spruzzò addosso il liquido scuro.
Alina non fece in tempo a girarsi: l’auto abbronzante bruciava e il suo occhio destro iniziò a lacrimare. “Stai benissimo ora” disse lui. “Dai, ti faccio una foto. Cerca di non piangere che poi ti vengono le occhiaie e si vede che sei vecchia. Anzi facciamo così. Guarda di là. Mettiti di profilo”.