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I commenti di Giacomo Raccis ai racconti di TYPEE/3

    Dal 14 maggio al 4 giugno Giacomo Raccis, “Il critico che legge”, commenta i racconti di TYPEE in quattro brevi pillole video, esaminando nei dettagli struttura, stile e tenuta narrativa, suggerendo parallelismi e offrendo consigli.

    Il capitolo precedente de “Il critico che legge” è qui.

    Capitolo 3

     


    > Romina e la guerra, di Giampiero Pacini

    Quando si ritrovò scaraventata a terra dall’esplosione, impolverata come un pesce pronto alla frittura, col Cav. Gerini che si era versato la zuppa sui pantaloni, a Romina importò poco che tutti nel condominio la ritenessero un’ubriacona. A partire dalla portiera che lo aveva detto al Capo Scala B, che lo aveva confidato a un paio di condòmini che, anche in quei tempi di guerra, non avevano di meglio a cui pensare. Di sicuro le parlavano dietro perché, pur lavorando per la seconda farmaceutica mondiale, non aveva procurato loro l’ennesimo richiamo del vaccino. Le stavano antipatici, avevano pensato, e un po’ era vero, ma, alla fine, Romina non aveva il potere di distrarre dosi a suo piacimento; mica faceva parte di un élite, lei.
    Solo pochi minuti prima, coi sacchetti carichi di bottiglie e poco altro, Romina stava salendo le scale fino al secondo piano: l’ascensore era fuori uso dall’ultimo scontro armato, e i tecnici erano impegnati in palazzi più prestigiosi. Quando fosse arrivato il turno del suo condominio di terza classe, un’altra battaglia avrebbe fatto ripartire la giostra delle richieste di quelli di prima e seconda, e loro sarebbero passati in coda.
    Mentre cercava le chiavi nel fondo della tasca del cappotto, la testa calva del Cav. Gerini si era affacciata alla porta.
    «Signorina, già di ritorno?». Il Cav. le abitava a fianco, e da anni era certa la spiasse, per vincere la noia della pensione.
    «Sì», le riuscì di dire.
    «E che ha comperato di bello?».
    Romina strinse le sporte per non farlo curiosare:
    «Mangime per gatti».
    «Ma lei non ha gatti!», disse con severità.
    «Potrei prenderne qualcuno». Nel frattempo le chiavi, maledette, non ne volevano sapere di entrare nella toppa. Manco avesse sbagliato piano.
    «Le trema la mano, signorina?», fece il Cav., sporgendosi per aiutare. Sì, cominciava a tremarle la mano, perché aveva bisogno di bere qualcosa. Non era buon segno a quell’ora del mattino.
    «Solo un po’ di freddo».
    «Sa che le dico? Io questa storia delle mascherine non la capisco. Ieri sera la TV ha detto che possono nuocere. Io non la metto più!».
    «E fa male Cavaliere». Finalmente la chiave aveva aperto la porta.
    «Ah, io son vecchio, e a me non mi piange nessuno».
    «Se lo dice lei».
    Romina voleva solo entrare in casa e chiudersi la porta alle spalle. Il computer acceso sul tavolo doveva essere pieno di messaggi, e lei doveva essere lì a lavorare, non a parlare sul pianerottolo.
    Proprio allora suonarono l’allarme generale: due suoni lunghi e uno breve, ripetuti fino a che tutti non si fossero rifugiati nella cantina attrezzata.
    “Cazzo – pensò Romina -, proprio adesso?”. Per le scale già si aprivano le porte, passi pesanti iniziavano a scendere.
    «Cavaliere, chiudo le tapparelle e poi scendiamo insieme. Si prepari», il signore in pantofole scivolò all’interno masticando una bestemmia, e lei riuscì ad entrare. Sul tavolo da cucina si versò un bicchiere abbondante che non pensò neppure a centellinare. Cliccò AL RIFUGIO sulla schermata dello stato e, vedendo chi aveva già staccato, intuì che l’attacco doveva venire da sud: solo i colleghi lombardi avevano ancora luce verde. Scolò velocemente un altro bicchiere per fermare il tremore alla mano, e riempì la fiaschetta con quel che restava della bottiglia aperta. Fuori il Cavaliere, i pantaloni larghi con le bretelle, era pronto con una gavetta di metallo.
    «Ha preso qualcosa da mangiare? Non è detto che ci facciano uscire così presto».
    «Io ho portato da bere», gli rispose e lui sorrise.
    Inforcatogli il braccio, cominciò a scendere le scale maledicendo la costruzione di terza classe, che non era in grado di resistere alle battaglie dei mezzi pesanti. Ma si sa: con uno stipendio come il suo non poteva permettermi altro. Questo allarme avrebbe prodotto un altro segno meno nel grafico del suo rendimento, come se la guerra non fosse stata dichiarata dalla sua azienda contro la concorrente, per i diritti sul vaccino. E la stava pure perdendo!
    I primi mezzi aerei erano già passati, facendo vibrare i vetri della scale incerottati con croci di carta adesiva. Romina sentì l’affanno del Cavaliere per le scale deserte. Da lontano arrivavano i colpi delle prime schermaglie: dovevano affrettarsi; solo che il Gerini non era più l’atleta di un tempo.
    D’improvviso infuriò la battaglia, assordante come il giorno del giudizio.
    Anche se le sarebbe piaciuto, quello non era affatto un videogioco, e quando crollò l’ala A del caseggiato, centrata da un colpo di mortaio, caddero contro un angolo al piano terra. Romina, le orecchie offese, guardò i pantaloni macchiati del Gerini e gli passò la fiaschetta per ripulirsi la bocca. Nessuno gli avrebbe aperto la porta del rifugio a battaglia iniziata, tanto valeva restare rintanati lì.
    Il Cavaliere bevve un sorso e gliela restituì. «La zuppa è andata – indicò i pantaloni -. Spero che quei bastardi non entrino in cortile. Preferisco crepare di virus che ammazzato da un mercenario vaccinato».
    «Già, speriamo», disse bevendo anche lei. «Alla nostra», brindò.



    > La confessione, di Katzanzakis

    La lunga fila dei penitenti attraversava tutta la navata, come un fiume d’ombra, a tratti tremolante alla luce delle candele.
    All’angolo con il transetto, il grande confessionale risplendeva di una intensa luce viola, che sembrava allungare dita sottili a sostenere lo slancio dell’abside esagonale.
    Alfie, appena occupato il suo posto nella brevissima colonna di sinistra, quella dei penitenti tardivi che si accostavano al sacramento dopo più di un mese dall’ultima confessione, avvertì un subitaneo brivido di freddo: anche se, in cuor suo, sentiva di essere stato un assente giustificato, non poteva fare a meno di provare una sensazione di disagio per il ritardo, domandandosi quale punizione Dio gli avrebbe riservato questa volta. L’impressione non migliorò quando, un violento crepitio, segnalò la fine della confessione del penitente che lo precedeva.
    Oggi Dio è di cattivo umore pensò tra sé con apprensione.
    La luce verde lampeggiante segnalava libertà d’accesso al confessionale e, facendosi forza, Alfie entrò e si sistemò sull’elegante genuflessorio, fissandosi sul capo i due elettrodi che sporgevano dalla grata metallica.
    La voce priva di inflessioni di Dio, cui ancora Alfie non si era abituato, sembrò rimbombare nello spazio ristretto.
    Sono 35 giorni che non ti confessi, che peccati hai commesso in tutto questo tempo?
    Alfie deglutì nervosamente
    Venerdì di due settimane fa non ho rispettato il precetto dell’astinenza dalle carni.
    Una leggera scarica elettrica lo fece sussultare per un attimo.
    Poi?
    L’altro giorno mi è capitato tra le mani un vecchio libro, di Freud, e senza volere ho iniziato a leggerne qualche pagina…
    Questa volta la scossa fu più forte ed Alfie sentì chiaramente i suoi denti stridere gli uni contro gli altri.
    Poi? disse ancora la voce sempre più alta di Dio.
    Alfie non si decideva a parlare.
    Parla, peccatore, non si nasconde niente a Dio!
    Ecco, ieri, davanti alla tomba del mio unico figlio, ho pensato che non fosse giusto e che Tu fossi cattivo…
    Un lampo di incredibile violenza illuminò per un attimo l’intera Cattedrale ed una sostanza appiccicaticcia cominciò a colare sul pavimento.
    Quel poveretto doveva averla combinata grossa… pensò tra sé il sagrestano, ed avvertì Monsignore di mandare a pulire il pavimento.



    > Parete cieca, di antonio locascio

    Questa palazzina è alta cinque piani. Ha una sezione perfettamente quadrata: se la guardi dal lato di uno spigolo riesci a scorgerne solo due facciate, che si divaricano ad angolo retto. Per intuirne la forma reale devi girarle tutt’attorno ma mentre lo fai non è escluso che qualcuno si affacci a spiarti da una finestra. Le persone che abitano nella palazzina odiano la curiosità al punto che, si dice, non si conoscono nemmeno fra loro. Eppure ti guardano, se ti soffermi troppo a lungo nei suoi dintorni.
    Gli appartamenti sono disposti a coppia, due per ciascun piano, con gli usci che si fronteggiano. Sulla parete libera si vede la porta metallica dell’ascensore, di colore grigio sporco. La quarta parete è cieca, dipinta di bianco. Da quella parte non ci sono finestre e nemmeno scale: di queste la palazzina è del tutto priva.
    La lampada alogena fissata al soffitto è accesa giorno e notte. In caso contrario, i pianerottoli sarebbero costantemente immersi nel buio.
    La cabina dell’ascensore è talmente angusta che può ospitare una sola persona per ogni viaggio. In tal modo gli inquilini non sono obbligati a condividerla, anzi, ne sono materialmente impediti.
    Esistono anche varie regole non scritte.
    Ad esempio, prima di uscire da casa, i dirimpettai si accertano attraverso gli spioncini che sul pianerottolo non ci sia nessuno e, socchiudendo un minuscolo spiraglio della porta, verificano che la luce dell’ascensore non indichi che la cabina e il suo occupante sono diretti proprio quel piano. In tal caso aspettano, con l’orecchio incollato alla porta, che l’altro sia entrato nell’appartamento. Accedono al pianerottolo solo dopo aver sentito lo scatto della serratura che si richiude. In tal modo, ognuno sale o scende da solo e in silenzio e senza incontrare nessun altro.
    La palazzina è dotata di un gruppo elettrogeno che ha lo scopo di lasciare in funzione l’ascensore e le luci dei pianerottoli anche durante le interruzioni della rete elettrica. Gli inquilini sono stati obbligati a installarlo, nonostante il notevole costo, proprio in conseguenza della mancanza di scale. D’altra parte le scale, se ci fossero, renderebbero pressoché inevitabili gli incontri e la vita si farebbe impossibile.
    Al piano terra si aprono tre portoni, uno per ciascuna facciata tranne quella dove si innalza la parete cieca. È questo, l’ingresso comune, il settore più delicato, perché è il più esposto agli incontri casuali e indesiderati.
    I portoni sono di ferro con due lastre di cristallo nella parte superiore che permettono di controllare il pianterreno, le luci dell’ascensore e i due restanti portoni. Prima di entrare, ognuno degli inquilini aspetta che l’ingresso sia vuoto e le luci dell’ascensore spente. Se c’è qualcun altro in attesa davanti a uno qualsiasi degli altri ingressi, la regola è di far entrare per primo chi si trova alla propria sinistra. Poiché tutti rispettano questa regola, di solito non avvengono incidenti e non si creano situazioni imbarazzanti.
    Ma nel caso in cui, non appena penetrato nell’ingresso comune, un inquilino veda la luce dell’ascensore illuminarsi di colpo a segnalare l’imminente arrivo della cabina, egli compie una precipitosa fuga all’indietro fino a ritrovarsi al di là del portone dal quale era appena entrato, o di un altro, se ce n’è uno libero. Oppure, alle strette, corre a rifugiarsi in uno stretto andito discretamente celato da una tenda opaca, posto di fianco all’ascensore. Si dice che più di qualcuno, in circostanze sfortunate, vi sia rimasto parecchie ore prima che si ristabilissero le condizioni adatte per rientrare nel proprio appartamento.
    Non si sa quanta gente abiti nella palazzina, ma sembra evidente a tutti che debba esistere un sistema di controllo che limiti il numero degli occupanti. In effetti, se in ognuno dei dieci appartamenti abitassero, in media, anche soltanto tre persone, il numero complessivo di trenta inquilini renderebbe impossibile il rispetto delle regole e dunque la vita.
    Ma tutto sta cambiando da quando è arrivato il nuovo inquilino. E’ un uomo anziano, solo, ed è cieco.
    Gli assistenti sociali lo hanno accompagnato al primo piano, dove c’era un appartamento libero. Quest’uomo non può rispettare le regole. Si muove agitando un bastone bianco davanti a sé e ha un cane. Non vede le luci dell’ascensore e non sa se sia occupato o meno. Al piano terra, il cane abbaia quando c’è qualcuno, ma l’uomo non se ne dà per inteso. Per lui non significa nulla. Entra ed esce senza badare agli altri.
    Il suo arrivo sta sconvolgendo l’intera vita della palazzina. Sebbene l’uomo non possa vederli, e dunque non provi per loro alcun fastidio, gli altri vedono lui: la sua involontaria anarchia, la sua spontanea invadenza, ha cambiato ogni cosa.
    Non è escluso che, a forza di indifferenza, costringerà tutti ad andarsene altrove.
    Io aspetto quel giorno come una festa. Al momento opportuno, affitterò l’appartamento di fronte al suo e vivremo in pace, ignari l’uno dell’altro.

    I commenti sono chiusi.

    Giacomo Raccis

    Ricercatore universitario. Si occupa prevalentemente di romanzo italiano contemporaneo, di racconto breve e di interazioni tra letteratura e arti visive. Ha studiato a lungo l’opera di Emilio Tadini, di cui ha curato la raccolta "Quando l’orologio si ferma. Scritti 1958-1970" (il Mulino 2017) e su cui ha pubblicato la monografia "Una nuova sintassi per il mondo. L’opera letteraria di Emilio Tadini" (Quodlibet 2018). Ha scritto anche "La trama" (Carocci 2018), breve manuale sull’evoluzione dell’intreccio nei romanzi occidentali. Tra i fondatori de La Balena Bianca, ha collaborato anche con Doppiozero, cheFare, L’indice dei libri del mese, Le parole e le cose e altre riviste cartacee e in rete.