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I commenti di Andrea Tarabbia ai racconti di TYPEE/2

    Dal 12 marzo al 2 aprile Andrea Tarabbia legge e commenta i racconti di TYPEE in quattro brevi pillole video, offrendo visioni e suggerimenti per migliorare le tecniche di scrittura.

    Il capitolo precedente de “Lo scrittore che legge” è qui.

    Capitolo 2


    > Ubi mel, di Ti maddog

    – Annus Horribilis, Annus Horribilis! I confratelli di Santa Croce non sanno dire altro. Magari fosse sempre così, dico io, con le case svuotate dal Morbus Mortiferus e le strade dalla paura – dice Bartolo dando di gomito al suo socio.
    – È così facile che quasi ci perdi gusto a derubare quei disgraziati che finiscono al lazzaretto, – ciancica Nicola sostenendosi a un albero che non trova e finendo a terra.
    – È per questo che ci ubriachiamo prima AH-AH-AH!, – ride Bartolo, aiutando il socio ad alzarsi. – Per dare alla cosa l’imprevedibilità che ha perduto.
    – Stasera mi sarei ubriacato comunque, – precisa Nicola tirandosi su.
    – LASCIA PERDERE LA ZINGARA! – taglia corto Bartolo che, sentito il socio tornare sull’argomento che più aveva impegnato la loro conversazione in taverna, torna a spingere il carretto, aggiungendo. – Pensa al vino piuttosto, che ti dà più ebrezza di una donna. E ricorda quel che dice Bernardo, che la castità riduce il rischio di contagio.
    – Me ne frego di quel che dice lo speziale, prendo già le mie precauzioni, – e mostra al socio il sacchetto appeso al collo contenente polvere di rospo e salamandra*. – Questo non me lo tolgo nemmeno a letto, – sentenzia accalorato.
    – Ubi mel ibi fel*, – biascica rassegnato Bartolo, fermatosi a prender fiato.
    Sotto una falce di luna che sembra lo sghembo sorriso di un ubriaco, i due si rimettono in marcia verso il Borgo di Colegno*, dove, a detta di un confratello di Santa Croce, tutta la famiglia dell’oste era stata ricoverata nella chiesa di San Sebastiano, adibita a lazzaretto perché fuori le mura.
    Giunti nei pressi del Borgo, in vista delle prime abitazioni, nonostante la torrida notte d’agosto i due si coprono il capo col cappuccio e stanno attenti a non alzare troppo la voce. Il Borgo è stato isolato e nessuno può entrare o uscire senza autorizzazione. Ma Bartolo e Nicola sono due gentiluomini incaricati dal Servizio Sanitario Ducale di informarsi ogni giorno sullo stato di salute della popolazione, e godono di una certa considerazione. Ciò però non li distoglie dal guardarsi bene attorno, perché difficilmente riuscirebbero a giustificare, a chi monta di guardia, la loro presenza lì in piena notte.
    – Sei sicuro di sapere dove sia la cantina? – bisbiglia Nicola.
    Bartolo fa un cenno d’assenso col capo.
    Passato il ponte sulla Dora salgono verso il Borgo e si fermano dove la cinta muraria offre comodi appigli per scavalcare. Le due grandi gerle che sono sul carretto vengono scaricate e addossate al muro, e il carretto nascosto tra le frasche.
    – Vai prima tu, – dice Bartolo.
    Nicola arriva in cima aiutato dalle spinte del socio, che senza perdere tempo gli passa una dopo l’altra le gerle; stando attento a non far rumore Nicola le lascia cadere al di là del muro.
    Raggiuntolo in cima, Bartolo si guarda attorno per controllare la situazione: sonda il silenzio e cerca la direzione.
    – Andiamo, – sussurra nel buio, e si butta giù, atterrando male e finendo col petto e le mani nella rittana* attraverso la quale gran parte della merda dei colegnesi defluisce nelle acque della Dora.
    – Cominciamo bene, – ironizza Nicola, cui è toccata la stessa sorte.
    – Zitto e seguimi. Per di qua, – e caricatesi le gerle sulle spalle i due spariscono nell’oscure e maleodoranti vie del Borgo.
    Sembra esserci solo lo zampettare dei topi ad accompagnare la loro sortita quando, in prossimità della piazza dove si trova la cantina dell’oste, Bartolo scorge le luci di alcune lampade a olio rischiarare la notte. Si ferma e indietreggia nel buio. Nicola, che lo segue dappresso, viene colpito in viso dalla gerla di Bartolo.
    – Che succede? – chiede irritato, ma Bartolo lo zittisce mettendogli una mano sulla bocca. – C’è gente, – gli sussurra rauco, appiattendolo contro una casa e bloccandolo lì col braccio teso mentre si sporge di poco per vedere meglio.
    – C’hanno preceduti, maledizione, c’hanno preceduti, – s’inquieta Nicola alzando la voce.
    – Taci! Non sembrano ladri, – precisa Bartolo. – Sono homini della Coità*, ne riconosco un paio che fanno parte della Credenza*.
    – Cosa fanno in giro a quest’ora? – chiede Nicola.
    – Non so, stiamo a vedere.
    Il gruppo di uomini avanza tra frizzi, lazzi e risa verso il pozzo al centro della piazza. Ora che tutte e tre le lampade sono state posate sul pozzo, per Bartolo è facile contarli: sono sette e sembrano anche loro ubriachi.
    – Penso che il caro Renato, nostro ospite, meriti ora una buona boccata di erba di Santa Croce*, – dichiara uno dei sette estraendo dalla bisaccia una grande pipa; raccolta una paglia da terra, che pone sulla fiamma di una lampada, l’accende aspirando forte. Fatte due boccate la passa a Renato.
    – Ti ringrazio Prospero, un amico come te è cosa rara, – commenta Renato portando la pipa alla bocca per poi tossire fumo. – E proprio perché mio amico, so che non te la prenderai a male e capirai: dopo che la peste si è portata via moglie e figli, quelle poche giornate di terra sono l’unica cosa che mi rimane.
    – Capisco Renato, capisco. Ma quelle giornate te le avrei pagate bene, – ribatte Prospero, che dando le spalle all’amico continua. – Non ti nascondo però che il tuo rifiuto mi ha deluso molto, e proprio perché amici. Ci contavo sulle tue terre. Ma tu vuoi darmi questo dispiacere, e io che posso fare? Cosa ci posso fare? – ripete. E chiede ai presenti. – Posso mica obbligarlo. O sì?
    Il silenzio sceso dopo questa domanda viene rotto dal riso sguaiato di Prospero, al quale si unisce quello di tutta la compagnia.
    – Che succede? – chiede Nicola al socio.
    – Zitto e fammi sentire, – risponde quest’ultimo.
    – Da te, Renato, mi aspettavo più collaborazione, – continua Prospero riprendendosi la pipa. – Purtroppo a quelle giornate di terra non posso proprio rinunciare, per poche che siano, e tu sai che sono abituato a ottenere ciò che voglio, – e detto ciò fronteggia l’amico col suo marcio ghigno, mentre due bloccano Renato contro il pozzo e un terzo gli stringe un canapo al collo.
    I tentativi che fa Renato per liberarsi dalla stretta sono vani, e non serve nemmeno scalciare alla cieca: pian piano si accascia a terra, accompagnato dal canapo che non ha mai smesso di stringergli la gola.
    – Ti facevo più scaltro, amico! Niente mi impedirà ora di comprare la tua terra, visto che non hai eredi e stai giusto per raggiungerli. Causa del decesso? Peste. – e detto ciò afferra Renato per i capelli e gli sbatte ripetutamente la testa sul pozzo.
    Il suono del cranio che si rompe è la sola cosa che si coglie nel silenzio notturno.
    – Portatelo nella stalla, più tardi lo getteremo nella Pessina della Merla*, – dispone Prospero.
    – Che succede? – chiede ancora Nicola a Bartolo, che pietrificato da quel che vede non sente nemmeno la domanda.
    – Si può sapere che sta succedendo? – torna a chiedere Nicola, che impaziente e stufo decide di sporgersi al di la dell’angolo di strada che li nasconde.
    Non è facile per un ubriaco mantenere l’equilibrio, e ancor più difficile è farlo con una gerla e un compagno che ostruiscono buona parte dello spazio. Così, cercando di vedere quel che non deve essere visto, Nicola cade e si porta dietro anche Bartolo.
    – CHI VA LA’? – sentono urlare dal gruppo intorno al pozzo, mentre un paio di uomini accorre a circondarli.
    – E voi chi siete? – chiedono ai due.
    – So io chi sono, – interviene Prospero. – Bartolo Giai e Nicola Fraita. Vi informate sullo stato di salute della popolazione del Borgo anche a quest’ora della notte? E immagino che le gerle servano a raccogliere le dicerie che vi riferiscono? – ironizza suscitando l’ilarità dei compagni.
    – Ci siamo trovati qui per caso, – commenta Bartolo.
    – Per malasorte, sarebbe meglio dire. Tanti homini dabbene approfittano della peste per rubare nei borghi quel poco che c’è. Ma a Prospero Gilli non piacciono i ladri, e nemmeno le spie, – sentenzia duro parlando di sé in terza persona.
    – Se pensate che andremo a riferire quel che abbiamo visto, vi sbagliate: sappiamo tenere la bocca ben chiusa, – afferma candidamente Nicola.
    – Me ne compiaccio, ma il sistema migliore per tenere la bocca chiusa è sempre e solo uno, – replica Prospero.
    Bartolo e Nicola, ancora a terra, si guardano perplessi.
    Ci sono momenti in cui è l’istinto a guidare le scelte degli uomini, e altri nei quali è la ragione: in questa circostanza si legano insieme quando Prospero si mette a strillare “GLI UNTORI! GLI UNTORI! DAGLI AGLI UNTORI!”.
    Mentre da una finestra qualcuno si affaccia sulla piazza per capire cosa sta succedendo, Bartolo e Nicola possono solo cercare di proteggersi alla buona dai calci che martellano i loro corpi; raggomitolati su se stessi non gli resta che attendere un epilogo che sembra non arrivare mai.
    È Prospero a dire basta.
    – Berto! Corri a casa e prendi le tenaglie, – ordina al figlio.
    Quando Berto ritorna, consegnando nelle mani paterne le tenaglie, Bartolo si prostra chiedendo pietà. Ha già capito tutto; conosce bene il trattamento riservato agli untori.
    – Eravate venuti a rubare e disgraziatamente siete incappati nei miei affari: ubi mel ibi fel.
    È una sentenza funesta per i due, che vengono tenuti spalle a terra, e mentre uno gli apre la bocca e gliela tiene aperta, Prospero vi infila le tenaglie per strappargli la lingua.
    – Portateli in taverna e date loro da bere il vino che cercavano tanto! Domani li condurremo a Torino.
    Il giorno dopo, pesti da essere irriconoscibili e con la bocca tumefatta, Bartolo e Nicola sono condotti da Prospero in persona fino in piazza Castello. Dal misero carretto sul quale sono stesi e che piano si fa largo tra la folla che accalca la piazza, scorgono a stento il palco e le Croci di Sant’Andrea destinate a dar meritata fine agli untori.
    – In nome del Signore Nostro Iddio, l’anno d’esso 1598, la terza interdizione, et alli vintitre del mese di Agosto… – annunciano dal palco mentre i due vi vengono condotti.
    Bartolo piange e dispera.
    Nicola vorrebbe gridare al mondo la sua innocenza ma dalla bocca escono soltanto suoni animaleschi. Quando tra gli untori legati alle croci riconosce l’amata zingara, nuda, coi seni scarnificati, le braccia e le gambe rotte, annichilisce per la bizzarra espressione di sensuale agonia che le trapela dal viso. E nel momento in cui il boia le si avvicina per tagliarle la gola, Nicola è inaspettatamente in balia dello stesso trasporto che provò quando la trascinò nel Magnus Nemus* per violentarla.

    Note:
    * Polvere di rospo e salamandra: uno dei bislacchi rimedi dell’epoca per non essere contagiati dalla peste.
    * Ubi mel ibi fel: dove c’è il miele c’è il fiele.
    * Borgo di Colegno: toponimo della città di Collegno all’epoca dei fatti narrati.
    * Rittana: canale di scolo.
    * Coità: comunità.
    * Credenza: organismo elettivo che regge la comunità.
    * Erba di Santa Croce: denominazione con la quale in Italia, nella seconda metà del XVI secolo, si identificava il tabacco e che deriva dal nome di chi lo importò in Italia, il Cardinale Prospero Pubblicola di Santa Croce.
    * Pessina della Merla: laghetto che all’epoca era sito nei pressi della stazione ferroviaria di Collegno.
    * Magnus Nemus: Gran Bosco, toponimo dell’area boschiva al di là della Dora.

    Bibliografia: Mario Porro – Collegno 2000 anni di storia, volume primo: Dalle origini all’estinzione dei Savoia Acaja di Collegno (1598) – Ed. Ad Quintum, Gruppo Archeologico – 2003



    > Due Gennaio, di matteo giordano

    Fede ogni due Gennaio sceglieva un progetto, un proposito, un rinuncia, qualcosa da imparare o qualcuno di cui fare a meno, poi lo appiccicava in bella vista sul frigo, scritto a pennarello sopra un Post It. Era il suo modo di tracciare una direzione, ma si trattava in realtà solo di far passare il tempo, in attesa che il Tempo facesse la prima mossa.
    Da più di sei mesi aveva chiuso con le tentazioni bohémien, dopo un periodo passato in un ostello vicino alla stazione Victoria e un altro trascorso a sopravvivere mangiando solo uova e latte, che erano le uniche cose che si poteva permettere, mentre si pagava l’affitto in un appartamento in condivisione pieno di polacchi, cercando nei disegni di muffa sulle pareti ispirazione per qualcosa da scrivere sull’elegante bloc notes che si era comprato.
    Alla fine aveva ceduto alle dinamiche del mercato del lavoro, scegliendo almeno di farlo con la catena di caffetterie che pagava di più, nell’illusione che fosse solo una forma minima di sostentamento mentre finiva il romanzo che aveva in testa ma che non riusciva a mettere su carta. Un giorno, di quelle mattine a montare il latte per i cappuccini ne avrebbero parlato i suoi biografi, ma per intanto l’elegante bloc notes era finito in fondo a un cassetto, sconfitto da uno stipendio settimanale che gli aveva consentito di trasferirsi in un appartamento con tre coinquilini spagnoli dalle parti di Manor House.
    La mattina, andando al lavoro, si sforzava di tenere gli occhi aperti seduto al piano superiore del double deck davanti a Il Circolo Pickwick, anche se alla fine di ogni pagina doveva tornare indietro perché leggeva distratto e finiva sempre per non ricordare chi fra Winkle e Snodgrass si fosse invaghito di Emily. A Old Street doveva cambiare e prendere il 55; sullo stesso bus saliva tutte le mattine anche una tipa che lavorava, stando alla targhetta che spuntava dal giaccone slacciato, in una delle più prestigiose pasticcerie di Regent’s Street. Era dell’est, lituana forse, con i capelli nerissimi e lisci, probabilmente tinti. Lei e Fede si guardavano sempre, e non poteva trattarsi di un caso: lui, infatti, salendo di corsa andava sempre a conquistare i sedili di testa e doveva quindi voltarsi indietro per guardarla. Lei si sistemava nella prima fila disponibile con due sedili vuoti, elegante anche nell’indossare gli auricolari, e accennava un sorriso tenue come il sole di quei giorni, pallido e triste come un’inverno dell’est.
    Da un po’ di tempo Fede aveva preso in considerazione la possibilità di rivolgerle la parola, chiederle il nome o il numero di telefono con una scusa e invitarla per una birra dopo il lavoro. Insomma, comportarsi come fanno tutti, arrendendosi all’evidenza che si stava definitivamente piegando alle logiche di una vita normale, con uno stipendio che non gli lasciava spazio per scrivere, ma tempo a sufficienza per comprarsi una giacca di HM e progettare una storia d’amore con una lituana dai capelli tinti.
    Così, il due Gennaio aveva appeso sul frigo un Post It con il volto stilizzato, tracciato nervosamente con un pennarello nero, della Lituana. Una giungla agitata di capelli a contornare un viso senza occhi, naso o bocca che per pigrizia aveva ribattezzato Emily, come la ragazza di cui rileggeva distratto ogni mattina e che adesso si sentiva pronto ad affrontare.
    Ma quando nella calca della fermata di Oxford Circus, Fede si era ritrovato appiccicato alla Emily tanto da respirarne il profumo di marca, era soltanto riuscito ad abbozzare qualche parola che gli morì sulle labbra. Lui e la Emily erano quasi attaccati mentre scendevano le scale del bus verso l’uscita, ma a ogni passo in Fede calava la convinzione, figurandosi chissà quali conseguenze nascoste in un gesto tanto semplice.
    Appena scesa dal bus, tirando fuori dalla tasca il cellulare, alla Emily era caduta  sull’asfalto la piccola custodia dell’abbonamento dei mezzi con il marchio dell’Ikea stampato sopra. A Fede era rimasta un’ultima possibilità: gli sarebbe bastato raccoglierla per dare al marciapiede lavato di fresco, al cielo muto, all’odore di città che soffiava dalle scale della metropolitana un nuovo sottofondo. E la raccolse, ma la raccolse e basta: lei si era già affrettata per non perdere il verde del semaforo e attraversare Oxford Circus, mentre lui era rimasto alla fermata con la piccola custodia rigonfia in mano. Aprendola aveva trovato oltre all’abbonamento dei mezzi quasi trecento Sterline, forse l’ultima ripartizione delle mance, o la sua quota di affitto da passare al padrone di casa.
    Se mai si fosse illuso che lei l’avesse fatta cadere con un secondo fine, tutti quei soldi avevano dato a Fede la certezza che ancora una volta si era sopravvalutato. Bullshit, come si dice da quelle parti. Mors tua vita mea, come si dice dalle nostre, e Fede si ficcò in tasca lo stipendio extra che si era trovato fra le mani, gettando l’abbonamento nel primo cestino dei rifiuti.



    > Rosso sangue, di Mercede Giovanna

    Anna si alzò ed aprì le imposte della camera: la pioggia scendeva lungo i vetri, l’acqua entrava e scivolava sulla parete. Prese uno strofinaccio e asciugò la pozza sul pavimento. La muffa stava coprendo la carta da parati, c’erano macchie di umidità dappertutto, anche sul soffitto. Gocce colavano sulla poltrona. La spinse contro la parete e mise una pentola sul pavimento per raccogliere l’acqua.
    Si chiuse la porta della camera da letto alle spalle ed entrò nel cucinino. La mamma sarebbe arrivata alle dodici e trenta, per il pranzo. Aprì il frigorifero: spalla di manzo per lo spezzatino, insalata e pomodorini, formaggio pecorino, tiramisù. Sulla credenza c’erano il pane e una bottiglia di vino rosso. Forse era ancora buono. Tolse il tappo e lo annusò. Ne bevve un sorso. Era marsalato e con un leggero sapore di tappo.
    “Tanto mamma non capisce di nulla di vini, lo apprezzerà comunque.”
    Aveva tutto il necessario per ingozzarla, anche se era a dieta e avrebbe saltato il primo e rifiutato il dolce. Bevve l’avanzo di caffè lasciato nella moka la sera prima, freddo e senza zucchero. Prese il tagliere di legno ed il coltello; li mise sulla tavola. Aprì il pacco della macelleria: la carne era rossa, grondava sangue sull’ incerata. Tolse il sangue dalla tovaglia ed impugnò il coltello; con una lieve pressione lo affondò nella carne, la tagliò in pezzi che mescolò con carote e cipolle; ci aggiunse sale e pepe e accese il fuoco sotto la pentola.
    Sollevò il coltello dal tagliere. Si passò la lama sul palmo della mano ed appoggiò il filo sulle vene del polso: il freddo la fece rabbrividire. Infisse la punta in una mela: penetrò fino al torsolo. Addentò la mela, lavò il coltello e lo mise nel cassetto. Ancora un’ora, al massimo, prima dell’arrivo della mamma.
    Si fece la doccia e si asciugò davanti allo specchio: era ingrassata.
    Entrò in camera da letto ed aprì l’armadio a muro. Ne tolse un abito di lana grigio, regalo della mamma a Natale, acquistato in una boutique del centro. Lo indossò: le stringeva la vita e le irritava la pelle. L’orologio sul comodino segnava le dodici e diciassette. Squillò il campanello.
    “In anticipo, come sempre.”
    Uscì sul pianerottolo e trovò la mamma sulla soglia dell’ascensore: cappello rosso, guance e labbra impiastricciate di trucco, borsetta viola stretta nella mano con le unghie rosso fuoco. Anna fu attanagliata dalla nausea.
    Le tolse il cappotto, la fece accomodare in casa e le servì il pranzo.
    Ascoltò le critiche sulla cottura della carne, sulla qualità dell’olio, e sulla scelta del vino. La nausea aumentò.
    Si alzò dalla tavola. Aprì il cassetto delle posate, alle spalle della mamma: il coltello era lì, lo sollevò e lo tenne stretto, lungo il fianco. Si appoggiò alla schiena della mamma, e le passò la mano sinistra attorno alla spalla, in un abbraccio. La mamma rise. La punta del coltello raggiunse la gola e la penetrò senza sforzo. Il sangue si riversò sul pavimento e sulle scarpe di Anna. La mamma cadde dalla sedia e la camicetta bianca si tinse di rosso.
    Anna prese lo smartphone; cercò l’icona di WhatsApp con il viso sorridente della sorella. “Puoi venire da me per favore? C’è un problema: ho ucciso la mamma.” Inserì una emoticon, con le labbra rosse sporgenti.
    Scavalcò il cadavere della mamma e andò a distendersi sul letto. Accese la smart TV, acquistò “Profondo rosso” e avviò la visione.

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    Andrea Tarabbia

    Nato a Saronno nel 1978, vive a Bologna. Ha pubblicato i romanzi La calligrafia come arte della guerra (Transeuropa 2010), Marialuce (Zona 2011) e  Il demone a Beslan (Mondadori 2011), il saggio Indagine sulle forme possibili (Aracne 2010) e l’ebook La patria non esiste (il Saggiatore 2011). Nel 2013 è uscito il racconto La ventinovesima ora, pubblicato nella collana Mondadori Xs. Successivamente ha pubblicato il reportage La buona morte (Manni 2014), a metà tra il saggio e l’autofiction. Nel 2015 è uscito il romanzo Il giardino delle mosche (Ponte alle Grazie, premio Selezione Campiello 2016). Ha pubblicato il saggio narrativo Il peso del legno (NN editore 2018). Con Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri 2019) ha vinto la 57° edizione del premio Campiello. Nel 2022 è uscito Il Continente bianco (Bollati Boringhieri).