«Mia Violet, è stato proprio un Natale assurdo…»
Così Virginia Stephen (non ancora Woolf) scrive nell’incipit della lettera indirizzata a Violet Dickinson il 25 dicembre 1906. Virginia e Violet sono da tempo care amiche: è stata la Dickinson a introdurre Virginia negli ambienti letterari londinesi e a prendersi cura di lei quando le condizioni di salute della giovane scrittrice si sono aggravate, nell’estate del 1904. Le lettere di Virginia a Violet, in questo periodo, sono quasi quotidiane e molto affettuose. In questo caso le scrive da Lane End, una casa nello Hampshire in stile Arts and Crafts affittata insieme al fratello minore, Adrian, per le vacanze invernali.
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A Violet Dickinson
[25 dicembre 1906]
[Lane End] Bank, Lyndhurst [Hampsire]
Mia Violet,
è stato proprio un Natale assurdo. Pensa: mi ha svegliata un raggio di sole che danzava sul mio naso, ho imprecato e mi sono svegliata, e dalla finestra ho visto il cielo tutto blu e i campi tutti bianchi, e uccellini e poveri cottage, e fumo azzurro, e alberi immersi nella quiete: se fossi cristiana, avrei reso omaggio al lieto giorno. Invece sono andata a tirare Adrian giù dal letto e insieme siamo scesi al piano di sotto, dalle nostre lettere e dai nostri pacchetti. Negli intervalli tra una mangiata di tacchino e l’altra abbiamo scarpinato nel bosco, che sembra dipinto: tutto tinte pure e taglienti, e linee delicate, e netti spazi bianchi. Se Clive fosse qui a riassumere la scena, come al suo solito, la definirebbe “ovvia”, suppongo; a ogni modo è un bel vantaggio aver sottomano qualcuno sempre pronto a dar voce al tuo cinismo.
Ci siamo persi nella maniera più completa, o piuttosto – dal momento che Adrian non ammetterebbe mai di potersi perdere – la strada ci ha condotto nella direzione sbagliata, e abbiamo camminato a lungo, fino al crepuscolo. E poi ci siam seduti e abbiamo letto. Al momento sto leggendo un libro di Renan intitolato Ricordi d’infanzia: parola mia, quanto è bello – come il tintinnio di campane d’argento; e quando a scrivere è la vecchia madre contadina l’effetto non cambia, ragion per cui penso sia una virtù peculiare della lingua francese, quella di sapersi sottomettere alla prosa, mentre l’inglese si arriccia e si annoda e si frantuma in brevi spasmi di rabbia. In più sto leggendo la mia cara Christina Rossetti, con la sua voce gentile, gli occhi sporgenti e la sua fede mansueta: ma nonostante tutto canta come un pettirosso e a volte come un usignolo – la più grande tra le nostre poetesse inglesi.
Lei non pensa, io credo; solo rovescia la testa all’indietro e fa uscire la sua canzone, e non ascolta mai, e anzi ne fa subito un’altra. Oh, voi Cristiani, ne avete di cose di cui rispondere! È morta circondata da tutti gli orrori della Chiesa, povera donna. E poi sto leggendo il tuo Keats, con lo stesso piacere che si proverebbe a maneggiare delle grandi gemme luminose. Balzo in piedi e grido in preda all’estasi, e i miei occhi traboccano di un tale piacere che devo posare il libro e lasciar vagare lo sguardo fuori dalla finestra. È un’edizione bellissima.
La tua
AVS
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