A qualche settimana dall’uscita in libreria di Dovevo dire Mick Jagger (Castelvecchi 2025), abbiamo chiesto a Greta Cappelletti, che ha frequentato il corso “Scrivere di notte” con Gaia Manzini, di rispondere ad alcune domande sul suo esordio.
Buona lettura!
1. “A trentatré anni, Mick Jagger prende le redini decisionali dei Rolling Stones. Io, per la prima volta, sono faccia a faccia con un agente immobiliare.” Che rapporto c’è tra il frontman dei Rolling Stones e Laura, protagonista di Dovevo dire Mick Jagger?
Non so se vi ricordate il film Provaci ancora Sam! (nel caso, consiglio di rivederlo, è invecchiato benissimo): il frontman dei Rolling Stones è per Laura ciò che Humphrey Bogart era per Woody Allen. Bogart era un fantasma, il modello di vita che Sam (Allen) rincorreva con scarsissimi risultati nel quotidiano e nelle sue relazioni amorose. Mick Jagger è qualcosa di simile, l’ologramma di un uomo che di tanto in tanto appare a ricordarti un modello di vincente. Una rockstar che ha avuto praticamente tutto e che non tentenna come Laura sui propri obiettivi di vita. Il rapporto è impari, per usare un eufemismo, e sono convinta che tutti abbiamo un Bogart personale con cui facciamo i conti ogni giorno e negli anni.
2. Nel romanzo e nella vita di Laura le case sono un leitmotiv: se fin da piccola giocava a fare l’arredatrice, quando si trasferisce a Milano affronta un trasloco dopo l’altro, trovandosi a condividere l’appartamento con inquilini sempre più improbabili. Che significati assegni al tema della casa?
Laura vive a Milano, città della crescita, del progresso, dei consumi. Forse è ridondante dirci che in questa città il problema dell’abitare è molto sentito e, al di là di una questione politica o urbanistica di cui non mi faccio carico perchè non saprei da che parte iniziare, per me la casa è un tema identitario.
La casa dovrebbe definirti come persona e potrebbe segnare il passaggio alla vita adulta, ma per la mia generazione resta qualcosa di aleatorio, inafferrabile. Abbiamo 40 anni e ci autopercepiamo universitari, abbiamo un lavoro ma la nostra famiglia sono i coinquilini. La mia generazione (sì, i bistrattati Millennial) sta ridefinendo il perimetro dell’essere adulti, è alla ricerca costante del proprio posto nel mondo. Ecco, questo specifico sentimento è la voce di Dovevo dire Mick Jagger, la ricerca sfibrante del proprio posto nel mondo.
3. In Dovevo dire Mick Jagger, la narrazione è scandita dalle domande di un’assicuratrice che indaga sulle relazioni di Laura, sul suo lavoro, sui suoi obiettivi, dandole l’opportunità di ripensare ad alcuni episodi del passato e del presente. Come è nata l’idea per questa soluzione narrativa e perché l’hai scelta?
Qualche anno fa ho letto Il discorso di Fabrice Caro, un romanzo che mi aveva divertita e commossa parecchio. La storia era ambientata in un’unica stanza dove, di tanto in tanto, si tornava a mangiare peperoni in famiglia per poi immergersi nella testa del protagonista, nel suo passato e nei suoi fallimenti personali. Quando ho iniziato a strutturare Dovevo dire Mick Jagger ho pensato che quella poteva essere la soluzione ideale: unità di tempo e luogo, un pomeriggio in cucina con due assicuratrici e la possibilità di aprire sulla vita della protagonista. Questo è lo scheletro e il pretesto: ore e ore di domande incalzanti e infernali in uno spazio inospitale. Insomma, una giornata davvero spiacevole.
4. Oltre a essere un’autrice e drammaturga, sei anche una stand-up comedian: cos’è per te la comicità? A cosa serve?
Non ricordo a chi viene attribuita la definizione “La comicità è Tragedia + Tempo”, ma di recente sono giunta a una nuova formulazione: la comicità è Disperazione + Ego.
Serve a cambiare la prospettiva su noi stessi e ciò che ci circonda, serve a tenere a bada i Bogart e i Jagger, quindi mi sento di dire che è una delle cose più importanti che abbiamo. Penso vada protetta come si proteggono i panda in via d’estinzione, tutelata come quei monumenti storici che intasano le città italiane o quei vini biologici fermentati di sapore pessimo.
