Sei tu il figlio (Piemme 2023) è il primo romanzo di Emanuele Galesi, ex allievo dell’edizione 2020 del corso Scrivere di notte. In occasione dell’uscita in libreria, abbiamo chiesto a Emanuele di raccontarci in che modo la storia ha preso forma e si è gradualmente trasformata durante il processo di editing e revisione.
1. Da che elemento – una frase, un’immagine, l’idea di un personaggio – sei partito per iniziare a scrivere?
Ci sono due elementi che hanno acceso la storia. Il primo è la frase iniziale “il papà è in ospedale”, che ha rappresentato una specie di ritornello per me e mia sorella nel corso degli anni. Nel libro i nostri personaggi sono trasfigurati e lei ha un ruolo molto inferiore rispetto a quello che ha avuto nella realtà, ma la storia parte proprio da questo dialogo ricorrente che abbiamo avuto nel corso degli anni. Il secondo è la scena in cui il padre chiede al figlio di passargli un mantello. C’è stato un momento in cui io e mia sorella ci siamo detti “dobbiamo segnarci tutto”, perché molte delle cose che stavamo vivendo e che avevamo vissuto erano surreali e rischiavano di perdersi. Anche questo prendere appunti è stato fondamentale per iniziare a scrivere.
2. Quante e quali fasi ha attraversato il processo di prima stesura? Ci sono aspetti della narrazione che più di altri ti hanno messo in difficoltà e magari costretto a radicali ripensamenti?
La prima stesura è stata di getto. Avevo già in mente la struttura fatta di alternanza tra presente e passato, con le tre escursioni in montagna tra padre e figlio a scandire i passaggi del loro rapporto, dalla fiducia cieca dell’infanzia al distacco dell’adolescenza. Dopo aver completato la prima stesura, ho aspettato qualche mese e l’ho riletta, sistemando alcuni errori: ero convinto di essere arrivato alla meta. È stato solo con la seconda stesura, avvenuta a distanza di anni durante il corso di scrittura a Belleville, che con l’editor Marilena Rossi ho rivisto in profondità tutto il manoscritto. All’inizio ero sconfortato, pensavo “oddio, ma cosa ho scritto!?”, dubitavo di avere in mano qualcosa di valido. In realtà un nucleo di cose buone c’era, ma andava definito meglio. Ho approfondito la psicologia del protagonista, costringendomi a entrare di più nelle sue emozioni e a approcciarlo come un personaggio, e non come un mero riflesso di me stesso. Inoltre, ho eliminato diverse incrostazioni, non saprei come altro definirle, presenti nel testo, sforzandomi di tenere solo le parole indispensabili a raccontare la storia. Ho anche approfondito la storia collaterale del pittore Angelo Negroni, su cui il protagonista sta cercando elementi per realizzare un documentario. Se un giorno scriverò un manuale di scrittura, lo intitolerò “La sottotrama del pittore”: il principio cardine è che tutto ciò che è presente nel testo deve essere funzionale alla storia, deve dire qualcosa al lettore e contribuire al cuore del testo. Altrimenti sarà percepito come qualcosa di posticcio, di monodimensionale. Naturalmente non scriverò mai quel manuale.
3. La narrazione è costellata da descrizioni di luoghi: molti sono legati alle esperienze del padre – l’ospedale dov’è ricoverato, i vari centri diurni e di disintossicazione, i giardini frequentati dai tossicodipendenti; altri, come la pizzeria Gran Vesuvio, fanno parte della routine del figlio. Quale importanza rivestono i luoghi in Sei tu il figlio? E in che modo hai lavorato alla loro caratterizzazione?
Ho cercato di sfumare il più possibile la città, rendendola una città, senza connotarla in maniera specifica. In questa generica città, il protagonista ha alcuni luoghi di riferimento, quasi delle tane in cui può rifugiarsi. Tra queste, per quanto possa sembrare paradossale, figura anche l’ospedale. Al di fuori di questi spazi in qualche modo protetti, il protagonista è spaesato, senza punti di riferimento. Ha bisogno di tornare nei posti a lui famigliari. Da lettore faccio fatica a seguire le descrizioni molto dettagliate, perciò cerco di non inserire troppi dettagli fisici, bensì di restituire un’atmosfera facendo ricorso a pochi elementi molto precisi. I luoghi sono ciò che vediamo, ma anche ciò che annusiamo, ciò che ascoltiamo, ciò che tocchiamo. Cerco di ricordarmelo, mentre scrivo.
4. Ci puoi raccontare come sei arrivato alla pubblicazione e come hai lavorato al testo insieme alla tua editor?
Ci sono tre snodi che vorrei sottolineare. Quando ho letto da cima a fondo la seconda versione del manoscritto, ho pensato che finalmente ero riuscito a avvicinarmi a ciò che volevo, superando imperfezioni e ingenuità varie. Al tempo stesso, avevo bisogno di conferme. La prima è arrivata in seguito a un pitch con agenti ed editor organizzato da Belleville, quando la editor freelance Lara Giorcelli, dopo avere letto e apprezzato le prime pagine, mi ha chiesto di inviarle tutto il manoscritto. Nel giro di pochi giorni mi è arrivata un’altra sua mail in cui mi offriva il suo aiuto per cercare un editore, dato che secondo lei il libro meritava. È stato come se avesse acceso la luce nella stanza in cui mi trovavo. Il suo supporto, in questi mesi, è stato fondamentale. Lo scorso ottobre, poi, è arrivato il “Premio letterario Angelo Zanibelli – La parola che cura”, nella sezione opere inedite, con la possibilità di pubblicare il libro. Il terzo elemento è stato il lavoro con Piemme e con Francesca Lang, la mia editor. Francesca è andata ancor più in profondità nel manoscritto, suggerendomi interventi molto puntuali, a volte si trattava di una singola parola o di una frase, e ulteriori approfondimenti sui personaggi, in particolare sulla madre e sulla sorella del protagonista. È stato un momento di grande libertà, perché ho potuto lavorare sulla scrittura senza più pensare alla storia reale che l’ha ispirata, facendo davvero “come se”. Faccio un esempio: e se fratello e sorella litigassero? A quel punto non ero più io con mia sorella, ma erano i due personaggi a vivere la scena. Dopo questa ulteriore revisione con riscrittura, è arrivato il momento dell’editing “di fino” con la redazione di Piemme, sempre sotto la supervisione di Francesca Lang. Sono partito da un file con una serie di annotazioni e correzioni e ho restituito un documento di otto pagine con decine e decine di modifiche. Ogni due pagine trovavo qualcosa da sistemare e non parlo solo di virgole, ma di frasi, di immagini, di sfumature. Ho imparato molto con questo lavoro, ma ho imparato anche che a un certo punto bisogna chiudere. La mia speranza è che il lettore non si accorga di questi processi, come di fronte a un dipinto di cui non percepiamo consciamente i diversi strati. Strati che però ci sono, e contribuiscono a catturare chi guarda, o, in questo caso, chi legge.