Che cos’è un racconto? E cosa lo distingue da un romanzo?
Giacomo Raccis, dal 14 maggio al 4 giugno “Il critico che legge” su TYPEE, ci accompagna in un viaggio alle frontiere del racconto, fra Edgar Allan Poe e Gianni Celati, Italo Calvino e Vanni Santoni, fino a scoprire che, forse, «è proprio quando si va alla ricerca delle contaminazioni tra generi che si coglie a pieno il suo potenziale».
Siamo soliti pensare al racconto come un romanzo in miniatura. Associamo questa parola allo sviluppo di una storia in una dimensione ridotta rispetto alle ampie campate della narrazione romanzesca. Se chiedessimo al primo passante di dirci la differenza tra un romanzo e un racconto, questi ci risponderebbe facendo riferimento alla lunghezza, ampia del primo e contenuta dell’altro. E non sarebbe una risposta sbagliata. Tutta una tradizione teorica si fonda su questa idea.
Edgar Allan Poe, maestro dell’orrore e iniziatore del romanzo poliziesco, nel celebre saggio Philosophy of composition (1846) associava al racconto breve un effetto preciso, quello di un’«unità di impressione» che può ottenersi solo circoscrivendo spazio e tempo dell’azione, ma anche della lettura. Un racconto, in sostanza, deve potersi leggere in una sola seduta, altrimenti l’effetto narrativo svanisce. Grosso modo su questa rotta, nei primi decenni del Novecento si pongono alcuni studiosi russi, che definiscono in termini formali il racconto breve (chiamandolo peraltro già short story). In particolare Boris Ejchembaum, in Teoria della prosa (1925), scrive: «Il romanzo è una passeggiata per vari luoghi che sottintende una tranquilla via di ritorno; la novella è un’ascensione sulla montagna il cui scopo è uno sguardo da un punto elevato». Laddove il romanzo rallenta, spiega, collega elementi diversi, il racconto accelera, condensa, concentrando tutto il suo peso verso la fine, che s’impone come punto focale, luogo dello svelamento di un enigma.
È facile riconoscere in queste teorie l’immagine più consueta del racconto breve, collaudata da una tradizione lunghissima e celeberrima, di matrice soprattutto nordamericana, che parte da Melville e Hawthorne, passa per Hemingway e arriva fino a Carver, Munro o Berlin. Una tradizione fatta di storie minime, atomi narrativi che assurgono a emblemi spinti dall’investimento simbolico di chi li legge (indotto a riconoscere nella banalità dei fatti narrati il riflesso di significati universali); una tradizione che associa, nonostante tutto, il racconto alla configurazione più consueta della narrazione, quella che si articola nella sequenza esordio-peripezie-spannung-scioglimento; una sequenza che agisce implicitamente anche quando sembra non esserci nulla da sciogliere.
Tuttavia, se questa è la rotta principale, l’articolata geografia della narrazione breve si presenta come reticolare, diramandosi per strade laterali che procedono in direzioni diverse, intercettando anche altre forme del discorso letterario. Una di queste strade è ad esempio quella che torna indietro nei secoli a recuperare quello che Gianni Celati chiama lo “spirito della novella”, ovvero un rapporto con l’oralità, con il sentito dire, con le storie di tramando che era all’origine di opere centrali della nostra letteratura, come Il Trecentonovelle di Francesco Sacchetti o, ovviamente, il Decameron di Boccaccio. In raccolte come Narratori delle pianure (1985) e Verso la foce (1989), Celati ha fatto ricorso a questa antica tradizione narrativa per restituire il profilo della provincia padana; quelli che troviamo sono “racconti di osservazione”, in cui i luoghi prendono vita non attraverso storie dallo sviluppo lineare, bensì grazie all’urto tra caratteri individuali e situazioni lievemente incongrue. Si apre così un varco per l’insolito, che ridefinisce immediatamente il tono di un paesaggio che credevamo di conoscere, di possedere, e che invece si mostra improvvisamente nuovo. Il racconto riesce così a carpire l’identità di un microcosmo.
Per questa strada la narrazione breve costeggia il reportage, il racconto di viaggio e la lunga tradizione odeporica. Italo Calvino ha provato a cimentarsi in una sorta di riscrittura delle antiche cronache di Marco Polo, dando forma a cinquantacinque profili di città che costituiscono il nerbo delle Città invisibili (1972). Se è vero che non possiamo considerare quest’opera come una raccolta di racconti a pieno titolo, data la presenza di una cornice (il dialogo tra Marco Polo e il Kublai Kahn) che incasella ogni brano all’interno di un continuum narrativo, di certo le singole tessere sono esempi della potenza generativa della forma breve a contatto con altri generi e forme del discorso. È cosa nota, d’altra parte, che questo libro ha preso corpo in maniera progressiva e non a partire da una struttura predeterminata: Calvino raccoglieva in una cartellina brevi descrizioni di città, che si sono accumulate nel corso del tempo, fino al momento in cui non si è deciso a organizzarle in una struttura combinatoria rigorosa, che ha comportato alcune scritture ex novo, ma anche numerosi scarti. Scarti che potrebbero benissimo figurare come racconti singoli in altri contesti.
Si potrebbe dire che è proprio quando si va alla ricerca di queste contaminazioni tra generi che si coglie a pieno il potenziale del racconto, che si contraddistingue come forma narrativa deputata alla sperimentazione, per la sua brevità naturalmente – che consente di mettere alla prova inconsuete ibridazioni senza l’onere di articolarle in strutture complesse –, ma anche per le compagini testuali in cui può comparire (dalle riviste alle antologie, dai blog fino alle opere organicamente progettate), che possono produrre effetti di lettura molto più diversificati di quanto non capiti con il romanzo.
Un buon campionario delle infinite possibilità morfologiche del racconto lo fornisce la raccolta d’esordio di Giorgio Falco, Pausa caffè (2004). Una medesima unità spazio-temporale – profilata intorno ai lavoratori di una grande multinazionale telefonica – fa da scenario a più di sessanta “pezzi”, che esibiscono le soluzioni linguistiche e le formule narrative (o non-narrative) più disparate. Lunghi dialoghi senza intermediazioni diegetiche, narrazioni in prima persona, conversazioni telefoniche “rubate” (e quindi monche, perché riportano solo la voce di uno dei due interlocutori), ma anche discorsi formali pronunciati nel corso di riunioni tra impiegati, fredde cronache di quanto avviene dentro o fuori dall’azienda, registrazioni intermittenti di quel che le radio o i televisori accesi trasmettono nel corso della giornata, fino ad arrivare alle note informative presenti sulla carta di un mini-sandwich del distributore automatico. Falco registra tutto ciò che è discorso e parola all’interno di un microcosmo ricostruito attraverso frammenti interscambiabili, ciascuno superfluo e al tempo stesso esemplare, perché contribuisce a “mimare” la molteplicità inafferrabile della realtà lavorativa nel tardocapitalismo.
Una multinazionale del terziario avanzato s’impone come catalizzatore di storie e di vite. Alcuni degli sketches di Pausa caffè sono perfettamente assimilabili al genere biografico, declinato però nella forma più sintetica e fulminea; ma la frequentazione tra racconto e biografia data ormai a più di un secolo fa. È il 1896 quando il francese Marcel Schwob con Vite immaginarie (1896) compone un caleidoscopico monumento all’invenzione letteraria, che si arroga il diritto di dimostrare che le grandi personalità della Storia sono diventate tali per via di minimi e inosservati frangenti delle loro esistenze. L’arte del biografo, scrive Schwob, consiste nella «scelta», nella capacità di individuare il frammento rivelatore prescindendo da contestualizzazioni, descrizioni, spiegazioni. Un impulso a sfrondare la vita, a ridurla a una manciata di momenti, come quelli assemblati da Giuseppe Pontiggia nelle sue Vite di uomini non illustri (1993), diciotto biografie fittizie raccontate in perfetta rispondenza con lo stile puntuale e apodittico delle voci di un’enciclopedia. Solo che i fatti narrati – siano essi un viaggio di nozze, la morte di un caro o una diagnosi di eiaculazion
e precoce – riguardano non figure memorabili, ma persone comuni, rese indimenticabili da una scrittura capace di cogliere di volta in volta (come dichiara l’epigrafe) «una essenza lirica, un destino tragico, una esistenza comica».
Ma ben oltre sulla strada della sperimentazione biografica si sono spinti autori come Eugenio Baroncelli, Franco Arminio e Vanni Santoni, che hanno coniugato la lezione di Schwob con quella dei maestri sudamericani del microracconto. In particolare Santoni, con il progetto di Personaggi precari (nato come blog e poi raccolto in volume in prima edizione nel 2007, e poi in riedizioni ampliate nel 2013 e nel 2017), ha mostrato l’efficacia di una forma narrativa che scommette tanto sull’icasticità di una battuta che compendia un’esistenza («ENZO. Parla di milioni di euro al telefono, in treno, a voce altissima»), quanto sulla collaborazione del lettore a cui è affidato il compito di riconoscere un “tipo” da poche parole e di immaginarsi tutto quello che il testo non dice. Ma Personaggi precari è anche una lampante dimostrazione della proficua interazione che la forma breve – e brevissima – ha saputo stringere, e in tempi rapidissimi, con il multiforme universo della rete, mettendo a frutto le tante forme e modalità di espressione che questa prevede. È facile immaginare, allora, che la geografia di questo genere della narrazione – ma sarebbe più corretto chiamarlo modo – dovrà subire ancora numerosi e fondamentali aggiornamenti, negli anni a venire e in virtù di tutte le trasformazioni espressive e cognitive che ci aspettano.