Vai al contenuto

L’incipit vincitore della borsa di studio “Cantiere romanzo”

    Immagine Essential Grid

    “Gli acrobati sono morti” di Jacopo Misiti è il testo vincitore della borsa di studio per il laboratorio “Cantiere romanzo” con Andrea Tarabbia, in partenza il 15 novembre 2025.
    Narrato in prima persona, l’incipit mescola elementi drammatici (l’omicidio, un possibile incidente aereo) con l’indugio descrittivo e psicologico (il volo in mongolfiera), creando un’immediata complicità tra il protagonista e i lettori.

    > La nuova classe di Cantiere romanzo con Enzo Fileno Carabba è in programma dal prossimo 22 novembre: info e iscrizioni sulla pagina del corso.

    Buona lettura!

    ***

    “Allora, Ontario, oggi come sta? Cade sempre dagli alberi mentre dorme?”

    ***
    La prima volta che incontrai il dottor Cerrendo – il dottor Augusto Cerrendo – fu per motivazioni non del tutto chiare. In realtà non sapevo con certezza perché mi trovassi nel suo studio. Volevo parlargli un po’ di me, è vero, ma non solo; volevo parlargli di Miranda perché Miranda mi aveva parlato di lui; volevo parlargli e basta, perché solo così avrei capito qualcosa in più di me, di Miranda e pure di lui (soprattutto di lui).
    In ogni caso, la prima volta non ci dicemmo quasi niente. La seconda volta non ci vedemmo neppure, colpa di un disguido, un impegno inatteso del dottore. La terza volta è questa.
    Dottore, mi rivolgo a lei adesso, mi ascolti bene: le avevo promesso che ci avrei pensato su e in effetti ci ho pensato. Il fatto è che nel frattempo è successa una cosa, una cosa che sovverte in modo irreparabile e definitivo l’ordine delle cose che le devo dire.
    Sto commettendo un omicidio, se n’è accorto? 
    È la prima persona a cui lo dico, suppongo anche l’ultima. So che non chiamerà la polizia, non vorrebbe e comunque non potrebbe.
    Adesso mi ascolti solo per pochi istanti. Si rilassi.

    ***

    Quando ero bambino avevo sempre la testa rivolta all’insù. Guardavo gli aerei, qualche volta le mongolfiere. Ci saliremo prima o poi, mi aveva detto mio padre una volta, la voce senza tonalità, lo sguardo triste e assente di un genitore già dissipato. Io non gli rispondevo allora e non l’avrei fatto poi.
    Non era comune svegliarsi alle prime luci del mattino e osservare dalla finestra più di venti, trenta palloni aerostatici che si levavano da terra. Succedeva una volta l’anno, all’inizio di febbraio. Aspettavo quel momento senza aspettarlo del tutto: me ne scordavo completamente, fino a quando non mi accorgevo degli slogan affissi sui muri del paese, un borgo fantasma in provincia di Bologna incastonato tra la pianura e i colli. E allora la mia sorpresa si trasformava in trepidazione, ma non avevo il coraggio di salirci lassù.

    Successe comunque, un giorno. Avevo sette anni.
    La cosa un po’ mi spaventava perché me l’aveva anticipato mia madre, la sera prima davanti alla televisione, mentre guardavamo un approfondimento sull’11 settembre. 

    “Domani c’è il festival delle mongolfiere. Ti porto su così vedi casa nostra dall’alto.”
    “Non so se me la sento.”
    “Se non te la senti, me lo dici e non ci saliamo.”
    “Non lo so… andiamo tutti? Papà non viene, vero?”
    “Siamo solo io e te. Papà resta a casa con Carlo.”

    Quella notte non dormii, sognai di essere un pilota e di far schiantare un aereo di linea contro un grattacielo, ma poi mia madre venne a salvarmi in camera, inconsapevole dei miei incubi, mi disse è ora di andare e allora andammo, mi disse di fare in fretta e allora facemmo in fretta, il viaggio verso l’area di decollo fu molto rapido e arrivammo appena in tempo.
    Ho impressi nella mente i colori di quel momento: il rosa dell’aurora che sembrava potesse inghiottirci e a un certo punto cancellarci, mentre la mongolfiera si levava in aria; il viso cereo di mia madre che mi sorrideva e mi cingeva a sé con la sua mano scarna e possente; la luce pallida e ocra del mattino interrotta dal fuoco dei primi raggi del sole; San Luca; le due torri; la voce di mia madre e quella del pilota, un omone molto alto (o io ero molto basso?); guarda laggiù; osserva quel punto; guarda le case; lì c’è casa nostra. 
    Guardai giù e vidi casa nostra, una forma a due dimensioni, un rettangolo disperso in una superficie fatta di altri rettangoli e qualche trapezio. Bologna era un poligono rosso scuro in lontananza. Sotto di noi prevaleva il verde dei campi, dentro di me lo smarrimento di essere in aria al largo di un paese satellite di qualche città del mondo. In questo istante potremmo scappare, pensai, potremmo scappare da casa nostra, da mio padre che neanche se ne accorgerebbe o perlomeno non subito, potremmo scappare da quel parassita di Carlo che ha sempre bisogno di aiuto e fa preoccupare mia madre. Lui deve restare giù. Lui e mio padre. 
    Ogni volta che rivivo quel giorno, penso sempre a una sola cosa: non ho mai avuto paura su quella mongolfiera, nemmeno per un istante.

    ***

    C’è uno studio pubblicato da due psicologi su una nota rivista di cui non ricordo il nome. Lo studio si chiama “Visual Cliff” e consiste nel testare il senso del vuoto nei neonati. Nella pratica, si prende un campione di bimbi appena svezzati, li si mette sopra questo tavolo che sembra un lettino d’obitorio e si cerca di catturare la loro attenzione attraverso stimoli che potrebbero gradire, per esempio un gioco o un ciuccio. Eccoli allora che gattonano felici in direzione dello stimolo, ma poi si imbattono in una superficie in plexiglass trasparente (il Visual Cliff!), scorgono il pavimento attraverso di essa e questo li manda in confusione, a quel punto tastano la superficie in plexiglass credendo di toccare il vuoto. I ricercatori, che sono dei nazisti pieni di idee di merda, si aspettano che la paura del vuoto prevalga. La realtà è che la maggior parte dei bambini attraversa la superficie in plexiglass come se nulla fosse. Spiace allora constatare quanto il Visual Cliff non dimostri un cazzo: la paura del vuoto non è innata, altrimenti tutti quei neonati sarebbero già degli acrobati. 

    Ultimamente ripenso al Visual Cliff, a come lo abbiamo interpretato e come lo abbiamo frainteso. Una volta, durante una conferenza a Firenze, in una sala piena di gente che faceva il mio stesso lavoro, arrivò sul palco questo vecchio professore della Sapienza, uno psicologo sociale, e ci disse che la psicologia era peggio della religione perché si vantava in modo pretestuoso di essere una scienza basata sui dati, di voler capire l’uomo senza giudicarlo, di comprendere il comportamento umano senza ricorrere all’etica. Ci fece l’esempio del Visual Cliff, non c’entrava nulla ma ce lo fece, a sua detta era un esperimento fallito, come a ribadire che avesse ragione, vedete, questo prova tutto, ci disse questo. Noi ascoltammo senza commentare. Eravamo tutti architetti, non so se lo sapesse. Fu comunque interessante. Ricordo il suo intervento più del mio. Penso che abbia condizionato la mia carriera. 

    ***

    Mi chiamo Ontario Vuong e sono un architetto. Ho un fratello di nome Carlo che vorrei non fosse mai nato e una madre fuori di testa ma ancora viva. Ho vissuto in Italia e ora vivo in Spagna, occupando gli spazi ben distribuiti di una casa al pianterreno, senza balconi e senza terrazze. La casa l’ho progettata io. Le case attorno alla mia sono come la mia, cioè piatte. Ho progettato anche quelle.

    ***

    A questo punto bisognerebbe parlare di quello che mi capitò tre anni dopo l’episodio della mongolfiera. Ma per parlarne dovrei soffermarmi prima su qualcosa che stava interessando il mondo intero, era un argomento recente e un po’ delicato, che generava dibattiti e non trovava punti di convergenza.

    Lo avevo sentito a scuola e un po’ se ne parlava a casa: sempre meno gente volava in aereo. Le motivazioni, allora, mi apparivano insondabili e devo confessare che tuttora sono confuso, il quadro d’insieme non mi torna. Fatto sta che dopo l’11 settembre, sebbene la maggior parte dei Paesi avesse rafforzato i protocolli di sicurezza negli aeroporti… qualcosa si era guastato definitivamente. C’erano stati nel corso degli anni un po’ di incidenti e diversi ammaraggi, ma senza particolari anomalie, forse qualcuno in più rispetto alla media, dico forse, ma molta di quella percezione era fasulla (vedevo solo immagini di incidenti aerei in televisione, com’era possibile?). Le abitudini vacanziere di italiani, francesi, inglesi erano cambiate, improntate più su un turismo locale e meno all’estero. Due compagnie low cost erano fallite e lo stesso stava per succedere alla compagnia di bandiera italiana. Tutto questo non mi interessava o così credevo. Non avevo mai viaggiato in aereo, ma lo avevo fatto in mongolfiera. Avevo dieci anni e tra un servizio di un incidente e l’altro guardavo un anime dal titolo Capitan Cronex, che raccontava le imprese di un aviatore di dirigibili che viaggiava nel tempo. La notte mi addormentavo e fantasticavo di essere Capitan Cronex, quel pensiero mi rilassava e un po’ mi consolava.

    E poi ci fu quel viaggio in aereo.

    Sofia Zanderighi

      Registrati