Dal 25 giugno al 16 luglio Matteo B. Bianchi, scrittore, direttore e fondatore della rivista ‘tina, che dal 1996 pubblica racconti di autori esordienti e non, è “Lo scrittore che legge” su TYPEE. Per quattro settimane leggerà e commenterà i racconti della community, esaminando lingua e stile, smontando meccanismi narrativi e sottolineando l’importanza dell’inaspettato.
Il capitolo precedente de Lo scrittore che legge è qui.
Capitolo 2
> Petro nacque nel 1855 da una mucca, di GiacomoGalli
Petro nacque nel 1855 da una mucca, o almeno così si dice, e questa è più o meno l’unica cosa interessante della sua biografia. Fu trovato vicino a una vacca podolica che era stata gravida fino a poco tempo prima, ma di cui non fu mai rinvenuta alcuna traccia del vitello. Si era materializzato però questo bambino ricoperto di amnios e sangue e così tutti diedero per scontato che lui, Petro, fosse il figlio della mucca. Se ne discusse animatamente in paese, ma non per molto, dato che di lì a breve scoppiò la guerra di Crimea, ed essendo il paese Sebastopoli la gente cominciò a preoccuparsi di altro, principalmente sopravvivere.
Da una nascita così straordinaria ci si potrebbe aspettare un’infanzia eccezionale, o almeno qualche muggito precoce, ma in realtà il bimbo si mostrò sostanzialmente convenzionale, fatto salvo per la capacità di sbattere le orecchie e per una criniera di capelli fittissimi e quasi grigi, che non crebbero mai più lunghi di qualche centimetro. Fu preso in casa dalla famiglia di pastori a cui apparteneva la mucca e allevato distrattamente insieme agli altri figli. I genitori erano due persone semplici e sostanzialmente buone, anche se nel periodo successivo alla guerra, quando il cibo era scarso, si domandarono spesso se fosse il caso di macellare quel bimbo strano, data la sua genealogia. Va detto che lo pensarono anche per gli altri bambini, quelli nati da loro, ma Petro era di sicuro il primo della lista in caso si fosse deciso per quella strada. Si risparmiò di diventare uno stufato – cosa che purtroppo non si può dire per la madre -, ma dovette poi sopportare molti altri fastidi, come ad esempio la fame, la poliomielite e le attenzioni di uno zio che si credeva prete, che quando non gli metteva le mani nelle mutande, cercava di esorcizzarlo a sorpresa sbattendogli in testa una croce di legno. Sopravvisse alle carenze, alle infezioni e alla religiosità di paese, come fanno in tanti, ma appena poté prese le sue poche cose e andò in cerca di fortuna in giro per l’Europa. Da clochard entrò in contatto con una miriade di personaggi strani, molti dei quali si definivano “artisti”, e così ben presto venne anche a Petro l’idea di cimentarsi nel mondo dell’arte. Scoprì di avere un grande talento, soprattutto per la paesaggistica rupestre; le sue tele conferivano un senso di calma profonda e saggezza animale che raramente si poteva trovare nelle opere di altri suoi colleghi contemporanei. Dopo alcuni anni di vita per strada, i suoi lavori furono notati da un famoso pittore di Parigi, che gli diede un posto dove vivere e lo accolse nel suo atelier. Essendo però Petro figlio di nessuno – nel vero senso del temine -, non gli fu dato molto spazio, e l’unica mansione che gli fu affidata fu quella di treppiede. Si trovò così a passare tutte le sue giornate a reggere sulle spalle le tele del famoso artista, che aveva la malaugurata abitudine di dipingere nudo. Petro svolse lo stesso il lavoro con costanza e dedizione, non perché amasse il pene del suo capo che gli sbatteva in fronte dalla mattina alla sera, ma perché era stato cresciuto con quella diffusa menzogna secondo la quale, lavorando duro senza risparmiarsi, si può ottenere tanto dalla vita anche partendo dal basso. Resistette quindi molti anni, come treppiede di giorno e pittore di notte, ma non ottenne mai l’emancipazione tanto promessa e sperata. Finché un giorno, mentre era curvo a sostenere un’enorme tela del suo protettore ormai conclusa, si alzò di scatto, tirò un calcio degno della sua origine alle palle dell’artista e se ne uscì dalla bottega senza mai più tornarci. Morì pochi giorni dopo investito da una carrozza, e come si diceva all’inizio, la sua biografia non consiste in nulla di speciale oltre alla bizzarra modalità della sua nascita; questa è comunque molto di più rispetto a quello che possono vantare molte altre persone, ma a pensarci bene potrebbe anche essere solo una banale leggenda di paese.
> Birillo muore, di doktor
Giobbi sta col padre e la madre in un negozio di articoli per animali.
Sono entrati da poco e vogliono scegliere qualcosa per Birillo, che è il loro cane.
Birillo ha nove anni, uno più di Giobbi. Ha una di quelle strane malattie che vengono ai cani, non mi ricordo come si chiama.
Il veterinario ha spiegato che non c’è niente da fare.
Il padre e la madre di Giobbi hanno pensato a lungo se era il caso di informare Giobbi di come stanno le cose. Alla fine hanno deciso che forse era meglio prepararlo e così gli hanno detto che Birillo muore.
“Birillo è vecchio” gli ha detto il padre “e fra un poco si addormenta e va a riposarsi.”
“E perché?” ha chiesto Giobbi.
“Come nonna” ha detto la madre “ti ricordi nonna?”
“Che c’entra” dice Giobbi “nonna era vecchia. Birillo è quasi come me. Io otto lui nove. I bambini mica muoiono.”
Dice che il dottore ha preso “fischi per fiaschi”.
Giobbi ha sentito quella frase a scuola, da un compagno. Non sa esattamente cosa significa, ma ha capito che si deve dire ogni volta che qualcuno ha sbagliato. E quando la ripete gli viene da ridere.
“Fischi per fiaschi. Birillo mica muore. Fischi per fiaschi.”
E ride, prende Birillo sulle gambe e lo gratta dietro le orecchie.
“Birillo Birillo” dice.
Poi prende la palla di gomma e la tira sotto al tavolo. Birillo ci pensa un po’ prima di afferrarla con la bocca e riportargliela.
“Birillo Birillo” dice Giobbi.
Ma la notte si sveglia di continuo perché sogna un signore alto con la barba e gli occhi rossi che gli mette in bocca per forza una caramella amara. Allora si mette a piangere finché arriva la madre e dopo un po’ si riaddormenta. La madre torna a letto.
“Mi sa che era meglio aspettare un po” dice al marito.
Il giorno dopo Giobbi si sveglia alle sette e va a scuola. Sta attento a tutto e scrive nel quaderno.
Quand’è ricreazione si avvicina alla maestra.
“Maestra” dice.
La maestra è seduta sulla cattedra e sta correggendo i compiti.
“Sì?” dice senza alzare gli occhi “Che c’è, Giobbi”’
“Maestra” dice Giobbi “è vero che i bambini muoiono?”
La maestra fa un segno con la penna su un foglio.
Poi risponde:
“Certo che muoiono. Tutti muoiono. Però c’è tempo.”
“Quanto tempo?” chiede Giobbi.
La maestra si ferma con la penna in mano e lo guarda.
“Come? Ma perché, che è successo?”
Giobbi sta per un momento senza respirare.
Poi dice: “No, niente” e va dai compagni.
La maestra si rimette sui compiti, ma dopo un po’ lascia la penna sulla cattedra e si alza seria seria.
I bambini stano giocando, Giobbi si è nascosto sotto un banco e i compagni gli fanno tana.
“Fischi per fiaschi” dice Giobbi “fischi per fiaschi.”
Gli altri dicono “tana, tana.”
La maestra lo chiama.
“Giobbi, vieni un momento.”
“Fischi per fiaschi” dice Giobbi “fischi per fiaschi.”
E ride.
Il pomeriggio di quel giorno Giobbi gioca con Birillo e poi dice che vuole andare a comprargli un regalo.
Così insieme al padre e alla madre vanno in quel negozio di articoli per animali che sta vicino casa.
E’ un posto che a Giobbi piace molto, e insiste per portare Birillo.
“Lui si diverte” dice.
“Ma no” dice la madre “Birillo è meglio se resta a casa. Gli facciamo una sorpresa.”
Giobbi si convince ed esce tutto contento.
Dopo cinque minuti sono già nel negozio. Dentro ci sono un sacco di scaffali carichi di cose per cani: ossi di plastica, palline di gomma, biscotti, confezioni di mangime secco e grandi sacchi di pasta corta e riso soffiato.
Ci sono anche tanti collari, spazzole per il pelo, bottiglie di sapone liquido e delle cucce di plastica con una targhetta per il nome.
Giobbi si guarda attorno, non sa decidersi, però le cucce di plastica gli piacciono proprio tanto e comincia a insistere che ne vuole una.
“Quella rossa” dice “come Birillo.”
I genitori si guardano. Non è per il prezzo, ma perché è inutile.
Giobbi però insiste, sembra proprio innamorato di quella cuccia rossa. Alla fine la comprano. Il commesso la sistema in una grande scatola di cartone e se la portano via.
A casa trovano Birillo che se ne sta in cucina col muso sulle zampe.
Giobbi gli dà un bacio sul muso.
“Birillo” dice “guarda qui.”
Mettono la cuccia nel soggiorno, Birillo si alza traballando sulle gambe e li segue.
“Ti abbiamo comprato la casa” dice Giobbi e si mette ad aspettare che Birillo entri.
E sì, Birillo entra nella cuccia e si addormenta subito.
La mattina dopo, mentre Giobbi è a scuola, il padre prende Birillo e lo porta dal veterinario.
Quando Giobbi torna e vede la cuccia vuota la madre cerca di fargli una carezza.
“Sta bene” gli dice “sta con la nonna.”
Giobbi gira le spalle, va in camera sua e prova a giocare con gli aeroplanini.
A pranzo viene a tavola e mangia in silenzio.
E’ tutta una bugia, pensa, i bambini mica muoiono. Fischi per fiaschi.
Poi si alza e cerca di infilarsi lui nella cuccia vuota, ma è troppo piccola.
> Piero, di au.
Arrivava sempre quando avevamo quasi finito. Entrava in casa facendo un tale rumore, anche quando Tommasino dormiva già. Lasciava cadere il borsone davanti alla porta e svuotava il resto sul mobiletto all’ingresso, ma il più delle volte teneva in tasca una monetina per i piccoli (io allora avevo già sedici anni), la faceva sgusciare tra le dita davanti ai loro occhi prima che andassimo a letto, poi la faceva tintinnare sul tavolo e il più veloce se l’aggiudicava, Antonio quasi sempre. Percorreva il corridoio come di corsa, poi entrava in sala da pranzo. Salutava ad alta voce e sorrideva con tutti i denti, portava qualcosa alla mamma, che so, una piantina per il giardino o un pacchetto di uova fresche, e io già non parlavo più, ma ora guardavamo tutti dalla stessa parte, come se la stanza all’improvviso avesse una lampada in più, o meglio, una radiolina accesa a mezzanotte. La zia Dora si alzava e gli cedeva il posto a tavola, gli allungavamo un piatto tenuto in caldo e lei rimaneva a sedere sulla poltrona dietro di lui. «Mmm» faceva lui ad occhi chiusi, e commentava ogni cosa, con una polpetta di riso tiepida in un lato della bocca e un sorriso sull’altro lato. Antonio voleva sapere tutto. «Oggi tre. I primi due qui all’allevamento, ma poi mi hanno chiamato per un’urgenza a Montalbano. Era la prima volta e non ne voleva sapere di mettersi a spingere». A volte faceva cenno alla zia Dora di andare a sedersi sulla sua coscia, e quella si piazzava sul suo ginocchio proprio in punta, e si irrigidiva tutta quando lui le tamburellava le dita sulla schiena. «Ma poi l’abbiamo tirata fuori in tre, una puledra così grossa, l’abbiamo pesata, pensate, cinquantatré chili». «Come la zia» aggiungeva poi, senza smettere di sorridere e di masticare, e le palpava forte la coscia con tutta la mano. Era straordinariamente alto, e piuttosto magro nonostante l’appetito. La barba gli cresceva folta e morbida sulle guance, altre volte alla luce del sole le avevo scoperto dei riflessi rossastri e anche un punto più rado, sulla guancia destra, come per una vecchia cicatrice. Nei rari momenti in cui rimaneva assorto in silenzio ti veniva la voglia di affondarci una mano e cercargli con le dita le labbra sommerse, e poi aprirgli la bocca e costringerlo a continuare a parlare, masticare, sorridere. Quelle sere dopo il lavoro aveva un odore forte, di stalla e fieno naturalmente, ma anche di betadine e clorexidina, in casa nessuno diceva mai niente, lo sentivano anche loro, no? All’epoca era così che mi immaginavo la vita dei grandi, uno strato di disinfettante su ogni strato di colpa, qualche filo di barba per dimenticare ogni cicatrice. A me incantava pure il polso sottile e sinuoso con cui muoveva la forchetta mentre raccontava, come quello di un direttore d’orchestra o di una fata, e quell’altra mano con le cinque dita che sapevano esplorare il ventre di una giumenta come la coscia della zia.
Appena sei mesi dopo erano sposati, e dovevamo chiamarlo zio Piero, ma io preferivo non chiamarlo affatto. Mi chiedevo cosa avesse la zia Dora di così speciale. Nell’album delle foto del matrimonio, lui la superava in altezza e in allegria, in un paio di scatti si allungava a baciarla sul collo o dirle qualcosa in un orecchio, io col nastro adesivo ci attaccavo una mia foto ritagliata al posto della zia. I primi mesi vivevano ancora con noi, il tempo di sistemare le ultime cose nel nuovo appartamento, e ci sembrava che la nostra vita non fosse mai stata tanto chiassosa. Qualche volta, quando la mamma e la zia erano in giro per scegliere i mobili o le piante, veniva a prendermi lui da scuola col furgoncino delle visite. Un giorno ch’era in ritardo mi trovò sul muretto della scuola insieme a Mattia, il figlio dei vicini, avevamo una cuffietta ciascuno per ascoltare la musica, e Mattia mi stringeva la mano. «Sai come si fa?» mi chiese più tardi, sempre sorridendo, mentre parcheggiava il furgone sotto casa. No, volevo rispondere, ma senza che mi uscisse un filo di voce. Si allungò e si piegò su di me come nelle foto del matrimonio con la zia, l’odore forte di stalla e fieno e tutto il resto, il polso sottile gli servì per riordinarmi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, potevo sentire i fili della barba sulle guance, non così morbida, le sue labbra nascoste emersero per premere bene contro le mie. Io chiusi gli occhi, aprii appena la bocca per agganciare il suo labbro coi denti e spingere avanti decisa la lingua. «Sì che lo sai» disse lui all’improvviso, e scoppiò a ridere rumorosamente, come sempre, mentre già saltava giù dal furgone.