Guerre giuste o preventive, operazioni speciali, “se vuoi la pace prepara la guerra” fino al “Qualche volta Papino deve usare un linguaggio un po’ forte” con cui il Segretario generale della NATO ha salutato l’attacco americano all’Iran. Da sempre, la guerra si gioca su due piani paralleli: quello, osceno e straziante, delle armi e dei morti e quello delle parole che il potere produce a getto continuo per mistificare, sterilizzare, giustificare l’ingiustificabile. Ma come possiamo ripensare il discorso attorno a un tema così gigantesco? È possibile raccontare la guerra per fare la pace? Ne discutono Francesca Mannocchi, inviata di guerra e scrittrice, e Nathan Thrall, giornalista e autore che alla questione israelo-palestinese ha dedicato Un giorno nella vita di Abed Salama, vincitore del Premio Pulitzer per la non fiction.

Nathan Thrall
Nato a Los Angeles nel 1979, giornalista, scrittore e saggista americano, vive a Gerusalemme. Si è occupato di Medio Oriente per dieci anni dirigendo l’Arab-Israeli Project nell’ambito dell’International Crisis Group, l’ONG transnazionale attiva nella prevenzione e risoluzione delle guerre. Ha pubblicato la raccolta di saggi The Only Language They Understand: Forcing Compromise in Israel and Palestine (2017) e Un giorno nella vita di Abed Salama (Neri Pozza 2024), un’odissea contemporanea che intreccia le storie della popolazione palestinese nella Gerusalemme controllata da Israele.
