Vai al contenuto

Storia della mia bocca. Intervista a Maggie Nelson

    Immagine Essential Grid

    Negli anni Maggie Nelson ci ha abituato a libri inafferrabili. Poeta, scrittrice, accademica statunitense, accanto a una ricca produzione saggistica ha sperimentato con i generi, ibridando il racconto personale con la teoria, il memoir con la critica. Bluets, uscito negli USA nel 2009, è composto di 240 frammenti o «proposizioni» di lunghezza variabile, dalle poche parole alla ventina di righe: è uno scritto anomalo, tra il saggio filosofico, la lettera d’amore, la storia di un’amicizia, la cronaca di un’ossessione, il tutto tenuto insieme dalla passione per il colore blu, nelle sue varie sfumature. Un esperimento di ibridazione proseguito con Gli Argonauti, che mescola il racconto in prima persona della maternità di Nelson e la transizione del suo compagno a elementi poetici e di critica culturale, al punto di essere stata definita un’opera di autotheory. 

    Esce adesso in Italia anche Pathemata. O, la storia della mia bocca (nottetempo, 2025). A metà tra il diario clinico e un diario dei sogni, il libro racconta un decennio di dolore alla mandibola. Nel cercarne l’origine, Nelson spariglia le coordinate del tempo e attraversa continuamente il labile confine tra una quotidianità in cui si intersecano famiglia, amicizie, medici, e una dimensione onirica potente, disorientante.  

    Ho avuto la fortuna di tradurre i libri di Maggie Nelson pubblicati in Italia (a eccezione di Gli Argonauti). Pathemata è arrivato all’improvviso, dopo due imponenti saggi, e mi ha commosso. La scrittura di Nelson qui raggiunge una precisione enigmatica, a tratti quasi oracolare, restando però terrigna, immersa nella confusione dei giorni e dei rapporti umani, nelle ragioni inspiegabili del corpo e in quelle ancor più inspiegabili del lutto. Sembra il compimento della storia iniziata più di quindici anni fa, proprio con Bluets. O chissà, forse è solo un’altra fase di passaggio. 

    La prima cosa che salta all’occhio, in questo libro, è il bianco. I frammenti di testo sembrano persi nella pagina. Mi sono trovata davanti alla difficoltà di tradurre, in un certo senso, non solo la scrittura, ma anche il non detto da cui affiora, il vuoto. Cosa ti ha portato a scrivere il libro in questo modo? 

    Ogni libro che scrivo trova la sua forma. La forma di questo libro ha finito per essere quella della frase: premevo invio alla fine di ogni frase. E mi sembrava giusto così. I vari blocchi di testo sono poi separati dallo spazio bianco. Il mio modello era Le Mausolée des Amants, il libro postumo che raccoglie i diari di Hervé Guibert, in cui ogni voce è separata da uno spazio bianco. L’ho copiato. 


    Da un libro sul dolore ci si aspetta una lezione, una morale. Nel tuo racconto invece c’è più che altro smarrimento. Cosa non insegna il dolore? Cosa insegna lo smarrimento?

    Una lezione del cristianesimo (e di molti altri sistemi di credenze e religiosi) è che la sofferenza sia fonte di significato. Non ci credo, non esattamente almeno, ma penso che la sofferenza ci conceda certe opportunità. Lo smarrimento è un’opportunità. Lo smarrimento ci insegna che sentirsi smarriti fa parte della vita, così come ne fanno parte la sofferenza, la gioia. La cosa bella della scrittura è che offre una modalità di abitare ed esplorare alcune sensazioni ed esperienze, alcuni sentimenti che, al di fuori della scrittura, possono risultare intollerabili. Scrivere (e leggere) può insegnarci a stare dentro quelle cose per un po’ – l’aggiunta dell’esperienza estetica le rende più appetibili. 

    Nel ricostruire l’origine di questo dolore alla mandibola, arrivi a considerare il “ruolo letterale e simbolico della bocca nella vita di una scrittrice”. Qual è?

    Di certo è diverso per persone diverse – non tutte associano il discorso orale alla scrittura, alla parola stampata; alcuni scrittori sono dei gran chiacchieroni, altri scrivono perché non parlano affatto. Ma in qualche modo essere una scrittrice vivente oggi significa sempre di più essere chiamata a parlare in pubblico, presentare il proprio lavoro in contesti pubblici – il che è strano, se ci pensi, considerato che la maggior parte degli scrittori e delle scrittrici creano il proprio lavoro in uno spazio straordinariamente poco sociale, per non dire antisociale. Rendere il personale pubblico, quindi, può creare molta tensione e agitazione. Come scrive Anne Carson nel suo saggio “The Gender of Sound”: “Ogni suono che emettiamo è un pezzo di autobiografia. Ha un’interiorità totalmente privata eppure la sua traiettoria è pubblica”. 

    La “storia della tua bocca” vede protagonista una lingua – robusta, fatta di sangue – che fin dall’infanzia sembra volersi liberare, con tutte le implicazioni metaforiche del caso. In questa immagine c’è una tensione interessante: un corpo estremamente fisico, presente nel piacere e nella sofferenza, e una grande capacità di astrazione. Come tieni insieme i due estremi?  

    Semplicemente sono fatta così, penso. È un tratto che contraddistingue in gran parte non solo la mia scrittura, ma anche la mia vita.

    “L’unica cosa che mi spaventa più del dolore e della sua ferocia è il torpore, la paralisi”. Mi sembra che hai dedicato tutta la tua opera di scrittrice a evitare il torpore, anche a costo di scavare in situazioni angoscianti (personali, come la morte di tuo padre e il processo per l’omicidio di tua zia; ma anche collettive, come la crudeltà nell’arte e il dilemma della libertà). Che ruolo ha avuto la scrittura in questo? 

    Hai ragione, sono sempre stata una scrittrice d’azzardo, che mira dritta al sodo, alla roba forte. A volte funziona meglio nella scrittura che nella vita. Di questi tempi, cerco di vivere attenendomi un po’ di più al motto buddhista: “Non portare le cose fino al punto in cui fanno male”. Ma per me la scrittura è sempre stato il luogo dove posso porre delle domande, senza vergogna, proprio sulle cose che fanno male, senza assillare le altre persone che mi stanno intorno con le mie fissazioni. Cerco però di variare la portata del campo d’azione – sono interessata anche alla bellezza, all’amore, alla connessione, e così via.

    Pathemata, infatti, è un libro pieno di amore. C’è tuo figlio, c’è tuo marito, ma mi ha commosso in particolare l’amicizia con C, una tua carissima amica rimasta coinvolta in un incidente di cui racconti in Bluets, e che ritroviamo qui. Il vostro è un rapporto di affetto e conoscenza. Oltre a lei parli di “una tribù di lingue affini”. Chi sono, come sono fatte?

    Ah, la tribù di lingue affini. Sono, come suggerisco nei ringraziamenti alla fine del libro, le altre persone che ho incontrato lungo la strada e dimorano felicemente nella profusione, partecipano felicemente all’infinita conversazione che è il vivere. In poche parole sono i miei amici e le mie amiche – i miei amici e le mie amiche che si interessano di scrittura – ma anche amici come C, che considero miei protettori, anche se in questo caso devono proteggermi dal grande aldilà. 

    Qui in Italia Bluets è uscito l’anno scorso. Per me era ancora fresco, quando ho iniziato la traduzione di Pathemata, ed è stato un passaggio molto naturale, per tono e atmosfera: mi sembrano libri con una forte connessione. Per te com’è stato riprendere e proseguire quel discorso dopo quindici anni?

    I due libri hanno molte somiglianze, ma la loro forma è diversa (in Bluets le proposizioni sono numerate, in Pathematano). Anche il soggetto è differente. Una cosa che mi interessa da sempre è quanti modi esistono per modellare il racconto di una vita: Bluets modella il racconto di una vita attraverso il prisma di un colore, questo libro attraverso il prisma di una bocca e di una mandibola. Mi sembra che si potrebbe andare avanti all’infinito; è un processo che amplifica le possibilità del nostro vivere, la comprensione del nostro vivere – rende le nostre vite più grandi, ci offre il dono di cambiare le nostre storie. 

    Ho scritto entrambi i libri in una condizione piuttosto solitaria – Bluets quando mi ero appena trasferita a Los Angeles, non conoscevo nessuno e avevo il cuore spezzato; Pathemata dopo aver ottenuto una vita famigliare ricca, che però la pandemia stava fratturando, mettendo sotto pressione. Penso che il Covid abbia costretto molti di noi a una certa interiorità, spesso molto solitaria, e questo libro nasce proprio da lì. E poi C è morta nel 2021, e mi è sembrata la fine di una storia che avevo cominciato in Bluets. Stranamente, quando lei è rimasta coinvolta nell’incidente nel 2003, i medici avevano detto che, in media, le persone con le sue particolari lesioni alla colonna vertebrale hanno una speranza di vita di diciassette anni. Nel suo caso, è stato esattamente così. 

    Nelle tue opere citi spesso opere altrui. Non solo nei saggi, com’è normale, ma anche quando scrivi di te, tanto che per Gli Argonauti è stato usato il termine autotheory. Qui l’unico riferimento ricorrente è Sylvia Plath. Ridurre le citazioni ti ha lasciato più spazio per altro?

    È stata una grandissima liberazione, scrivere senza appoggiarmi a nessuna citazione. Niente ricerca, eccetto i miei sogni. (A volte dovevo aspettare che facessi un bel sogno per poterne scrivere, ma questo è stato l’unico ostacolo). L’assenza di ricerca rientrava nel progetto dell’interiorità. A differenza dei miei ultimi due libri – Like Love e Sulla libertà, che erano libri molto discorsivi, con un interesse nella società, in conversazione con mille altri – questo era un volo in solitaria. E le parole di Plath le conosco a memoria, perciò praticamente non ho dovuto consultare nessun libro. 

    Sei una scrittrice che spazia molto tra i generi. Sai passare da una scrittura poetica e allusiva come questa alla chiarezza e al rigore necessari in un saggio. Come ti orienti tra queste forme diverse, da cosa ti lasci guidare? 

    Sono guidata dall’argomento, e dalla forma in cui le cose stesse vogliono presentarsi. Non mi sembra mai di avere una grande possibilità di scelta: mi sembra che l’argomento su cui mi sto concentrando prima o poi mi dirà che aspetto vuole prendere, che suono dovrà avere. Devo solo stare attenta e ascoltare, e quindi cavalcare l’onda. 

    Maggie Nelson

    Nata a San Francisco nel 1973, è autrice di diversi libri di poesia e prosa, tra cui Gli argonauti (Il Saggiatore 2016, vincitore del National Book Critics Circle Award), Sulla libertà (Il Saggiatore 2021) e Bluets (Nottetempo 2023). Il suo lavoro le è valso numerosi riconoscimenti negli Stati Uniti e all’estero.

    Alessandra Castellazzi

    Alessandra Castellazzi è traduttrice e scrive soprattutto di libri e letteratura. Ha tradotto, tra gli altri, Maggie Nelson, Mark O'Connell e Brian Dillon. Collabora con alcune case editrici ed è stata caporedattrice del Tascabile.