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Sei storie nere: “Il più piccolo dei tre” di Raffaella Di Palma

    Le storie crime non nascono dal nulla. Alla loro origine c’è sempre l’osservazione della realtà, lo studio della cronaca nera, lo sforzo creativo di riplasmare fatti reali per trasformarli in opere capaci di riflettere sui temi del bene, del male, della giustizia. Nel laboratorio Storie nere. 10 lezioni sul true crime, Luca Crovi ha analizzato alcune opere di autori che hanno attinto alla realtà per dare spessore e fascino alle proprie trame, accanto a esempi di cronaca nera che hanno assimilato le forme, i modi e le atmosfere della narrativa d’autore.

    Alle allieve e agli allievi del corso è stato chiesto di ispirarsi a un fatto di cronaca per scrivere un racconto. La seconda storia nera che Luca Crovi presenta su BellevilleNews è Il più piccolo dei tre di Raffaella Di Palma:

    Ci sono posti meravigliosi dove immaginarsi in vacanza. Uno di questi potrebbe essere Cancellara, un piccolo borgo del sud Italia circondato da un fitto bosco. Potrebbe. Perché a Cancellara non tutti sono benvenuti, e avvicinarsi alle persone sbagliate vuol andare in cerca di rogne. Quella che state per ascoltare è la confessione di un delitto che ha segnato per sempre la vita di una famiglia e di un paese.

    ***

    Uno.

    È una giornata primaverile, fredda come può esserlo in un paesino di collina. Sono le 10 del mattino del 15 aprile 1999.

    Vito è inginocchiato davanti alla lapide di sua madre, nel cimitero di Cancellara, un piccolo borgo nel sud Italia, arroccato a 700 metri sul mare e protetto sul lato occidentale dal Bosco Grande, una riserva naturale di acero campestre e frassino, addolcita nel sottobosco da rovi e biancospini.

    Oggi il bosco è meta di escursionisti, archeologi e guardie forestali, alla fine del secolo scorso era il rifugio dei briganti e fino a non molti anni fa la sua fitta vegetazione offriva il giusto riparo ad assassini, ladri e coppiette molto coraggiose o semplicemente ignare di quello che poteva succedere “là dentro”.

    A ottobre 1991 il censimento registrava a Cancellara 1.715 abitanti, stranieri compresi. Di lì a un paio di mesi ne sarebbero rimasti 1.712. In quei due mesi morirono una coppia di vecchietti, di morte naturale, e Antonio Iacovella, vittima di omicidio.

    Iacovella era lo straniero del paese. Originario di Chieti, nel 1985, a trentacinque anni e con moglie e due figli piccoli, aveva deciso di prendere in gestione un laboratorio di sartoria ereditato dalla moglie dopo la morte di una lontana parente che a Cancellara era “straniera” lei stessa. Gli affari andarono bene da subito, in paese non c’erano negozi di abbigliamento e tutti si facevano fare gli abiti su misura; per presentarsi al cospetto del Signore, ogni domenica mattina, bisognava essere degni soprattutto nella forma.

    Nel giro di pochi anni, Antonio e sua moglie aprirono la seconda sartoria e da piccoli imprenditori illuminati davano lavoro a molte ragazze che altrimenti sarebbero rimaste in casa a far da mangiare agli uomini della famiglia. Antonio gestiva il laboratorio che dava sulla stradina laterale della piazza e sua moglie quello nuovo, affacciato sul belvedere del paese.

    Vera aveva diciassette anni quando iniziò a lavorare di pomeriggio, insieme a sua madre, nel laboratorio di Antonio. La mattina frequentava il liceo di un paese vicino e subito dopo pranzo, il tempo di lavarsi i denti, correva alla sartoria. Alle sue compagne di classe non aveva detto del lavoro, lo sapeva solo la sua migliore amica. Per il resto della classe Vera era sempre stata la ragazzona alta e riccia che mangiava patatine fritte a colazione e che si sedeva ai primi posti del pullman perché non voleva rischiare di finire seduta vicino a un ragazzo che l’avrebbe infastidita. Nessuna compagna di classe avrebbe mai potuto immaginare quello che sarebbe successo.

    Di fianco alla sartoria, in piazza, c’erano il panettiere (al paese si dice “il forno”), la farmacia e il bar. Al bar, ogni pomeriggio alle due, i contadini giovani e vecchi si incontravano per fare il giro della birra e starsene lontani dalle mogli. Ogni partita, a scopa, briscola o tresette, era accompagnata da quattro bicchierini e due Peroni; beveva chi vinceva o chi perdeva ma era vittima del gioco diabolico dei compagni per farlo ubriacare.

    Ogni volta che Vera passava da quel bar, tutti si giravano a guardarla. Alta, con dei bellissimi capelli ricci, biondi, la vita sottile e un seno generoso, sembrava già una donna fatta e finita, nonostante le sue guance diventassero rosse di vergogna ogni volta che qualcuno la notava. La panettiera, che la vedeva ancora bambina, chiudeva per la pausa pomeridiana proprio in quel momento e la salutava lasciandole un sacchetto con dentro una focaccina per la merenda.

    Sua madre la raggiungeva verso le tre, dopo aver finito di lavare i piatti e preparare la cena per il marito e i tre figli maschi, Vito, Giovanni e Vincenzo.

    Vito era il più piccolo dei tre e più grande di Vera di due anni, ma la chiamava la sua “fidanzata”. Era ossessionato da sua sorella, lei gli apparteneva, per questo non aveva ancora frequentato seriamente nessuna ragazza. Giovanni e Vincenzo erano più grandi di cinque e sette anni, la vedevano piccola, ma anche loro sapevano che Vera era una “cosa loro”. Il padre non la vedeva affatto, era solo una femmina che al massimo avrebbe aiutato sua moglie in casa, ma non serviva a granché.

    Dopo qualche mese di lavoro iniziarono i pettegolezzi, quelli pesanti. Una ragazza che parlava con un uomo sposato in piazza e addirittura si faceva accompagnare a casa in macchina, era un argomento che riempiva le giornate del paese intero. Vera era diventata il bersaglio di apprezzamenti volgari e inviti equivoci da parte di tutti i maschi, e di invidia mascherata da vergogna di tutte le femmine, panettiera compresa.

    Gli anni 90 in un minuscolo paesino del sud, perso nelle colline, destinato a svuotarsi di tutte le sue anime, erano gli anni in cui la musica irriverente e spensierata di quel periodo faceva fatica ad arrivare, le letture si limitavano ai libri di scuola per quei pochi ragazzi che la frequentavano, e lavorare la terra e pascolare le pecore erano le uniche attività pensabili.

    Il fatto era semplicemente questo: Vera e Antonio si erano innamorati e ogni sabato pomeriggio, soli in laboratorio, facevano l’amore.

    Sabato 9 novembre, la moglie di Antonio si accorge di aver finito il filo blu e va al laboratorio del marito per prenderne una rocchetta, sorprendendoli insieme.

    Quello che successe dopo fu la naturale sequenza degli effetti di quella scoperta. Vera e sua madre furono allontanate dal lavoro, Antonio chiuse il laboratorio, la moglie lo costrinse a stare in casa a badare ai figli, il paese passò settimane a immaginare quella scena, i maschi sognando di trovarsi tra le mani il corpo vivo di Vera e le femmine sperando segretamente di conoscere una passione come quella, i fratelli di Vera iniziarono a pensare a come ripulire l’offesa.

    Due.

    «Io lo so. So cosa abbiamo fatto quel 4 dicembre, Vincenzo, Giovanni, Vera e io. I TUOI figli. Ora che riposi per sempre e nessuna angoscia ti può più toccare, posso dirtelo».

    La fotografia a colori della madre occupa tutto lo spazio della lapide, sotto una frase per immortalare la speranza di ritrovarsi insieme in un posto migliore: Ovunque tu sarai, noi saremo, e una data: 15 aprile 1995.

    Vito accarezza i contorni del viso sulla foto e poi passa le sue mani da pastore su ogni singola lettera di quella frase. Cerca le parole giuste, prende tempo. Non sta parlando con una pietra inanimata, sta parlando allo sguardo di sua madre, uno sguardo che conosce la verità ma che vuole sentirla dalla voce di suo figlio.

    A distanza di anni dalla sua morte si sente ancora in soggezione, sa che non può mentire.

    «Ti ricordi cosa dicevano di Vera al bar? Quei maiali l’avevano già capito, gli è bastato vederla parlare con Antonio fuori dalla sartoria per accorgersi di tutto. Dicevano che lui la portava in macchina nelle campagne e se la scopava. Io non ci credevo, non ci volevo credere, ti giuro mamma. Vincenzo e Giovanni invece ci credevano. Hanno iniziato a seguirla, ma lei se ne era accorta, è sempre stata sveglia, non la fregavi sai? Ti guardava con quegli occhi e ti faceva capire che si era accorta di tutto, senza dirti una parola. Adesso si è calmata, sta sempre a casa con noi, non esce più, fa i servizi, ci prepara anche la colazione. È diventata brava in cucina. Non doveva andare così, ma almeno ora è al sicuro».

    Quello è stato il giorno più bello della mia vita e lo sai perché? Perché finalmente l’abbiamo liberata da quella trappola. La mia Vera poteva tornare libera di stare con me. Anche lei ha collaborato, dovevi vedere com’era agitata mentre lo chiamava al telefono per dargli appuntamento al bosco. Prima piangeva e poi rideva. Era agitata anche perché erano settimane che non si sentivano e non si vedevano, non sapeva se lui veniva all’appuntamento. Ma io lo sapevo, veniva eccome, se solo sentiva per lei una briciola di quello che sentivo io veniva eccome!

    Quando siamo arrivati al bosco noi tre ci siamo nascosti e quando lui è arrivato è corso subito a baciarla. La baciava, la toccava, diceva amore mio, amore mio, amore mio. Solo così, sembrava che non aveva altre parole! Madonna che nervi! Non lo volevo più sentire! Sono andato alle spalle e gli ho dato una bastonata sulla testa, è caduto subito! Che spettacolo! Bom! Un colpo solo e l’ho steso. Poi Vincenzo e Giovanni hanno iniziato a dargli calci allo stomaco, alla testa, l’hanno preso per i piedi, gli hanno allargato le gambe e l’hanno preso a calci nei coglioni! Vera rideva e piangeva, dovevi vedere com’era felice! Io continuavo a colpirlo con il bastone, ho usato quello di nonno, di legno duro, te lo ricordi? Me l’aveva regalato per pascolare le pecore, quello funziona! Ogni colpo faceva un rumore bellissimo, come quando da piccolo ho fatto cadere il vaso di vetro che ti avevano regalato al matrimonio e tu mi avevi lanciato la ciabatta in testa! Ti ricordi?

    L’ho colpito anche sui denti, mi sembrava che rideva e invece era solo una smorfia di dolore che gli faceva allargare la bocca… e poi gli ho dato una bastonata in mezzo agli occhi, non sopportavo che mi fissava.

    Non so per quanto tempo è andata avanti, però si stava facendo buio e dovevamo tornare a casa, altrimenti tu ti arrabbiavi perché non c’eravamo per cena. Solo allora ci siamo accorti che era morto.

    Io ho portato Vera con me e Giovanni e Vincenzo l’hanno preso e l’hanno portato alla terra rossa per buttarlo nella cava. Ecco perché quella sera non abbiamo mangiato. Eravamo troppo stanchi».

    Redazione Belleville