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Materiali immaginari. Cinque domande a Enrico Ernst

    Poesie di gruppo, il gioco del “cadavre exquis” dei surrealisti, il lavoro sulle anafore per riscrivere una canzone, personaggi nati dai collage, dialoghi a quattro mani: nelle due settimane di Guardare il mondo, il campus estivo di Belleville, i ragazzi e le ragazze hanno scoperto che scrivere può vuol dire comporre versi, appuntare dal vivo dettagli e impressioni, indirizzare una lettera a qualcuno di amato (o odiato) e perfino scrivere insieme, mescolando punti di vista e sensibilità. Abbiamo chiesto a Enrico Ernst, autore e insegnante di scrittura, di raccontarci l’avventura del campus un po’ più nel dettaglio.

    1. Che bilancio fai di questa terza edizione del campus di scrittura? Sei soddisfatto del lavoro fatto da e con le ragazze e i ragazzi?

    Siamo tornati in presenza, insieme, condividendo spazi e momenti, mangiando insieme, chiacchierando, lavorando sulla scrittura e sulla dimensione creativa. Abbiamo cantato, creato collage, raccontato storie e personaggi, siamo sciamati al Supermercato, abbiamo sostato in piazza Fratelli Bandiera e ai Giardini Pubblici. Ci siamo seduti in un’aula “scolastica” che alla fine è diventata un dirigibile e una barca e una tavola rotonda. Ci siamo scambiati impressioni, colori, sentimenti ed emozioni. Il bilancio è positivo, colorato. Sono più che soddisfatto. A parere mio tutti ne siamo usciti arricchiti.

    2. Come si lavora alla creazione di un gruppo compatto in cui ci siano collaborazione, condivisione e spazio per la voce e l’individualità di ciascuno?

    Bella domanda. Primo: accoglienza: impari i nomi, guardi attivamente le persone, ascolti quello che “portano” in aula, anche a livello sottile; secondo: ironia, gioco; Terzo: sei flessibile, il tuo programma diventa un canovaccio che può variare al fine di trovare strade interessanti per chi hai davanti (o per rispondere positivamente ai cambi di programma); Quarto: inviti costantemente le persone al protagonismo creativo (e insieme all’ascolto e alla condivisione): il Campus lo fanno i ragazzi e le ragazze, e tu sei al loro servizio; Quinto: dai attenzione a chi sta in disparte, o a chi mostra fragilità e velocità differenti: le differenze non sono un peso di cui disfarsi ma una potenzialità (accento sul rispetto, sempre). Sesto: sai che lo spazio parla e organizza la socialità, che lo spazio quindi può essere modulato e rimodulato, perché alcune “strutture spaziali” (per esempio l’aula con la cattedra come fuoco prospettico) possono rispondere ad alcune esigenze e non ad altre. Settimo: serenità, collaborazione e divertimento tra le persone adulte coinvolte. Settimo: buon esempio: se sei aperto e in ascolto, i ragazzi e le ragazze saranno aperti/e e in ascolto. Ottavo: entusiasmo, motivazione: “stiamo collaborando a qualcosa di grande, di creativo, di importante”. Nono: dosare il lavoro individuale con il lavoro collettivo e collaborativo, sia cambiando geometrie tra chi lavora insieme sia permettendo agli allievi di aggregarsi liberamente. Decimo: proponi una disposizione al viaggiare insieme, giorno dopo giorno, sperimentando e scoprendo (attenzione al qui e ora). Undicesimo: “scendi dalla cattedra”.

    3. Che cosa ti ha colpito di più nelle storie e nelle modalità espressive di questi giovani scrittori e scrittrici?

    Sai, noi avevamo sia delle ragazze grandi, quindicenni, da liceo, sia delle dodicenni – e due maschi (Franci e Milo); due generazioni in buona sostanza. Usare categorie generali esaustive per parlare dei loro modi espressivi, e persino dei loro temi e delle loro storie, è davvero difficile; forse non è nemmeno il caso di provarci. Hanno una tale forza e un tale ventaglio di possibilità… Ragazzi e ragazze possono essere ironici, ma anche cinici, possono essere gioiosi, appassionati, radicali, aperti al fantastico, alla fantascienza, all’horror, ma anche a una quotidianità grottesca… Rielaborano “materiali immaginari” vari, in modo originale. Ho incontrato persone che stanno cercando vie originali, e che mostrano la meravigliosa freschezza dei percorsi giovani. Poi hanno i loro riferimenti. Per esempio, si parlava di canzoni: ed ecco, dalla parte degli allievi, i Maneskin o Bello Figo (si scrive così? E non piace a tutti/e…) – mentre io portavo De Andrè e De Gregori (anche rielaborato da Anastasio). Tutto un mondo “pop” è immediatamente, irrimediabilmente, alla loro portata (si pensi alle serie tv, o ai contenuti della Rete e dei Social, o ai manga, passione di Milo).   

    4. Hai imparato qualcosa di nuovo anche tu?

    Ho imparato, ho imparato di nuovo, che adoro lavorare con i giovani adulti, perché sono un mondo intero e complesso e curioso; il loro modo di “guardare il mondo” con le miriadi di divergenze che li caratterizzano, mi tocca e mi entusiasma. Impossibile insegnare senza imparare. Impossibile. Il discorso sarebbe lungo. Mi piace ricordare qui quanto mi abbia insegnato lavorare con Franci Lupi, il nostro ragazzino tetraspastico, che ci comunicava le svolte del suo pensiero e del suo “cuore” attraverso i sì e i no, i sorrisi e i vocalizzi. Un esercizio insieme di logica e di empatia, una sfida all’ascolto e alla creatività. Una bomba di sensazioni mai provate e nuove frontiere del “lavorare insieme”. Grazie Franci e grazie mamma Daniela (che mi hai consentito di osservare – nella concretezza – i miracoli e i doni dell’amore materno).

    5. Quali momenti, lavori o situazioni ti hanno colpito particolarmente?

    Le due settimane sono state molto diverse… nel “primo modulo” le quattro ragazze e Franci Lupi – dopo un giorno solo – erano già “famiglia”, un gruppo straordinariamente coeso e collaborativo, un micro-mondo. Ho dovuto cambiare molto con il gruppo più ampio, la seconda settimana. Mobilissimo, intenso di differenze, complesso da “comporre”. Le giornate dedicate alla poesia e alle canzoni hanno dato una luce particolare alla prima settimana, mi pare. A un certo punto Anna ha portato un ukulele rosa, e ha dedicato una serenata a Francesco. Ricordo il percorso che mi ha portato a “non aver più paura di sbagliare” avvicinandomi a Francilupi. Ricordo le “missioni” al Carrefour. La lezione sui dialoghi ha aperto al teatro – e ha mostrato una peculiare intensità. Ricordo il “cambio” dell’aula durante la seconda settimana. Quando abbiamo costruito il tavolone centrale che ha modificato radicalmente il nostro modo di lavorare. Sono contento di aver usato le immagini, ritagliate dai giornali, dai magazine; sono contento di aver proposto metodi per comporre testi a più mani: meraviglioso il processo di scrittura nato dalla suggestione di “Fisica della malinconia” di Georgi Gospodinov… Ti viene in mente tutto, poi: chi lavora in silenzio e chi danza; leader e silenziosi, istintivi o riflessivi. Durante un pranzo, disposti attorno alla “tavola nel mezzo” (plastica immagine democratica), abbiamo parlato con attenzione e ascolto, della religione, e poi dei diritti… e poi dei nomi… fuori dalle righe. La seconda settimana il mondo era tra le quattro pareti di Belleville. Non volevamo nemmeno tanto uscire a mangiare. Eravamo “comunità”. Ci siamo salutati con affetto grande, e felicità.

    Enrico Ernst

    È nato nel 1970 a Milano. Laureato in Filosofia, ha scritto due pièce teatrali per Quelli di Grock e Atir, sessanta micro-racconti di argomento mitologico ("Mythos", DeA), sei romanzi per ragazzi della serie Aspiranti Dei(DeA), due libri di narrativa scolastica, Il canto delle Muse e Ragazze e ragazzi nella storia (Bruno Mondadori), nel 2018 ha pubblicato il romanzo Iole Sofia e il mistero delle maschere (La vita felice) e il racconto Le 1500 regine(Fingerpicking.net 2022). Da vent'anni insegna scrittura nelle scuole, nelle biblioteche, nei centri culturali, a Milano e dintorni.