Siamo nel 1812: Napoleone ritorna trionfante dalla campagna di Russia. Altre vittorie seguiranno negli anni successivi: conquista l’Inghilterra, unendo finalmente tutta l’Europa; si muove poi verso l’Asia, portando le sue conquiste fino all’Estremo Oriente; la campagna d’Africa è un altro trionfo, al punto che l’America rinuncia a opporsi e con decisione unanime si unisce spontaneamente all’Impero napoleonico. E così il 4 luglio 1827 viene proclamata la monarchia universale. Napoleone muore qualche anno dopo, il 23 luglio del 1832, in un mondo ormai pacificato e felice, che gode dei frutti di uno sviluppo scientifico e tecnologico senza precedenti. Nessuno si chiede, ovviamente, se “fu vera gloria”, tuttavia c’è chi diffonde una “odiosa e infamante impostura”, con lo scopo di ingannare i posteri: raccontano che Napoleone sia stato sconfitto in Russia e da lì sarebbe andato incontro a un rapido declino che lo avrebbe portato a finire i suoi giorni in esilio su una remota isola dell’oceano Atlantico.
È questa, in estrema sintesi, la trama di Napoleone apocrifo. Storia della conquista del mondo e della monarchia universale (1812-1832), scritto da Louis Geoffroy e pubblicato nel 1841. Si tratta della prima narrazione ucronica d’ampio respiro. La menziona Emmanuel Carrère in Ucronia, breve saggio giovanile (parzialmente mutuato dalla sua tesi di laurea) pubblicato per la prima volta in Francia nel 1986 e da poco portato in Italia da Adelphi, nella traduzione di Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco.
Con “ucronia” si intende una narrazione fantastica che immagina cosa sarebbe potuto succedere se determinati eventi storici fossero andati diversamente da come effettivamente sono andati. Insomma, se Tommaso D’Aquino diceva che neppure Dio può cambiare il passato, l’ucronista scommette sulla possibilità di almeno ipotizzare un passato diverso, con cambiamenti inseriti in punti strategici tali da generare storie alternative. A questo genere, che oscilla tra lo spunto fantascientifico e il gioco intellettuale, il giovane Carrère dedica un libretto agile ed erudito, che approfitta della scarsità di studi sull’argomento per muoversi liberamente tra un campionario di testi accuratamente selezionati e individuarne i motivi ricorrenti, ma soprattutto per riflettere sugli interrogativi teorici e filosofici sollevati da questo tipo di narrazioni insieme così “naturali” (chi non è mai andato con la mente a rivangare il passato fantasticando su “cosa sarebbe successo se…”?) e così cervellotiche.
Il Napoleone apocrifo di Geoffroy è il punto di partenza, non solo perché inaugura il genere, ma anche perché rappresenta il grado zero dell’ucronia: una narrazione “trionfale” e “ingenua”, «tutta trattati-e-battaglie e talora noiosa come un manuale di storia». Una volta trasformata una sconfitta di Napoleone in una vittoria Geoffroy crea una strada lineare che lo porti là dove vuole arrivare: a Napoleone sul trono del mondo. Insomma, traccia una “linea continua e armoniosa” come non se ne trovano mai nella storia vera.
Operazione ben più complessa, che riesce meglio a mimare la “linea spezzata, capricciosa, ondivaga” delle vicende reali, è quella invece compiuta dal filosofo Charles Renouvier nel 1876, anno in cui esce il libro che dà il nome stesso al genere: Ucronia, che nei sottotitoli viene definito L’utopia nella storia e Schizzo storico apocrifo dello sviluppo della civiltà europea, non come è stato, ma come avrebbe potuto essere. L’obiettivo per Renouvier è immaginare le origini di una storia europea in cui il cristianesimo non diventa la religione di stato dell’impero romano, in modo tale che in Europa si sviluppi una civiltà che non conoscerà mai le guerre di religione, perché fondata sulla cultura filosofica e tollerante ellenico-latina. Il punto di partenza che Renouvier sceglie è un episodio relativamente oscuro della storia romana: il tentativo di usurpazione del trono imperiale da parte del generale Avidio Cassio nel 175 d. C. (nella storia reale Avidio finì assassinato dai suoi soldati, nell’ucronia viene adottato da Marco Aurelio, accedendo così legittimamente al potere e dando il via a nuove persecuzioni dei cristiani che devieranno il corso della storia). Rispetto allo schema semplicistico di Geoffroy, Renouvier descrive con maniacale zelo per i dettagli la sua storia alternativa – tanto da renderne assai ostica la lettura – ricostruendo in modo realistico il progredire delle vicende. E tuttavia entrambi i libri hanno un punto sostanziale in comune, qualcosa che, dunque, si rivela essere elemento fondamentale del genere e che Carrère formula così: «L’ucronia è una storia governata dal desiderio, il che significa che sa dove è diretta e che in realtà è mossa, più o meno consapevolmente, dagli auspici del suo autore».
Ogni ucronia nasce intorno a un desiderio che la realtà nega. Per Geoffroy, figlio di un ufficiale napoleonico caduto ad Austerlitz, è la vittoria totale di Napoleone. Per il filosofo Renouvier è un’Europa in cui la religione è sempre rimasta estranea al potere temporale, il quale viene piuttosto guidato dalla filosofia. Da qui il carattere intrinsecamente malinconico e frustrante dell’ucronia: una creazione che vive in opposizione a una realtà che si odia ma nei cui confronti si è impotenti, perché per cambiarla bisognerebbe modificare ciò che è per definizione irrevocabile, il passato.
Forse per questo di solito «l’ucronista non resiste alla tentazione della mise en abîme», cioè a inserire nella propria ucronia riferimenti alla storia reale come se fosse una finzione interna alla narrazione (ne abbiamo dato un esempio sopra riassumendo come in Napoleone apocrifo il vero esito delle campagne napoleoniche è riferito come diceria infamante). È come se la realtà aborrita continuasse a infestare la finzione, forse proprio perché tutta la finzione è costruita per combattere quella realtà e quindi non può fare a meno di averla sempre presente.
In questo senso è interessante la mossa compiuta da Philip Dick in quello che oggi è probabilmente il romanzo ucronico più famoso, L’uomo nell’alto castello (in Italia conosciuto anche con il titolo La svastica sul sole), che racconta una realtà la quale, a differenza degli esempi precedenti, non è affatto considerata desiderabile dall’autore: le forze dell’Asse hanno vinto la Seconda guerra mondiale, tutta l’Europa è sotto il dominio del Terzo Reich e gli Stati Uniti occidentali (in cui buona parte romanzo è ambientato) sono un protettorato giapponese. In questa realtà circola clandestinamente un libro intitolato La cavalletta non si alzerà che racconta di un mondo in cui gli Alleati hanno vinto la guerra. Ma, a differenza di quello che ci potremmo aspettare, questo romanzo nel romanzo non descrive esattamente il nostro mondo: man mano che veniamo a saperne di più scopriamo delle sostanziali differenze, ad esempio che Churchill nel 1960 è ancora primo ministro del Regno Unito. Si tratta, dunque, di un’altra ucronia, un’altra delle infinite possibilità di come le cose sarebbero potute andare. Infinite possibilità che, realizzano infine i protagonisti del romanzo, si equivalgono perché in ogni caso il destino individuale dell’uomo resta ugualmente segnato dalla sofferenza e dalla morte: vivere in un’altra realtà non ci salverebbe comunque. Se le ucronie di Geoffroy e di Renouvier suscitano malinconia (dipingono quello che per gli autori è un desiderio impossibile), quella di Dick ispira relativismo e indifferenza: non si tratta più di una storia sbagliata e di una giusta, ma di un pulviscolo di mondi che, reali o fittizi che siano, sono ugualmente vani.
Che farsene, allora, di un genere che può condurre solo alla malinconia o al nichilismo? E che può soltanto allontanare dalla realtà perché o la combatte inutilmente o ne decreta l’insignificanza? Anche Carrère verso la fine del suo saggio se lo chiede tra le righe. Del resto dopo aver speso molte pagine intorno alle complicate questioni teoriche poste dalle ucronie (dilemmi sulla causalità storica, sul determinismo e il libero arbitrio; elucubrazioni su quanto può essere grande l’impatto di un singolo cambiamento e su quanto lo scrittore può o deve mantenere invariato) arriva implicitamente a riconoscere la sostanziale oziosità di tali questioni, che vengono sempre e comunque risolte dal puro arbitrio dell’ucronista. In questo senso l’operazione ingenua e semplicistica di Geoffroy vale quanto la raffinatezza e la scrupolosità maniacale delle invenzioni di Renouvier.
Ed è così che verso la conclusione lo studio sulle ucronie si trasforma in un libro contro le ucronie, che si scoprono essere un gioco futile e triste, peraltro paradigmatico di un’idea “essenzialmente triste della letteratura”. Un’idea a cui, ci dice Carrère nelle ultime pagine, intende “voltare le spalle”. Siamo forse al punto di maggiore interesse per chi voglia leggere questo libretto nell’ottica di inserirlo nel quadro dell’opera complessiva dello scrittore francese. Il lettore non ci troverà tanto del Carrère maturo (fatta eccezione per qualche occasionale “rottura della quarta parete”, secondo movimenti effettivamente molto carreriani, sebbene solo accennati), tuttavia è molto significativo che agli inizi della carriera di un autore che diventerà noto come maestro della non-fiction ci sia un libro che termina con il rifiuto di un genere (e di un relativo atteggiamento letterario) tutto finalizzato a contrastare (o a vanificare) la realtà. Come fosse la dichiarazione programmatica di chi invece vuole usare la letteratura per ricercarla, la realtà. Di chi intende adoperare l’intelligenza e gli strumenti della scrittura per penetrare quella realtà, per poterne dire qualcosa.
«Bisognerebbe allontanarsi dall’ucronia, dagli universi paralleli, dal rimpianto di cui sono pervasi, e avventurarsi nel territorio della realtà», scrive nell’ultima pagina, a mo’ di morale conclusiva, aggiungendo: «È difficile ma mi piacerebbe provarci». Ed è questo forse l’atto di nascita dello scrittore Emmanuel Carrère.