Cosa insegnano i racconti dei grandi maestri? Ai lettori, ma anche a chi desidera scrivere, per piacere o professione? Cristina Marconi, che dal 15 gennaio al 12 febbraio sarà La scrittrice che legge su TYPEE, riflette per noi su quelli di Virginia Woolf, scrittrice e a sua volta straordinaria lettrice.
Il disastro letterario avviene quando «la visione è difficile, la luce pessima».
Virginia Woolf, nei romanzi come nei saggi, ragiona e si muove innanzi tutto come un’attenta direttrice della fotografia, tutta presa a spostare faretti e a chiudere tendaggi per mettere in risalto l’oggetto al centro della scena. Prima ancora di azionare la macchina narrativa, la cosa che più sta a cuore alla grande scrittrice inglese è che tutto si veda chiaramente e in modo coerente con l’intenzione artistica. E nei racconti, ancora più che nei romanzi, questa esigenza trova spazio: ciascuno dei suoi testi brevi lascia negli occhi del lettore una diversa trasparenza, un chiarore speciale. Che sia quello emanato dal caminetto di una dimora secolare, il cielo metallico che si riverbera sulla costa inglese o il riflesso purpureo di una donna che «sembra emergere dalla notte di Londra, che fa fluttuare come un mantello».
Scrivere racconti non era l’attività preferita di Virginia Woolf, tanto che il marito Leonard, nella prefazione a una raccolta, spiega come la scrittrice avesse l’abitudine di catturare un’idea in una versione abbozzata da perfezionare e sistemare qualora uno dei suoi molti committenti – riviste, giornali – le chiedesse una storia breve. Ed ecco che lei tirava fuori la sua bozza e ci lavorava di nuovo per portarla al massimo dello splendore, lucente come una delle gemme di Oliver Bacon in La duchessa e il gioielliere. I racconti erano la sua ginnastica, il modo per distrarsi quando i romanzi ne assorbivano troppo la mente ultrasensibile, per catturare intuizioni e momenti di essere, come nel titolo di uno dei suoi racconti più belli. Uno dei progetti che aveva in mente prima di abbandonarsi per sempre nelle acque del fiume Ouse, nel 1941, era una raccolta di racconti da far seguire a Lunedì o martedì, pubblicata nel 1921. A occuparsene è stato poi Leonard Woolf, lavorandoci come sapeva avrebbe fatto lei e lasciando intatto quello su cui non aveva ricevuto indicazioni.
Da critica letteraria, Virginia Woolf ha idee chiare e non convenzionali su quello che un racconto dovrebbe essere. Parlando con trasporto di Gusev di Anton Čechov, ricorda come in teoria dovrebbe essere «breve e conclusivo», ma come invece in questo caso si tratti di un testo «vago e inconcludente», eppure assolutamente straordinario. Ma è nell’analisi di Un cuore semplice di Gustave Flaubert che la Woolf spiega al meglio quello che cerca in un racconto: entrare nell’atmosfera, seguire i personaggi e imparare a conoscerli, ma «sempre aspettando il segnale finale», che «tutt’a un tratto appare» sotto forma di una «improvvisa intensità della frase». Flaubert accelera, Virginia si incanta: «Ancora una volta abbiamo la stessa convinzione di sapere perché la storia è stata scritta. Ed è finita. Tutte le osservazioni che avevamo messo da parte ora vengono fuori e si allineano in base alle indicazioni che abbiamo ricevuto. Alcune sono rilevanti; altre non sappiamo come collocarle. A una seconda lettura siamo in grado di usare le nostre osservazioni dall’inizio, e sono molto più precise; ma sono ancora controllate da quei momenti di comprensione».
L’esattezza della forma del racconto è data quindi, secondo la Woolf, dall’«intensità del sentimento dell’autore» e non necessariamente dalla struttura. Un grande autore di racconti è qualcuno con «un grande spirito e in grado di stagliare una situazione in una maniera che solletichi la mia voglia». Una lezione che fa sua nelle sue storie, su cui lavora come fossero i bozzetti di un artista, frammenti da riprendere in seguito in un affresco o in una tela, esercizio di stile e di approfondimento di un soggetto. Prima e dopo la loro comparsa, perfetta e indimenticabile, in Mrs Dalloway, sia Clarissa che suo marito Richard fanno capolino in altri lavori della Woolf: appare innanzi tutto il loro biglietto da visita, «Mr and Mrs Richard Dalloway, 23 Browne Street, Mayfair», poco prima che arrivino anche loro sul ponte di una nave, nell’esordio La crociera, dopodiché ritroviamo Clarissa nel suo ambiente naturale, ossia un ricevimento nella sua bella casa, nel racconto Il vestito nuovo, scritto nell’anno dell’uscita del romanzo. I personaggi si incontrano a una sua festa o nel suo giardino e loro non hanno neanche più bisogno di essere presentati, come tutte le brave celebrities dell’intertestualità: ma la loro presenza fa quello che alla Woolf, come dicevamo all’inizio, sta più a cuore, ossia dare al racconto una certa luce. In Il vestito nuovo Mabel arriva a una festa con addosso un abito giallo pallido fuori moda che le era piaciuto dalla sarta e con vecchi complessi di inferiorità di cui non riesce a liberarsi. «Tutto era stato assolutamente distrutto, svelato, fatto saltare in aria nel momento in cui era entrata nel salotto di Mrs Dalloway», tempio dell’adeguatezza e dello splendore borghese.
Come i personaggi di molti racconti della Woolf, anche Mabel ha in mente una frase che va ripetendo come un ritornello, un’ossessione. «Siamo tutte mosche che annaspano cercando di arrampicarsi sul bordo di un piattino» si ripete fino a stordirsi, salvo poi pensare che gli altri siano farfalle, libellule e lei, sola, un brutto insetto. Mabel «si sentiva come il manichino di una sarta, messo lì perché i giovani ci appuntassero spilli» e il tema degli spilli torna anche in Momenti di essere, sottotitolo: Gli spilli di Slater non hanno punta, in cui la semplice osservazione di Miss Craye mentre le cade un fiore appuntato sul petto punge la mente di Fanny Wilmot scatenando una sorta di epifania, accompagnata da una riflessione sul matrimonio, o sull’assenza di esso, e culminata in un bacio saffico, sognato o reale.
Mentre La partita di caccia affronta il tema, caro e ricorrente per la Woolf, della memoria e dei mondi scomparsi, l’incantevole Lappin e Lapinova è forse quello che più di tutti si discosta dal ritratto per catturare la forma del racconto. La trama è semplice: due giovani dell’alta borghesia londinese si sposano e lei, per sopravvivere all’idea del matrimonio, decide che lui è un coniglio, «un coniglio da caccia, un re coniglio, un coniglio che fa le leggi per tutti gli altri conigli», e lei la sua sposa. La solitudine femminile trova una rappresentazione perfetta della fiaba che non si avvera, e non perché a mancare sia l’amore o il romanticismo, ma per la mancanza di immaginazione e di libertà su cui sola, sembra dirci Virginia, una donna può costruire una vita intera. Il folle divagare della sposa che sogna i conigli è illuminato dall’oro del conformismo di una vita di successo, colore che in questo caso si fa oppressivo e soffocante.
In La signora allo specchio, Virginia Woolf si diverte a fare il ritratto di una donna attraverso la sua stanza vista dallo specchio, raccontando «la vita notturna» e segreta degli oggetti con una grazia e un’attenzione che, per lo spazio di un racconto, la rende una sorta di Walt Disney della parola. Nessuno conosce davvero Isabel Tyson, ricca, zitella e amante dei lunghi viaggi in cui ha raccolto oggetti esotici che ora ne sanno di lei ben più delle persone che la frequentano. Nei suoi armadi ci sono probabilmente lettere, «in cui uno troverebbe le tracce di molte agitazioni, di appuntamenti a cui andare, di rimproveri per non essersi incontrati». Isabel ha vissuto e non essendosi sposata «ha attraversato venti volte le passioni e le esperienze di coloro il cui amore è strombazzato affinché tutto il mondo sappia». È la sua stanza che pensa a lei dopo che è andata via e per lo sforzo «diventa più ombrosa e simbolica», con angoli più oscuri e le gambe dei tavoli e delle sedie «più allampanate e geroglifiche». E dopo averci accompagnati nel mistero di quell’ambiente, la Woolf, con una «improvvisa intensità della frase», ci spiega che lo specchio regala «calma e immortalità», certo, ma sarebbe bene non tenerne in casa: è una fonte di infinite illusioni.
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