“Contingenze” di Michela Lazzaroni è il miglior racconto della Call artistica “Dimostra di essere umano. Scrivere storie al tempo dell’IA”: la giuria, composta da Francesco D’Isa, Massimo Chiriatti, Chief Technology Officer Lenovo, e Francesca Cristoffanini, direttrice di Belleville ha deciso di premiarlo tra i dieci realizzati dai partecipanti al workshop dello scorso 17 e 18 ottobre.
Con il suo impasto di passato e presente, “Contigenze” è l’immaginifico addio di una ex-bambina sfrenatamente fantasiosa alla madre, resa irriconoscibile dalla malattia e dalla morte.
Michela riceve un PC Yoga Slim 7i Aura Edition e un buono valido per l’acquisto di corsi di Belleville; il suo racconto sarà commentato nel podcast dedicato al progetto, in uscita il prossimo 20 novembre, ogni giovedì, fino al 18 dicembre.
Buona lettura!
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Contingenze
Da bambina moltiplicavo gli oggetti, sfregavo il pollice sull’indice in piccoli cerchi, come a sfarinare polvere di fata, e la materia proliferava. Il divano era un elefante ornato a festa, il cuscino una sella da gaucho, le mollette per il bucato spiritelli carnivori, il cucchiaio di legno era una freccia infuocata, o una penna d’oca, o un righello, a seconda delle esigenze. Ci vedevo doppio, triplo, ogni oggetto era una moltitudine, una galassia di significati. Adesso non ne sono più capace. Nel salotto di mia madre, il divano è soltanto un divano arabescato, il tappeto è un tappeto, i cuscini sono cuscini. Mi avvicino al davanzale e proseguo l’inventario degli oggetti univoci: il giglio secco è un fiore morto, il delfino di cristallo un souvenir brutto, il portagioie in palissandro una scatolina vuota.
Infilo la mano nella tasca del cappotto e trovo subito il telecomando, un cicalino piccolo e ovale con una manopola al centro. Premo il pollice sulla sporgenza e la faccio ruotare in senso orario di due tacche, fino a 0,2 contingenze. Batto le palpebre e il portagioie è un cofanetto di alabastro intarsiato. Il coperchio riverso di lato, come un sepolcro aperto, svela l’imbottitura rossa. Ruoto la manopola fino a 0,5 contingenze e il portagioie è un’ostrica dalla bocca appena dischiusa. Ci infilo le dita, tasto la lingua carnosa alla ricerca della perla, ne ispeziono il palato, ma anche lei è vuota.
La appoggio sul caminetto che non abbiamo mai avuto e mi guardo attorno. Adesso la casa è un collage di tutti gli arredamenti che ho desiderato abitare: il pavimento a scacchi bianchi e neri dell’oratorio, il muro color dentifricio della biblioteca, il lampadario di bambù visto in qualche catalogo. C’è anche mia madre, seduta davanti al televisore che è un acquario di pesci tropicali. Tiene una melagrana spaccata in grembo, separa i chicchi uno a uno con attenzione, li ripulisce della membrana bianca e li raccoglie sul grembiule in mucchietti sanguinolenti. Sorrido: mia madre mangiava sul piattino anche i confetti, le zigulì a fine pasto, figuriamoci la frutta. Mi chiamava selvaggia se sbriciolavo per casa pane elfico, se lasciavo in terra pezzetti di formaggio per gli gnomi dei muri. Una volta ero sdraiata sul tappeto che era un triclinio a ingoiare acini d’uva, circondata da sedie che erano schiave fedeli: mi aveva bacchettata sulle nocche con il cucchiaio di legno fino a farle sanguinare. Provo un piacere maligno nel vederla in disordine, le dita imbrattate di succo, il pollice rosso che sgrana le perle umide. L’aria assorta invece è autentica, la riconosco da allora, quando discerneva il Bene dal Male tra una lavatrice e l’altra.
A 0,9 contingenze il beluga che era il divano nebulizza goccioline arcobaleno, il soffitto è sparito, le mattonelle nere sono banalissima lava, da qualche parte qualcosa abbaia, forse il portagioie. Mia madre è ancora mia madre, i chicchi della melagrana sono api, le ronzano sulle mani e sugli avambracci nudi, intravedo appena le dita dorate fatte di miele, o di polline, di ambra, di citrino, di zafferano. Solleva gli occhi dal pasto dello sciame e mi guarda severa, le sopracciglia come quelle di un gufo, come una freccia che indica giù verso l’ombelico. Non parla, ma so a memoria cosa direbbe: «Ferma con ‘ste dita», basta incantesimi, basta infanzia. Per ripicca porto le contingenze a 1,2.
La porporina striscia sui rosoni, l’aria saltella di incenso e rammarico, il cielo è invertebrato, no, ti prego! quello lascialo com’era! imploro il ravizzone che sgretola le grondaie. Le api sono tizzoni in volo, brillano come lo Spirito Santo, mi piovono addosso come le Perseidi, copro la testa con i gomiti, odore di bruciato dai capelli e dalle ciglia, finirò lapidata, penso, da questi chicchi di melagrana che sono api che sono tizzoni che sono meteore che sono dadi da brodo che sono alborelle che sono preghiere che sono temperini che sono ciottoli che sono denti che sono spighe di grano in controluce in questa giornata di metà ottobre un po’ in anticipo per i morti. Invece no. Tutte queste cose volano dentro l’urna posata sull’inconscio che prima era un caminetto che prima era un davanzale. Nuoto nell’eclissi fino al corredo da sposa e afferro il lampione, sfioro l’urna, mentre annego la inclino quanto basta, ci guardo dentro. Ficco la mano in tasca e giro la manopola al contrario, fino a 0,0 contingenze.
Allargo i petali rinsecchiti del giglio e finalmente, arrotolato attorno agli stami, trovo il rosario. Lo passo da una mano all’altra, sgrano le perle bianche tra pollice e indice con aria assorta. Era l’oggetto più prezioso che mia madre possedesse, eppure l’aveva trasfigurato in api, lucciole, fate, una qualche creatura in cerca di nettare, o qualcosa di ancora meno probabile. Mi ci vogliono 0,6 contingenze per immaginarla mentre cincischia con le perle, ci gioca fra sé e sé, prima di nasconderle nel fiore con un sorriso furbetto. Dopo tutti quei mesi di malattia, ancora fatico a conciliare la madre austera con la nonnina dispettosa in cui si era trasformata. Sorrido all’idea che la me bambina e questa vecchia furfante si sarebbero piaciute moltissimo. Ci siamo mancate di trent’anni, io e lei.
È la mattina del 18 ottobre, la data univoca del funerale di mia madre. Sono ancora in tempo, ma ho cambiato idea, non me la sento di metterle il rosario in mano, o di posarlo sul velluto in un angolo della bara. Sarebbe crudele seppellirlo quando basta una frazione di contingenza per lasciarlo volare dalla finestra.
Uso dell’IA:
Ho proseguito il gioco delle temperature. Ho utilizzato ChatGPT-5 non a pagamento (a volte, dopo aver esaurito il trial giornaliero, usavo la versione precedente): gli ho chiesto di rispondere allo stesso prompt simulando varie temperature da 0,0 a 2,0. Poi gli ho mostrato esempi di frasi generati con la versione in locale con le “vere” temperature. È stato interessante insegnargli a “fingere meglio” la variazione di temperatura, e incontrarne i limiti: usava “token sconnessi” (parole sue), ma con una semantica di fondo a cui non poteva rinunciare “per questioni di integrità linguistica” (sempre parole sue). Interrogare ChatGPT che fingeva di essere pazzo è stato più utile che fare davvero impazzire l’AI con parametri alti.
La ricerca faticosa del nonsense mi è sembrata il percorso inverso del diventare grandi, dove i modelli sociali e familiari limitano via via la varietà di pensiero e comportamento. Da qui l’idea: la protagonista adulta del racconto regredisce volutamente a un pensiero meno logico per inseguire la mente labile di una madre malata.
Durante la stesura mi sono ispirata al nonsense di ChatGPT e ho incluso i richiami all’infanzia e alla religione, in modo da rafforzare l’area semantica del ricordo, della morte e del funerale.
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Riportiamo qui sotto i punteggi ottenuti dai racconti dei dieci finalisti nelle quattro categorie (efficacia narrativa, stile, efficacia e originalità nel declinare la traccia, processo creativo e interazione con l’IA):
- Contingenze di Michela Lazzaroni: 48 (efficacia narrativa 10, stile 12, originalità nel declinare la traccia 13, processo creativo e interazione con l’IA 13)
- Variazione minima di Alessio Parmigiani: 47 (efficacia narrativa 12, stile 12, originalità nel declinare la traccia 12, processo creativo e interazione con l’IA 11)
- Gloria in eccelsis deo di Stefano Russo: 46 (efficacia narrativa 11, stile 11, originalità nel declinare la traccia 11, processo creativo e interazione con l’IA 13)
- Le nostre ombre invece di Gabriele Caprioli: 45,5 (efficacia narrativa 11, stile 12,5, originalità nel declinare la traccia 11,5, processo creativo e interazione con l’IA 10,5)
- L’autoritratto impossibile di Angela Fusillo: 45 (efficacia narrativa 9, stile 11, originalità nel declinare la traccia 11, processo creativo e interazione con l’IA 14)
- REMaster di Orlando Vuono: 43 (efficacia narrativa 11, stile 10, originalità nel declinare la traccia 10, processo creativo e interazione con l’IA 12)
- Manutenzione programmata di Marta Barattia: 43 (efficacia narrativa 11, stile 11, originalità nel declinare la traccia 10, processo creativo e interazione con l’IA 11)
- Le fattorie degli animali di Paolo Bossola: 39 (efficacia narrativa 10, stile 10, originalità nel declinare la traccia 10, processo creativo e interazione con l’IA 9)
- 1810XX di Stefania Maietti: 38 (efficacia narrativa 8, stile 10, originalità nel declinare la traccia 9, processo creativo e interazione con l’IA 11)
- Identità non verificabile di Paola Serratì: 37 (efficacia narrativa 8, stile 9, originalità nel declinare la traccia 9, processo creativo e interazione con l’IA 11)



