“I nomi dei morti” di Andrea Cecconello è il racconto vincitore della borsa di studio per l’undicesima edizione della Scuola annuale di scrittura, in programma dal 10 novembre. La storia di una famiglia – i suoi ricordi, le sue ferite, i suoi segreti – è raccontata con un montaggio che intreccia piani temporali diversi e uno stile che non chiama per nome i sentimenti dei personaggi, ma piuttosto li evoca attraverso l’asciuttezza delle azioni e dei dialoghi.
***
Ale sta fissando il fuoco del fornello. Il caffè sibila fuori dalla moka, fischiando, e cola sulla fiamma fino a spegnerla.
Da un po’ di tempo ha questa sensazione: niente sta andando come dovrebbe. Ci pensa sempre più spesso. Come prima, mentre studiava, e nel voltare la pagina del libro l’aveva colto un pensiero.
Niente va come dovrebbe.
Questo pensiero lo fa alzare, lo porta davanti ai fornelli, gli fa mettere le mani in tasca e lo lascia lì, a fissarli per dieci minuti. Vorrebbe riuscire a controllare il proprio respiro, eppure sfugge al suo controllo. Non ha la percezione del tempo passato così si sveglia solo quando il fuoco è diventato fumo.
Per come la vede lui, l’unica soluzione che gli rimane è quella di andare via da Torino. Aveva scelto di andare a Torino per cominciare in un posto senza sbagliare. Ma non era riuscito a cambiare le cose. Mai un momento da quando era ragazzo, gli sembrava, era riuscito a vivere senza questa sensazione.
Guardando il telefono Ale si accorge di quattro chiamate perse da sua madre. I cugini sono venuti dall’America fino a Milano e lui se ne era dimenticato. Prima di fare lo zaino si rimette sul libro. Vorrebbe finire il capitolo. Non si è accorto, però, che alla fine non ha mai voltato pagina e sta rileggendo le stesse parole da un’ora.
In treno capisce di essersi dimenticato il libro da studiare. Almeno si è ricordato di portare l’agenda. L’agenda gliel’ha regalata la sua fidanzata.
Così programmi gli esami.
Non ci ha ancora scritto nulla. Di fianco all’agenda ha portato un’altra cosa, più importante. È un libro: Ballate di Stefano Benni. Benni era lo scrittore preferito di suo zio Roberto, il padre dei cugini che arrivano. Questa è bene o male l’unica cosa che Ale sa di lui. È morto due o tre anni prima. Hanno parlato solo una volta. Questo libro lo vuole regalare ai cugini che, però, non sanno leggere l’italiano. Si decide quindi a tradurre un paio di poesie per loro e alla fine lo fa, con la scrittura sbilenca da treno. L’inchiostro blu trema a ritmo con le vibrazioni dei binari, e i versi storti in inglese si affiancano a quelli originali.
Scende a Milano centrale, prende la verde fino a sant’Agostino, poi il quattordici direzione Corsico. Fuori dai finestrini scorre via Giambellino, una strada dritta che collega Milano e Corsico. Vede cubi di cemento grigio occupati dagli abusivi, sulla destra. Sulla sinistra, prima di San Cristoforo, il Pussycat, l’ultimo cinema porno di Milano. A San Cristoforo si faceva il calcetto di lunedì. Una volta, mentre giocava, ha sentito un boato. Il giorno dopo ha scoperto di aver sentito uno sparo: hanno ucciso un ragazzo alla fermata del quattordici. Si chiamava Mohamed. L’ha letto su Milano Today.
Scende al capolinea. Una volta non gli piaceva tornare, gli tornava addosso l’odio che provava prima di partire. Ora l’odio si è attenuato e, chissà come mai, ci torna molto meno.
Quando entra a casa, sua madre lo abbraccia: è ubriaca. Suo fratello lo saluta senza alzarsi dal divano. Sua madre parla molto e lui la guarda, una sigaretta nella sinistra e un bicchiere di whisky, ma con vino bianco e ghiaccio, nella destra.
Tira avanti così.
All’inizio, racconta allegra della sua vita:
«Ho visto la Nadia, ho visto la Silvia…»
«Come sta la Susi?»
«La Susi ha il cancro.»
«Che dice la Nadia?»
«Bene» dice lei, e poi racconta della Nadia.
Dopo due bicchieri di vino parlano del cancro della Susi. Questa è l’età della mezza età, della menopausa, l’età in cui ogni mese qualche amico di sua madre scopre una malattia, va in depressione ecc. Poi parlano del divorzio.
«Come vuoi che vada, Ale? Tuo padre non parla» dice. La sua voce è cambiata. Suo fratello si alza e va in camera sua.
«Ale, ascoltami.»
Il vino nel bicchiere oscilla come un’altalena, sfiorando l’orlo.
«I silenzi creano mattoni, i mattoni creano muri, e i muri dividono le persone» dice. Ale capisce che ha questa frase in testa da tempo. L’avrà letta su una rivista. Suo padre dorme in camera sua, oramai, quando lui è a Torino. Quando torna deve andare via.
Non ci vediamo mai. Ogni volta che torni tua madre mi caccia da casa mia. Questo non glielo perdonerò mai.
«Tuo padre…» dice sua madre, «se potessi ucciderlo schioccando le dita, Roberto, lo farei subito.»
«Non m’importa di chi vuoi ammazzare. Non me lo devi dire. E io non ti dico i miei.»
«Le persone devono parlare. Io con te parlo.»
«Non di questo.»
Lei prende la borsa e va al lavoro. Fa la baby-sitter. Quel pomeriggio torna suo padre a casa. Si abbracciano, parlano del Milan. Una volta, quando Ale era piccolo, suo padre era andato a vederlo giocare.
Non vieni mai, non te ne frega un cazzo. Non dire cazzo. Il pugno tirato a un altro bambino. Il rosso del sangue e del cartellino. Non venire più, papà. Puoi starne certo.
Perciò hanno condiviso la loro passione davanti alla televisione.
«Ho saputo un’ora fa che sei tornato. Se me l’avessi detto prima mi sarei liberato» dice suo padre. Da come è vestito, Ale capisce che non si è cambiato. Ha i pantaloni sporchi di vernice. La giacca due taglie più larga. Le spalle che si piegano in avanti, ogni anno di più.
«Ti sei abbassato» dice Ale.
«Anche tu» risponde.
«Devo andare. Vuoi dei jeans?» gli chiede, prima di uscire.
«No, perché?»
«Sono sporchi, i tuoi.»
«Non preoccuparti, vai pure. Ti voglio bene» dice Ale.
Suo padre gli sorride.
Quella sera Ale è dalla Nuni. La Nuni è la madre di sua madre, di Roberto e di Valentina. Ale non ha mai conosciuto Valentina. Neppure sua madre l’ha mai conosciuta. È morta che era appena nata. Poi è nata sua madre. La Nuni non ne ha mai parlato. È stata sua madre a raccontargli tutto.
Lo sai che c’è una tomba col mio nome sopra?
In casa ci sono anche i suoi cugini. È la prima volta che si conoscono, e vogliono sapere tutto l’uno dell’altro. Portano i nomi di nonni a lungo morti e dimenticati.
«Sono così dispiaciuto per i tuoi genitori…» gli dice.
«Sono vivi, Daniel.»
«Sì, parlavo del divorzio.»
«Sì, va tutto bene.»
È a Daniel che dà il regalo.
«È il preferito di Roberto!» esclama la zia americana.
«Sì, ne ho tradotte un paio» dice Ale. I cugini aprono il libro e cercano le poesie. Non le trovano. In effetti, ne ha tradotte solo un paio su centosessanta.
«Se non vi basta, vaffanculo» gli dice Ale.
«Come?» chiede sua zia.
Ale lo ripete, ma in inglese, e la zia ride di cuore. Poi, con le lacrime agli occhi, dice: «Roberto me lo diceva sempre!»
Così racconta tutto un aneddoto su come Roberto amava mandarla a fanculo dopo averle dimostrato il suo amore. La Nuni e sua madre ricordano nel loro inglese incerto di come Roberto, dopo aver letto La compagnia dei celestini, sporcava tutti i jeans appena puliti giocando a calcio.
«Sei identico, Alessandro» dice la Nuni.
Sua madre lo guarda con tenerezza, finché non nota la camicia due taglie più larga.
«A parte per questa, è troppo larga» dice.
Poi è il turno dei cugini. Raccontano le loro Dad’s stories. In una di queste lui si presenta come un filosofo contemporaneo. In un’altra sono in un ristorante italiano dove però la pizza fa schifo, così lo zio decide di insegnare loro un po’ di cultura del paese. Chiama il cameriere e gli spiega con calma che «This porcoddio of pizza fa schifo». Il cameriere chiede scusa, non ha capito. Senza perdere la sua compostezza da filosofo contemporaneo, lo zio scandisce lentamente il porcoddio.
Dopo quella storia, Ale sente degli altri pensieri salire in superficie. Prova a concentrarsi sul suo respiro ma trova difficile controllarlo. Va troppo veloce. Decide che deve andarsene a fumare. Sua madre, però, gli chiede di tradurgli l’ultima storia che hanno raccontato. Quando capisce che Ale non può tradurla per lei, sospira.
Fuma una sigaretta sul balcone e poi gira la seconda. Sua madre si unisce.
«Non rimani là ad ascoltare?»
«Non capisco un cazzo.»
«Stai bene?»
«Non indovinerai con chi vado a pranzo domani» dice lei.
«Con il tuo nuovo fidanzato?»
«No, con tuo padre.»
«Com’è che stamattina lo volevi morto e domani ci vai a pranzo insieme?»
«Mi ha dato un passaggio, prima.»
«Per dove?»
«Per qua.»
«E non l’hai fatto salire?»
Perché a Natale non posso venire? Sono la mia famiglia. No, non sono più la tua famiglia.
Ale rimane in silenzio e guarda giù dal balcone. Il sole tramonta dietro i palazzi. Si sente un cane abbaiare lontano. La Nuni gli ripete sempre che una volta, qui a Bonola, c’erano solo pecore e praterie. Poi qualcuno ha deciso di coprire tutto con l’asfalto per fare un quartiere. Al centro c’è un centro commerciale. Ci ha vissuto per un po’, qua. Non è un posto in cui tornare.
«L’importante è che parliamo, Roberto. Le persone devono parlare.»
A volte Ale pensa che lui sia la persona con cui sua madre parla. Non è esatto. Lei parlava con Roberto.
«E di cosa dovete parlare?»
«Minchia Ale, che palle. Tu e tuo padre pensate che si può parlare solo di tragedie. Si può parlare anche delle banalità. Come stai? Com’è andata al lavoro…?»
Ale smette di ascoltarla.
La mattina dopo si sveglia per ultimo. Gli altri sono in cucina. Ale mette le cuffie, ma le loro parole superano la musica.
«Ti ho detto che non possiamo andarci lì, è chiuso» dice suo padre.
«Allora andiamo da un’altra parte» dice sua madre.
«C’è un altro sushi qui vicino?»
«Vicino no, però è buono lo stesso.»
«Se vuoi possiamo andare domani, che è aperto.»
«Senti, fai come vuoi. Se non vuoi andare non andiamo.»
«Calmati, ho solo chiesto.»
Ale pensa a quando andare a Torino.
«Vado a fare la spesa» dice suo padre.
Sua madre lo guarda.
«Per i ragazzi, anche loro devono mangiare, no?»
«Mi accompagni in stazione?» chiede Ale.
«C’è il Milan, stasera…»
Sua madre si versa un bicchiere di vino.
In macchina, di solito, Ale e suo padre parlano di più. Ascoltano Virgin Radio.
«Quanti esami pensi di dare quest’anno?»
«Ho un’agenda piena.»
«Tornando così tanto non riesci mica a darli tutti.»
«Rimarrò a Torino.»
Cerca di risolvere: «Due treni alla settimana sono un costo, comunque».
«Non li paghi tu.»
Succede che uno cerchi di rompere il silenzio dell’altro, ma spesso è meglio se non dicono nulla. Arrivano in stazione.
Le persone devono parlare.
«Perché non te ne vai da qui?»
Suo padre si passa una mano sugli occhi. Li massaggia. Sospira.
«E dove?»
Ale dice: «Non lo so, da qualche parte. Perché rimani in un posto dove niente va come dovrebbe?»
Suo padre guarda la strada davanti. Non riesce a vedere lontano.
«Come ti senti, quando sei qua, quando sei in mezzo a queste persone?» chiede.
Suo padre lo guarda. Poi torna a guardare la strada. Batte due dita sul volante.
«Io…» dice, e muove le mani come se cercasse di afferrare qualcosa, senza riuscirci. Alla fine, Ale capisce che i muri esistono. Ma non dividono le persone.
I muri sono le persone.
A Torino non riesce a studiare. La notte non riesce a dormire. Si alza, rinunciandoci, e va a fumare una sigaretta. Prende il libro di Benni. I cugini l’hanno dimenticato dalla Nuni. L’inchiostro della penna si è bagnato, in qualche modo, e ora è illeggibile. Le macchie blu coprono anche l’originale, nascondendo la poesia. Ale la conosce a memoria, e si ricorda ancora della prima volta che l’ha letta.
Anche lui ha un ricordo da raccontare. Una Dad’s story:
Sono le quattro del mattino, un’estate. È appena stato bocciato, e le cose in casa non vanno come dovrebbero. Da un po’ di tempo, ormai. Così ha chiesto alla Nuni di stare un po’ da lei. Lei gli ha risposto di sì, ma con riserva. Il nonno è ancora vivo e non è un bello spettacolo. Sta tutto il giorno seduto sulla poltrona.
I soldatini con cui Ale giocava per terra, di fianco alla poltrona. I film western del nonno. Ale gli chiedeva chi fosse il buono e chi il cattivo. Il nonno non lo guardava mai.
Il nonno lo guarda, ora, e non sa chi sia. Gioca con i soldatini di Ale bambino. Quando si stanca guarda davanti a sé come se la tv fosse ancora lì.
Ale lo ha messo a letto perché il nonno pesa sessanta chili, ma rimane alto un metro e novanta. Poi si è messo a leggere sulla sua poltrona. Anche se puzza di merda. Ci mette una coperta sopra e ci si siede comunque perché da bambino pensava che fosse un trono.
Mentre è lì, squilla il telefono di casa. Ale riattacca. Squilla ancora.
«Chi è?»
«Chi sei?»
«Sei tu che hai chiamato.»
«Cerco la signora Marconi.»
«Perché chiami la signora Marconi alle quattro del mattino?»
«E tu perché sei a casa della signora Marconi alle quattro del mattino?»
Litigano. Ale lo chiama anche stronzo. La Nuni si sveglia, vuole parlare con lo stronzo. Lo insulta. Poi ascolta. Poi lo insulta ancora, ma diversa.
«Tieni, lo stronzo è tuo zio che si è dimenticato del fusorario. Notte.»
Ale prende la cornetta e così parla con suo zio per l’unica volta. Parlano per più di un’ora. Lo zio è l’unico che lo ha ascoltato parlare della sua sensazione. Vorrebbe fargli molte domande, ma non sa cosa chiedergli. Alla fine, Ale gli legge una sua poesia. Anche Roberto gliene legge una. Ma non è sua. È di Benni.
Poi Ale gli dice che deve tornare presto.
«Perché?»
«È per il nonno.»
«Sta bene?»
«No.»
«Capisco.»
«Non è per questo.»
«In che senso?»
«Perché mi chiede sempre di te. Pensa che tu te ne sia andato perché avete litigato. Pensa che tu lo odi. Che tu abbia ancora vent’anni, tipo.»
«Ho capito.»
«Torni?»
«Prima che muoia, appena riesco.»
Ma suo zio non è tornato. È morto due mesi dopo, nel sonno. Suo nonno, invece, è durato un altro anno.
Ale è contento di non avere raccontato questa storia. Se la tiene per sé. Nessuno dovrebbe sapere che lo zio sapeva. Che è morto senza potere tornare. Se ricevesse una chiamata al telefono, ora che sono le quattro del mattino, saprebbe cosa chiedere.
In fondo, se ci pensa bene, è meglio che non sia tornato.
Le persone restano, tornano. Forse non fa differenza. Quando le persone se ne vanno i loro nomi rimangono, e i vivi non sanno cosa farne.
Ale accosta la sigaretta sul libro, ispirando un piccolo cerchio di fuoco. Il cerchio si alza, si espande e divora la pagina. Ale guarda il fuoco, ipnotizzato da quel che vede dentro. Si desta solo quando la fiamma è spenta. Butta il libro nel cestino.
La poesia, però, è impossibile buttarla.