Posizione di partenza: mani sulla tastiera, occhio sulla pagina. Chi non deriva soddisfazione fisica e un ritmo di marcia da questa pratica può dire addio alla forma. Se non sei tagliato per questo – il battito continuo dello scrivere, riscrivere, revisionare, ripartire, proporre, lanciare, rilanciare, studiare, assorbire, chiudere e andare avanti – non sei tagliato per il tempo lungo.
Chi non impara la posizione o non la abbraccia per istinto può arrivare a scrivere qualcosina tra atroci sofferenze a suon di copia e incolla, ma la forma gli si ritorcerà contro.
Al livello più elementare, le famose basi, la scrittura è una trattativa costante tra la tua linea di pensiero, quello che vedi, quello che stai provando e la realtà materiale della pagina. Quando il testo comincia a girare allora il testo si produce da solo e la tua unica responsabilità come autore è lo stare dietro al testo, ovvero, startene zitto e rimanere fisicamente sulla pagina. La disciplina necessaria a produrre lavoro è quella del ballerino che deve accettare di essere un pezzo di carne; la disciplina necessaria a produrre l’altra metà del lavoro è la visione coreografica. Arrivando a un’intesa costruttiva se non alla completa fusione tra le due metà, che per quanto riguarda la pratica sul tempo lungo sono entrambe necessarie, è possibile portare al termine un lavoro e nel frattempo aver guadagnato la fluidità di pensiero – quindi la fluidità di movimento – necessaria a mettere in piedi il progetto successivo.
Pensa a te stesso come a una macchina. A un flipper, se ti fa stare più allegro. Se la tua posizione non è “mani sulla tastiera e occhio sulla pagina”, stai cercando di scrivere come terreno di rimbalzo rispetto a un fallimento in un’altra forma, perché pensi che passando dalla pagina sarà più facile, e non succederà. La pagina al limite ti restituirà il fallimento. Se la tua disciplina e l’amore del ritmo non sono sufficienti a farti stare sulla pagina dodici ore al giorno, quando serve, la pagina non fa per te. Impari a scrivere solo accettando la bellezza di questo tritacarne: impari a scrivere quando accetti di avere davanti una dimensione di tempo dove è fondamentale pestare sui tasti e generare nuovo materiale.
Il lavoro migliore che abbia mai avuto è stato quando a ventidue anni scrivevo due-trecento schede a botta per un dizionario critico. Me le rimandavano indietro zeppe di note, da “stai usando un impalco argomentativo che il film chiaramente non merita” a “questo aggettivo fa schifo, cambialo”: mi incazzavo come una biscia, ma poi ubbidivo, e intanto imparavo. Il lavoro manuale migliore che abbia mai avuto è stato quando mi alzavo alle cinque di mattina per pulire la cucina di un ostello (la mia compagna di turno era una nativa della Scozia che sarebbe presto diventata un’apprezzata scenografa teatrale: la ricordo con uno straccio in mano che ripassava il frigorifero industriale della cucina dicendo, I love wiping surfaces). Ogni singolo incarico che mi abbia mai insegnato qualcosa era a prova di blocco della scrittura: il lavoro andava fatto in tempo, e la natura di quegli incarichi non lasciava spazio a nessuna tristezza, nessun covare dubbi esistenziali riguardo al senso del nostro lavoro. La scrittura a ciclo continuo ti costringe ad affrontare la realtà del pezzo mediocre o fuori forma; ti strappa di dosso la vanità della bella frase. Non ti sta bene? Cercati altro. È un’educazione migliore di quella che avrei ricevuto in qualsiasi MFA.
Tutto quanto ho imparato negli anni prima dello scrivere libri aveva un valore enorme (spina dorsale, scadenze, raggio d’azione, quell’aggettivo fa schifo: cambialo), ma più tempo passavo in ostaggio della visione altrui nel mondo dei libri –l’autore bloccato, la pagina perfetta, il gingillo inestimabile – più ne risentiva la mia abilità di partenza.
Nel 2021 ho deciso che avrei lavorato più duro che potevo finché avessi costruito un corpus in inglese, la mia seconda lingua madre, e sotto pseudonimo. In diciotto mesi avevo prodotto e collocato settanta poesie, racconti e longform: avevo una pila di scalpi abbastanza alta da poter considerare di firmare di nuovo un progetto con il mio nome di nascita, tornando a scrivere nella mia prima lingua madre.
Gironzolare senza avere materiale fresco in corso di lavorazione e senza avere una lista di progetti pronti a uscire è un comportamento delirante che in alcuni ambiti professionali – le arti visive – viene giustamente sputtanato e inquadrato per quello che nasconde: disperazione, vanità, aura improduttiva. Se uno scultore lo vedi al bar, hai ragione nel dire che non sta combinando niente, quindi magari dice “sono un artista”, ma se non ha la spinta necessaria a produrre fisicamente non arriva a fare una mostra in vent’anni, le sue sono fantasticherie di importanza, e se non ha il motore necessario ad andare in studio tutti i giorni, al limite fa mezza mostra e poi smette.
In qualsiasi momento, per vivere bene, io devo avere tre o quattro cantieri aperti. Quattro o cinque progetti che richiedano una diversa quantità di tempo per svilupparsi in pieno. La settimana ideale è una striscia di tempo dove sto giostrando i capitoli del mio prossimo libro, un testo critico e un paio di approfondimenti. Questa settimana mi è scoppiato un ascesso parodontale e mi pioveva in bagno.
L’anno scorso ho riscritto da cima a fondo un memoir lasciandomi ordini scritti a mano in penna blu sui fogli di una stampata: pop it, sell it more. Non doveva vederli nessuno tranne me, ed eccomi qui che te li sto raccontando. (Pop it: allarga questo dettaglio, facciamo risaltare questa parola rispetto al paragrafo. Sell it more: me lo devi vendere di più questo gesto.) Il doppio registro privato mi accompagna nella lista delle cose da fare per un nuovo progetto: hack at it (se senti il morso della pagina vuota, tira colpi di taglio allo spazio bianco), chop and screw (“taglia e rallenta”, ma tra me e me significa “smettila di perdere tempo”). Posso scattare alla seconda lingua se la prima lingua mi abbandona o mi si ritorce contro: posso fissare sulla pagina quello che sto ricordando e provando, per poi tradurlo in prima lingua. Posizione di partenza: mani sulla tastiera, occhio sulla pagina. Se devi vomitare alla decima ripassata di un capitolo, ci sta che devi vomitare. Posizione di partenza: mani sulla tastiera, occhio sulla pagina.