Giovedì 30 settembre Filippo Casaccia, scrittore e autore televisivo, presenterà la nuova edizione del laboratorio online Scrivere un format: 10 lezioni dedicate al linguaggio della tivù e ai formati narrativi che consumiamo ogni giorno – serie, documentari, informazione e infotainment, talent show, podcast.
Filippo Casaccia ha risposto a cinque domande per BellevilleNews.
Qual è, dal tuo punto di vista, la “dieta ideale” di un aspirante autore di format? Di quali libri, testate, social media account, trasmissioni, serie, film, podcast eccetera ti senti di consigliare il consumo e perché?
Secondo me non c’è una ricetta ideale se non nella varietà della dieta. È questa varietà che ci rende unici e, si spera, preziosi. Io leggo romanzi, saggi, riviste (anche online) e vedo tanti film, documentari e serie. La tivù la guardo più per aggiornamento professionale che per piacere mio, diciamo così. Per darvi un’idea di quello che intendo posso fare una lista di cose che ho “frequentato” nell’ultimo mese. Ho letto il romanzo di Walter Tevis da cui è tratto La regina degli scacchi, per vedere anche le differenze presenti nella riduzione in serie tv (e facendo il percorso inverso andrò a vedere 3 piani di Nanni Moretti per capire l’adattamento del romanzo israeliano di Eshkol Nevo). Ho visto anche il montaggio rough di One Day, uno straordinario documentario di un giovane regista sulla vita infernale che fanno quelli che ci permettono di mangiare la verdura che arriva sui nostri tavoli.
Poi ho recuperato la serie Derek di Ricky Gervais che è riemersa su Netflix, notevolissima.
Per dovere mi son visto anche la prima puntata della nuova edizione del Grande Fratello VIP, un aggiornamento necessario. Ho apprezzato la ripartenza di X Factor su Sky, con un regolamento nuovo e dinamiche diverse.
Sono ancora legato al cartaceo e ho letto come sempre Internazionale, Vanity Fair e Linus, tre magazine dove trovo il mondo che mi interessa: politica, attualità e cultura. Leggo poi (molto) criticamente i quotidiani e seguo i social intervenendo il meno possibile ma trovando tante vie informative laterali interessanti. Anche la musica dà spunti: mi è piaciuto molto l’album di Madame che evidentemente – come tanti rapper della sua generazione – fa un uso della lingua sofisticato.
Mi fermo qui. Vale comunque il concetto formalizzato da Feuerbach: siamo quello che mangiamo. Ecco: la nostra dieta culturale ci rende chi siamo, l’importante è mangiare bene e se la dieta è scadente, è pigra, è composta da junk food – cioè da prodotti culturali di terz’ordine – alla fine questo si rifletterà anche nel nostro lavoro. Scegliamo bene dal menù, insomma!
In passato hai confessato di aver cominciato a guardare la televisione a trent’anni, avendole, negli anni della tua formazione, preferito i classici letterari e cinematografici. Essere lettori forti aiuta a diventare autori televisivi e se sì, come?
Io credo di sì. Aiuta leggere e aiuta vedere film perché si immagazzinano tante situazioni, psicologie, forme linguistiche, archi e snodi narrativi che poi aiuteranno a comporre nuove storie, nuovi meccanismi. La televisione è una forma di narrazione, sempre, sia che si tratti di un quiz che di un talent show o di un talk. C’è chi da film e libri impara e attinge inconsciamente, e c’è chi ne fa oggetto di una ricerca più consapevole. Sicuramente – anche se accade più coi film che coi libri – quelle che si chiamano reference rappresentano un alfabeto comune: se dico “facciamo una gara di ballo come in Pulp Fiction, voglio quell’ambientazione lì” è chiaro a tutti i miei interlocutori cosa intendo. Ma anche una pagina ispirata di un romanzo può essere la base per scrivere un monologo.
C’è un format televisivo del passato che meriterebbe di essere rispolverato? E uno attuale che invece manderesti serenamente in pensione?
Format che andrebbero rispolverati sì, ce ne sono, e “rispolverare” rende bene l’idea: andrebbe tolta la patina del tempo. Io sono legato ad alcune cose della RaiTre degli anni Novanta. Per esempio un talk che si chiamava Diritto di replica: era semplicissimo – la semplicità è una dote sottovalutata – in cui tre personaggi al centro di polemiche nella settimana precedente avevano un tempo preciso per rispondere alle accuse ricevute, incalzati da quattro intervistatori (Fabio Fazio, Valerio Magrelli, Oreste De Fornari e il compianto Stefano Magagnoli) capitanati dall’ineffabile Sandro Paternostro. Pulito, diretto, chiarissimo ed efficace. E immagino anche economico da produrre.
Sul pensionamento dei programmi… beh, decide il pubblico. È una risposta paracula ma anche onesta: la tivù – più o meno commerciale – spreme tutto quello che può da un programma che magari ha un pubblico storico o conferisce un’identità al network. Si va avanti fino a morte naturale. Poi, certo, ci sono programmi che mostrano la corda o che suonano terribilmente antichi, figli di un’altra epoca. Ma qui entriamo nel gusto personale e nel rischio di diffamazione.
Un clamoroso flop (tuo o altrui) da cui hai imparato più che da un successo?
Ci sono almeno due programmi a cui ho lavorato che sono nati male e che hanno vissuto peggio, purtroppo, ma lascerò alla curiosità di chi abbia tempo e voglia di compulsare il mio curriculum indovinare quali! Quando fai un programma che funziona – e ne ho fatti per fortuna diversi – il rischio è proprio abituarsi al fatto che le cose vadano sempre bene: i fattori che determinano un successo sono tantissimi, molte volte imprevedibili. Il programma piace al pubblico o alla critica e ci si gode il successo senza analizzarlo. Invece i segnali che un programma rischia di risultare un disastro si avvertono spesso già durante la lavorazione. Qualche volta si riesce a rimettere le cose a posto, altre no. Ma fare esperienza di errori grandi e piccini, lavorando a programmi sbagliati o con delle parti traballanti, è una palestra preziosa. Si è costretti a ragionare su cosa si è fatto e come, a trovare cosa non ha funzionato e perché. E la volta successiva – a meno di non essere diabolici – non si persevera nell’errore. Proverbialmente, perlomeno, perché vedo anche tante cose in onda i cui autori sembrano non aver capito la lezione. E sicuramente anch’io ho rimosso degli errori fatti e li ho ripetuti.
Come si riconosce un format originale?
Quello dell’originalità pura è, secondo me, un mito. È difficilissimo inventare qualcosa di veramente nuovo. Si possono inventare delle variazioni, delle estremizzazioni, delle connessioni. E così nasce un programma nuovo che però affonda le radici in un patrimonio passato. Ma non è una critica, la mia, piuttosto una constatazione. Del resto io ritengo che quando realizziamo un format siamo strumenti di un sentire collettivo, coloro che materialmente concretizzano idee che sono nell’aria, come si suol dire. Per cui quando uno dice: “quella è un’idea mia” divento diffidente. Ho conosciuto autori – o più propriamente ciarlatani – che si intestavano l’invenzione del Grande Fratello, avendolo pensato prima che andasse in onda quello che tutti conosciamo. Ma pensare un programma è ben diverso dal realizzarlo. Aggiungo poi una cosa: la forma viene spesso confusa col contenuto e una bella invenzione formale può ridare vita a un contenuto antico. Intendo dire: nella Corrida c’era già tutto quello che vediamo nei talent show odierni, era diversa la forma, allora più ingenua, più semplice, più da strapaese. Ma la forza era la stessa dei talent di oggi, anzi era forse maggiore perché non ingabbiata, non programmata.
Questo per dire che l’originalità per me va cercata nell’attualizzazione di narrazioni magari più vecchie attraverso l’invenzione di nuove regole, paletti, linguaggi, innovazioni registiche e narrative, commistioni con altri media e altro ancora. È lì che si gioca la partita dell’originalità, oggi.