Dal 15 gennaio al 12 febbraio, Cristina Marconi legge e commenta i racconti di TYPEE, per la prima volta sotto forma di pillole video, offrendo suggerimenti di scrittura, consigli di editing e suggestioni su come allenare l’immaginazione. I video vengono pubblicati su BellevilleNEWS ogni venerdì.
I capitoli precedenti de “La scrittrice che legge” sono qui.
Capitolo 4
Racconti commentati:
- Inventario di frasi inutili per lasciarsi, di Annalisa Maitilasso
- Integrale, di Stefano Adesso
- La Ventinove, di fedigloria
- A pancia piena, di Martina Bad
- Archie, di Katzanzakis
> Inventario di frasi inutili per lasciarsi, di Annalisa Maitilasso
Ero morta in un incidente, ma non avevo sentito nulla. Morire non era stato doloroso, solo irreparabile. Una cazzata irreparabile successa per pura disattenzione, mentre attraversavo alla cieca cercando di mandare un messaggio sul cellulare. La morte non era un affare così importante, s’infilava tra un giorno e quello dopo come una lisca tra i denti. E benché non perdessi la capacità di essere me stessa, non ero più legittimamente quella persona. Ero, più che altro, una falla legale. Como succede agli apolidi. Anche così, l’unica cosa che mi dispiaceva, nel sogno, era non aver finito di spedire il messaggio prima che un camion mi scaraventasse in aria.
Miguel non avrebbe mai saputo che lo stavo lasciando.
Apro gli occhi nel buio compatto nella stanza. Allungo una mano verso il comodino. Ci dev’essere il cellulare da qualche parte. Un peso da nulla sui bulbi oculari mi dice che ho dormito poco. Non mi sono riposata, sono stanca peggio di prima, accidenti. Morire in sogno è una faticaccia! Sento i pensieri staccarsi a scaglie e andare a pigiarsi sulle palpebre intorpidite – di nuovo quella brutta sensazione di sonno bloccato a metà. All’improvviso, il giallo lampeggiante di un messaggio riempie tutta la camera, dagli armadi allo specchio ovale sulla parete opposta. Sento un brivido. A quest’ora? Ma che ora è poi? Balzo a sedere, tesa come una corda. Di nuovo mando la mano a caccia del telefono che cade sul pavimento. Sul monitor, sotto una fioritura di schegge, il nome di Miguel. Sono due messaggi, uno di seguito all’altro. Solo il secondo è visibile: mi spiace. Con tre puntini di sospensione.
Ecco che arrivano i pensieri a raffica: mi molla. Non può farlo così, che faccia tosta, cristo santo! Mi spiace potrebbe voler dire tante cose, ma i tre puntini sono difficili da fraintendere. Fossero due, penserei a un errore, ma tre? Tre chiazze di sugo sulla maglia la domenica, tre passi avanti verso un dirupo. Non due, tre. Non ho ancora il coraggio di leggere la prima parte. Non so che fare, in che posizione ricevere la notizia.
Per un breve istante, mi torna in mente il sogno. Nell’attimo in cui il camion mi investiva, l’aria si rompeva. Improvvisamente era solida, era infida, mi stava attorno segmentando lo spazio, sparigliandomi come un mazzo di carte. Io non sentivo nulla, solo l’aria che si rompeva. Era una sensazione alata, speciale.
In questo momento, Miguel é in ospedale: probabilmente sta schiacciando il suo corpaccione in uno dei lettini dello stanzino di guardia. Oppure gira per il reparto con il telefono in una mano e un bicchiere di caffè nell’altra. È un uomo che riempie gli ambienti in cui entra con un robusto senso di calma. Da l’impressione che, a uno come lui, non possa succedere niente di imprevisto, di sicuro non sogna di morire o di spartirsi dal suo corpo. Miguel vive insaccato ben stretto nella massa viva dei suoi muscoli, beandosi persino del suo addome prominente e un po’ rilassato. Insieme siamo una coppia legata perché chiaramente sbilanciata.
Ogni giorno ripasso le frasi che userei per lasciarlo.
Siamo troppo diversi Miguel, ne ho fin sopra ai capelli del tuo cazzo di autocontrollo.
Miguel, puoi prendere le tue cose e uscire dalla mia vita. Che comunque sono poche, le cose tue, non hai mai bisogno di niente!
Miguel, vattene in ospedale e non tornare più, tanto lì ci stai meglio che a casa.
Il mantra delle accuse mi placa, mi riporta a uno stato di equilibrio.
Io, Miguel, ti lascio ogni giorno per restare in allenamento, ma non lo farei mai per davvero. Questo gliel’ho detto tante volte, a mezza voce, soprattutto quando mi scuso dopo un litigio. Ma non è del tutto vero. Non in senso letterale.
Adesso però è lui che si scusa. Mentre stringo i pugni in apnea, sento come un fiotto di aria compressa che mi schizza al cervello e finisce che lancio il telefono contro la parete con un gesto un po’ comico.
Ho lasciato i piatti sporchi nel lavandino, metto a posto io quando torno. Mi spiace…
Decido che è quello il testo del messaggio completo. Decido anche che è meglio forzare un po’ le cose e ingollare un paio di pastiglie per ricongiungermi con quella me onirica perfettamente capace di mollare Miguel.
Decidere è un sollievo. Per non andare in pezzi, neanche per sogno. Neanche nei sogni.
> Integrale, di Stefano Adesso
Dovette sforzarsi per tirare su lo zaino. Trascinò sul tram anche la piccola valigia, il manico ancora avvolto dal tagliando del volo. Sotto il cappotto portava un’altra giacca, leggera.
Scese in Ticinese, percorrendo gli ultimi metri a piedi. Non era ancora giorno. In Darsena il murale dedicato a Dax era stato coperto da almeno tre mani di grigio.
La valigia rullava sull’asfalto e intanto lo zaino lo tirava indietro, costringendolo a star dritto (concerto degli Ska-P al Macao, 2016, Carlottina gli aveva chiesto se poteva salire sulle sue spalle: l’unica altra volta).
Citofonò Giusti-Bompiano.
«Michele».
Lo accolse un rumore di zoccoli che gli correvano incontro. L’aveva avvisata. La trovò in vestaglia da notte, che non sembrava venire da un lungo sonno.
«Dov’è?», gli chiese.
«Nello zaino».
«Oh», si lasciò scappare. «Vieni, andiamo di là».
«Un attimo, c’è anche questa». Michele si sfilò il cappotto, e la giacca che portava sotto l’appese all’attaccapanni. Quindi seguì la donna in corridoio, poi in cucina.
Dovette sforzarsi anche per tirarla fuori. La donna lo osservava. Quando l’ebbe poggiata sul tavolo lei si avvicinò, diede un’occhiata alla targhetta, la strofinò, osservò di nuovo e infine s’afflosciò sulla sedia.
Ora il titolo di osservatore era passato a lui. Lei parve ricordarsene solo dopo un po’.
«Scusami», gli disse, «Vuoi qualcosa? Mangi qualcosa?».
«Caffé, signora. Se lo prende anche lei».
«No, ma devo comunque prepararlo a mio marito. Rientrerà tra poco».
Mise intanto in tavola un grosso vassoio di dolci.
«Il suo lavoro», disse, abbozzando un sorriso.
Michele prese una pasta. Si strofinò sui pantaloni la mano sporca di farina.
Qualche minuto dopo erano seduti, faccia a faccia. La madre fissava il suo volto, velato dal fumo della tazza.
Interrompendo il silenzio, disse: «Lo amavamo così tanto».
«Non ne dubito, signora». Sotto al tavolo, la gamba destra di Michele non riusciva a star ferma. «Mi aveva raccontato un po’ la situazione».
«Oh, sì, suo padre… non erano d’accordo su tutta la questione, la politica sai, non erano d’accordo. Suo padre si chiedeva sempre che bisogno avesse di complicarsi la vita così».
«Mi aveva detto che non si parlavano da un paio d’anni».
«Sì, da quella volta che è scappato, io ogni tanto lo chiamavo, sono andata anche a trovarlo… ma mio marito… anche se lui l’ha sempre amato.», si interruppe. Raccoglieva le briciole sul tavolo una ad una.
«È un vero peccato, sa. Andarsene così. Sarebbe stato felice di sentirlo, anche solo una volta». Il movimento della gamba si era ora trasferito alla mano.
«Proprio qualche settimana fa avevo pensato di chiamarlo. Fedro si è licenziato, suo padre e io adesso ci ammazziamo di lavoro, insomma… il posto c’era. Lo amavamo così tanto…».
«Avrebbe dovuto lasciare il campo per tornare qui al forno?».
«Perché no», ribatté lei, «sono sicura che suo padre ne sarebbe stato fiero».
Michele gettò uno sguardo verso l’urna all’altro capo del tavolo. Lei se ne accorse.
«Com’è successo?», gli chiese.
«Come per tutti, signora. Eravamo ad Aqwrah. Sapeva che sarebbe potuto accadere. Ha semplicemente deciso che ne valeva la pena».
La donna sembrò finalmente crollare.
«Io… tuo padre, quanto ci farai soffrire Max, quanto…», singhiozzò, nascondendo il viso in un tovagliolo. «Perché, perché non hai dovuto capire?».
Fu in quel momento che si udì il rumore della serratura. Era rientrato.
Si stava sfilando il cappotto all’ingresso quando notò la giacca verde, coperta di stemmi. Appese la sua affianco e s’incamminò per il corridoio.
Dalla cucina, Michele e la madre lo videro passare attraverso la porta lasciata aperta, a testa bassa. Non si voltò nemmeno.
Michele le lanciò uno sguardo. Prima che lei potesse accampare una qualunque altra scusa, le sue dita smisero di muoversi. Aprì il palmo, lo sbatté sul tavolo e si alzò, correndo dietro all’uomo.
Lo trovò in camera, intento a togliersi gli abiti da lavoro coperti di farina.
«Nemmeno una parola?», gli chiese.
Piegato, una mano poggiata sul comò per tenersi mentre sfilava i pantaloni, l’uomo alzò la testa, lo squadrò, quindi riprese a svestirsi.
«Gli sarebbe bastato anche solo un saluto».
A questo punto non si degnò nemmeno d’interrompersi.
Michele si guardò le mani. Gli venne in mente cosa gli aveva detto Max, una volta: gli interessa solo il lavoro.
Continuò a fissarlo mentre procedeva nelle sue cose.
«Sa», disse, «scherzando un giorno mi confessò che da morto riusciva a immaginarsi solo cremato».
L’uomo parve rallentare, la maggior parte della concentrazione ora non più dedicata ai vestiti. Michele aspettò che fosse lui parlare. Almeno una volta.
E, dopo una decina di secondi, la parola arrivò: «Quindi?», disse.
Il ragazzo sorrise.
«Glielo chiesi anch’io. Gli domandai: perché?».
L’uomo adesso lo fissava, la fronte attraversata da un presentimento.
«Mi rispose che non lo sapeva bene neanche lui, che era semplice istinto».
Michele sembrava essersi tranquillizzato, ora. Osservó i vestiti dell’uomo, che se ne stava immobile.
C’era farina anche a terra.
> La Ventinove, di fedigloria
La Ventinove delle sette e dieci non arrivava mai puntuale, e l’unica volta che lo fece successe il vivamaria.
A noi delle Case Gambino la giornata già era partita male, perché stavamo ancora a palleggiare in cortile quando avevamo visto il suo muso arancione sbucare in fondo alla strada, e ci era toccato scapicollarci con gli zaini in mano fra le macchine e sbraitare all’autista per riuscire a salire.
A bordo c’era mezzo quartiere, come ogni mattina, e la solita puzza di sudore che bisognava tenere giù i finestrini anche se era febbraio. Io stavo vicino al finestrino, infatti, per tirare il fiato e anche perché ero capitato accanto a Ciccio Polizzi, che aveva sempre l’alito impestato.
A parte l’orario, però, era tutto normale e la Ventinove arrancava sculettando nel budello contorto di via Cruillas, in mezzo a una giungla di clacson e sotto un cielo blu che pareva finto, sbatacchiandoci a ogni colpetto di freno e facendoci ridere come cretini.
Poi però frenò di colpo, molleggiando a modo suo e con uno sbuffo perentorio, e mentre ancora ci ridevamo addosso l’abitacolo si riempì di santi, cristi e madonne, e chi era seduto balzò in piedi e qualcuno dai sedili avanti si segnò la croce.
La prima cosa che vidi io, veramente, fu il blu sulla faccia di Ciccio Polizzi e di Tonino Pasta, che era accanto a lui. Allora mi girai verso il finestrino, e riconobbi a stento piazza Lampada della Fraternità: con tutti quegli sbirri e quei lampeggianti pareva un telefilm americano. Sulla Ventinove si spingevano tutti per vedere e anche Ciccio mi venne addosso. In un attimo fui col petto contro il vetro e la testa mezza fuori.
Per questo la vidi, la scarpa. Era un mocassino marrone con un pezzo di calza bianca che sbucava da sotto un lenzuolo, e mi sembrò uno sbaglio, perchè il piede pareva andarsene per conto suo. E poi vidi la mano, e anche quella fuoriusciva dal lenzuolo tutta storta, con il pollice divaricato e le altre dita accartocciate sull’asfalto. Mi ci volle qualche secondo per rimettere insieme i pezzi. Ma che è, un cristiano? Minchia, picciotti, un morto è!
Era il mio primo morto, quello. Li vedevamo i morti, alla televisione. Vedevamo i lenzuoli e le coperte buttati sulle strade, le pozze di sangue, i pezzi di vetro, i poliziotti con gli occhiali scuri e i baffi, sempre accosciati sul marciapiede a cercare chissà che. Tutti i giorni, li vedevamo. Ma quello era il mio primo morto.
La Ventinove pareva un elefante azzoppato, tutta inclinata dal lato del morto. E tutti allungavano il collo e ognuno diceva la sua. Che fu, ‘na macchina? Mischinu…Nonsi, l’ammazzaru. Ah Marunnuzza, morto ammazzato è…? Anche Tonino Pasta s’era messo a fare l’esperto, Ci pistò i piedi a qualcuno, ‘ddu fissa, che lui di morti ammazzati ne aveva già visti tre in un colpo solo, perchè suo padre lavorava in zona porto e quella volta che se l’era portato appresso l’avevano scampata per un pelo. Ciccio invece s’era ammutolito ed era più bianco del lenzuolo, perchè lì davanti c’era la merceria di suo zio Michele, e lo sapevano tutti che apriva presto, e capace che quella scarpa era la sua.
Alla fine la Ventinove si rimise in moto, e mentre a passo d’uomo si faceva largo tra le sponde di curiosi e lampeggianti continuai a fissare dall’alto il mio morto, e me lo guardai come si deve fino a quando non ne rimase niente.
A scuola, comunque, ci arrivammo in ritardo anche quella volta. Alla prima ora fu tutto un parlottare di sangue, di morti ammazzati e di sgarri, e Ciccio sparì per mezz’ora in bagno e poi si fece venire a prendere da sua madre. Alla seconda ora, però, avevamo ginnastica, e la Santino ci lasciò giocare fuori, ché con quel sole pareva un peccato mortale seppellirci in palestra e noi avevamo l’argento vivo.
Appena fischiò la conta Tonino mi strizzò l’occhio e barò per finire nella mia squadra, e per la prima volta, sotto quel blu assurdo, non prendemmo neanche un gol.
> A pancia piena, di Martina Bad
Mi chiamo Agnolèt Bruno e sono innocente. Non ho altro da dire tranne che nessuno merita di morire se non lo vuole. Sono un cittadino onesto. Pago il canone, non voto, non mi lamento, faccio la differenziata. Ho una casa di proprietà, era di zio che l’ha lasciata a me, per quello sono venuto giù a Roma. Sono nato a Talmassóns, un posto vicino Udine. Talmassóns in italiano sarebbe là dove ci sono i massi, i grandi massi, sassi grandi, insomma. Agnolèt vuol dire qualcosa. Angioletto, mi chiamo Angioletto Bruno ma sono biondo. Ho gli occhi verdi ma quando c’è foschia sembrano grigi. Sono cresciuto vicino ad un torrente e da grande ho imparato a diventare fiume, poi lago. Quando ero piccolo mi tuffavo da qualsiasi altezza. Piero Angela ha detto che c’è un gene della paura e che se uno non ce l’ha, qualcosa dentro di lui fa corto circuito e non capisce il pericolo per sé. Io quello non ce l’ho, sono sicuro. Andavamo io e la zia a fare il bagno sul Pâlar, un torrente che viene giù da un monte di nome Piombada. Il Pâlar lo avevano fatto a scalini con sotto delle vasche dove si poteva fare il bagno nell’acqua gelida. Gelida perché un conto è che sei abituato ad andare al mare un altro conto il torrente. Quella non è mica acqua qualsiasi, quella viene dal posto più vicino al cielo e ha una fretta di andar giù al mare che se potesse si tirerebbe dietro tutto il Mondo. Gli unici esseri viventi che uccido sono le zanzare ma solo se mi danno fastidio. Lavoro stagionalmente in un bar all’aperto sul Lungo Tevere, faccio il lavabicchieri. Quando si fa tardi aspetto che i clienti finiscano di succhiare i drink dalle cannucce e mi siedo a un tavolo da dove si vede il Tevere. Mi vengono in mente gli antichi romani, le barche di legno, le tuniche bianche, i gladiatori. Le donne coi sandali tutti intrecciati alle caviglie mentre lavano le lenzuola con le braccia nel Tevere, i carri tirati dagli asinelli che tornano dal foro con la frutta ammaccata. Mi immagino che sapore aveva l’uva quella volta. Dei sacerdoti vestiti di bianco che camminano incensando le vie, al loro passaggio si fa un odore di erbe che sanno di buon auspicio e sorridono a tutti. Quando guardo questa città sono orgoglioso di discendere dai romani. Il mio capo è uno di quelli, uno che ha fatto i soldi coi locali, un furbo. Dipendenti in nero, licenze per gli alcolici false. Quel capo che ti comanda di dare le spalle al banco e mettere i tramezzini e gli arachidi avanzati su un piatto pulito per dei nuovi clienti. Da quando lavoro lí mangio e bevo solo a casa mia. Dopo che se ne erano andati tutti, ho lavato i bicchieri, buttato la spazzatura e sono andato in dispensa a prendere il panino che mi ero messo da parte. Era un panino col prosciutto e la mozzarella, niente di speciale ma avevo fame. Arrivo nella dispensa e trovo il piatto vuoto… Ci portano un panino a testa! Qualcuno si era mangiato due panini. Ero stanco e mi è andata via la vista e mi sono sentito svenire. Sono caduto e ho sbattuto la testa, mi sono messo a piangere. Mi sono cambiato, mi son soffiato il naso nella maglietta sporca e mi sono incamminato sul Lungo Tevere con lo stomaco che brontolava peggio di quel maledetto fiume. Imbocco Ponte Sisto e noto qualcuno seduto sulla balaustra. Si sporge in avanti con la testa come se volesse guardare giù. Mangia un panino. E’ il mio capo. Mi vede e mi sorride. Mi sa che ha pianto anche lui. Mi chiede se posso fargli un favore. Rispondo quale. Bruno, puoi spingermi? Bruno, te lo chiedo per favore. Da solo non ce la faccio e intanto aveva ricominciato a piangere. Riprende a guardarsi i piedi e a sporgersi. Deve essere fredda l’acqua… Non credo, gli rispondo io, sarà una brodaglia schifosa. Deglutisce l’ultimo morso del mio panino e si pulisce le briciole dalla camicia. Bruno, aiutami! Va bene, ho detto io. L’ho guardato cadere, sprofondare e poi tornare a galla. L’ho sentito sul tg di Rai Uno che non è morto annegato. È stata una congestione a portarselo.
> Archie, di Katzanzakis
Aveva freddo. E provava una sorta di malessere impreciso, fatto di dolore fisico, di solitudine e di qualcosa che qualcuno, più esperto di lui in certe mal definibili ferite dell’anima, avrebbe forse chiamato tristezza.
Si, Archie conosceva bene il dolore fisico e la solitudine, gli bastava riandare con la memoria alla sua infanzia, in quella specie di cubo di due metri per due, con una porta metallica a separarlo dal mondo esterno, che aveva rappresentato per un anno tutto il suo mondo, sempre gli stessi odori, il rumore ogni volta uguale degli scarponi del custode che, con malagrazia, gli portava il suo pasto quotidiano, lo scroscio dell’acqua che lavava via gli escrementi e l’abbaiare, talora furioso, altre dolente, dei compagni di prigionia, nelle gabbie vicine.
Poi, un giorno, un viso gentile si era affacciato sul piccolo cortile che era il suo mondo, l’aveva accarezzato sotto le orecchie e l’aveva liberato.
Archie ricordava ancora l’emozione di quelle prime carezze e la scoperta graduale di un mondo di cui, fino a quel momento, non aveva nemmeno sospettato l’esistenza. Sentiva ancora preciso l’odore dell’uomo con la barba bianca che era diventato il suo compagno di vita, che divideva con lui l’entusiasmo delle corse sulla riva dell’oceano, che rideva di cuore delle sue fughe per inseguire i gabbiani, impegnati nella ricerca di cibo nelle ore di bassa marea.
In quei giorni Archie, che ignorava cosa fosse la vanità, aveva scoperto di essere bello, con il suo pelo folto scuro, le zampe agili e potenti e quegli occhi vivaci che sapevano comprendere ogni mutamento d’umore del suo compagno, comprese le ombre che a volte indugiavano tra le rughe dopo le visite di suo figlio e la sofferenza che, sempre più spesso, gli rallentava il passo nelle passeggiate sulla spiaggia.
E poi la luce negli occhi di chi l’aveva restituito alla vita si era spenta, e gli sembrava impossibile che tutto potesse continuare come prima, le corse sulla spiaggia si erano via via diradate, finché il figlio dell’uomo che era stato il suo compagno lo aveva portato in una casa di città, con un piccolo giardino recintato, in cui passava le sue giornate, ancora una volta senza una carezza, senza una gioia condivisa.
E aveva smesso di sentirsi bello, il suo pelo era diventato sempre più opaco, gli occhi meno brillanti, il passo più svogliato, fino a quando aveva sentito il suo muso deformarsi progressivamente per un gonfiore che gli rendeva ogni giorno più difficile anche mangiare.
Poi, lui che un tempo era il terrore dei gabbiani per le sue inesauribili corse, aveva sentito poco a poco le zampe di dietro cedere e si era accorto, con orrore, di non riuscire più nemmeno a controllare quando fare i suoi bisogni.
E’ un sarcoma con metastasi vertebrali, aveva detto il veterinario, parole incomprensibili per Archie che aveva però notato, per la prima volta, negli occhi del giovane padrone, un accenno di dolore e di preoccupazione.
Non può più deambulare e non ha più il controllo degli sfinteri. Si può provare con una chemioterapia, ma in questi casi consiglio la soppressione.
Nel tragitto di ritorno, l’uomo con cui divideva la casa l’aveva accarezzato, poi per giorni l’aveva sentito trafficare in garage, finché ne era uscito con un buffo carretto con le ruote. Dopo che gli era stato fissato con una fascia sotto la pancia, Archie si era accorto di poter di nuovo camminare e, addirittura, malgrado la stanchezza, correre libero.
Il suo padrone l’aveva portato sulla spiaggia della sua vita di un tempo e l’aveva osservato, con un sorriso, correre sulla battigia.
Domani inizieremo la chemioterapia, gli aveva detto accarezzandolo sotto le orecchie, mio padre non ti avrebbe mai fatto sopprimere…
Archie lo guardò per un attimo negli occhi e prese a correre dove la sabbia conservava ancora traccia della marea appena scesa, cercando di inseguire un gabbiano.
Si sentiva di nuovo bellissimo.