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Non siamo angeli. Conversando con Patrick Deville

    Patrick Deville, classe 1957, è uno dei più importanti scrittori francesi viventi, ormai riconosciuto come tale in patria, ma ancora poco noto in Italia. Dopo aver pubblicato per le Éditions de Minuit quattro romanzi brevi di fattura sperimentale, ha intrapreso, per le Éditions du Seuil, un monumentale ciclo narrativo in dodici volumi: Abracadabra. Si tratta, secondo la sua definizione, di romans sans fiction. Ciascuno di questi libri ha come ambientazione geografica una diversa regione del mondo – regioni in cui Deville, scrittore poco incline a parlare di cose che non conosce in profondità, soggiorna per lunghi periodi – e come ambientazione storica l’epoca che va dal 1860 al nostro presente, un’ambientazione ricostruita, per quanto riguarda il passato, da un titanico lavoro su pubblicazioni di carattere storiografico e letterario. Nel cuore di ogni volume pulsano le vite di scrittori, artisti, scienziati, esploratori, rivoluzionari e gente comune; uomini e donne dal destino spesso tragico, così come tragico, nel senso proprio del termine, è lo sguardo che Deville rivolge alle loro esistenze. La sua opera, coltivata nell’ombra, al riparo dalla chiacchiera che infesta il mondo culturale odierno, è al tempo stesso un modello di ambizione letteraria e di discrezione umana. 
    Dopo Kampuchea nel 2022, le edizioni nottetempo hanno da poco pubblicato Viva. Ho tradotto entrambi i romanzi ma non avevo ancora avuto l’occasione di conoscerne di persona l’autore. Per la prima volta lo incontro a Parigi in un rumoroso bistrot sotto casa sua. Riservato ma gentilissimo, spesso pronto a una rauca risata da fumatore, Monsieur Patrick, come lo chiama con amabilità il cameriere, parla a voce molto bassa, facendomi temere per il buon esito della registrazione del nostro scambio. Di cui invece rimarrà consegnata, seppur flebilmente, ogni singola parola. 

    F.D.: Com’è nato il progetto di Abracadabra?A che punto si trova oggi nella redazione di questo ciclo narrativo? 

    P.D.: È un progetto che ho intrapreso più di venticinque anni fa. Dall’inizio l’idea è stata di scrivere dodici romanzi senza finzione facendo due volte il giro del mondo, la prima in un senso, la seconda nell’altro: il primo giro del mondo, che corrisponde ai primi sei volumi, va dall’ovest all’est, il secondo, che comprende gli altri sei, va in direzione contraria. Ad oggi, nove dei dodici libri sono stati pubblicati. Il più recente è Samsara, ambientato in India. Ora sto lavorando a un libro che si svolge nella penisola arabica. L’undicesimo si svolgerà in Italia e nel Mediterraneo, l’ultimo in altri paesi dell’Europa continentale e in Svizzera. Per quanto riguarda l’arco cronologico, che va dal 1860 ai giorni nostri, è un’epoca che comincia all’insegna della seconda rivoluzione industriale, dell’espansione del colonialismo, della nascita di Stati nazionali come l’Italia e la Germania. Fenomeni storici da cui forse non siamo ancora del tutto usciti. 

    F.D.: A questo proposito: in un’atmosfera culturale segnata dalle correnti di pensiero dette decoloniali, la sua opera rischia di essere interpretata come un prodotto letterario omologo al fenomeno stesso della colonizzazione, mentre ne costituisce una complessa riscrittura critica. È quanto ho potuto constatare leggendo una recensione a Kampuchea improvvisata da un mediocre giornalista prestato alla cronaca letteraria [Carlo Pizzati, n.d.r.]. Questa recensione, pubblicata sull’inserto culturale di Repubblica, si limitava a blandire un certo pubblico benpensante con luoghi comuni sull’uomo francese bianco di oltre cinquant’anni che si permette di parlare di un paese a suo tempo colonizzato dalla Francia (senza tenere conto, fra l’altro, del suo impegno come direttore della Maison des écrivains étrangers et des traducteurs per far tradurre e conoscere una letteratura cambogiana totalmente ignorata all’estero). È consapevole di questo rischio interpretativo in cui incorre la sua opera?

    P.D.: Mi fa piacere poter rispondere a questa domanda. I miei libri sono contro ogni semplificazione, sono davvero un tentativo di risituare le cose nella loro complessità storica, ciò che non sempre viene praticato dai fautori delle teorie decoloniali, i quali spesso ignorano la dimensione del dettaglio nella Storia. In Kampuchea, fra l’altro, è proprio quello che ho cercato di fare con Pol Pot e coi khmer rossi. Ciò che m’interessa in un personaggio come Pol Pot è: come si diventa Pol Pot? Com’è possibile che un brillante studente appassionato di letteratura diventi un dittatore sanguinario? Al di là del suo singolo caso, credo che quanto di peggio si possa fare rispetto alla Storia sia darne una lettura anacronistica, che non tenga conto della situazione precisa di un individuo in un preciso momento storico. È facile giudicare gli errori di personaggi del passato col senno di poi. Al tempo stesso, il mio punto di vista quando scrivo non può che essere quello di un uomo francese dell’inizio del ventunesimo secolo, non potrebbe essere altrimenti. La celebre frase di Fénelon, secondo cui «il bravo storico non appartiene a nessuna epoca e nessun paese», non ha molto senso, non siamo angeli.       

    F.D.: Sempre per restare nella temperie culturale di oggi, ma venendo a Viva: è un libro in cui i personaggi femminili hanno un ruolo molto importante. In particolare quelli di Frida Kahlo, Tina Modotti e Alfonsina Storni. Qual è il filo che unisce questi personaggi?  

    P.D.: Mi hanno a volte rimproverato di scrivere troppi libri sugli uomini. Certo, quando scrivo Equatoria che è un libro sulle esplorazioni europee in Africa nell’Ottocento, i personaggi principali sono effettivamente degli uomini. In Viva non è così, ho avuto l’occasione di raccontare le storie di vari personaggi femminili. Il loro punto in comune è che sono donne davvero libere, siamo negli anni ’20-’30 e queste donne ammirevolmente libere rifiutano di vivere all’ombra degli uomini. Due di loro, la fotografa Tina Modotti e la poetessa Alfonsina Storni, provenivano dagli ambienti dell’emigrazione italiana di fine Ottocento. La stessa Frida Kahlo era in parte di origini straniere, suo padre era tedesco. Per l’utilizzo che ha fatto del folklore messicano, oggi la si potrebbe quasi accusare di appropriazione culturale… (ride)

    F.D.: Parlando anche degli altri personaggi, qual è la ragione per cui tanti artisti, scrittori, rivoluzionari vanno a vivere in Messico in quel periodo? 

    P.D.: C’è stata la congiunzione di due diversi tipi di fattori: dei fattori esterni e dei fattori interni. I fattori esterni sono quelli legati alla presenza del fascismo in Italia, dello stalinismo in Unione Sovietica, del nazismo in Germania e del franchismo in Spagna. Questo contesto internazionale fa sì che molti artisti e intellettuali abbiano bisogno di partire, alcuni per sopravvivere, altri perché non sopportano più la situazione del loro paese. I fattori interni sono principalmente due. Da un lato, l’attrazione generata dall’ambiente artistico e intellettuale messicano, che all’epoca è già molto conosciuto in Europa, basti pensare ai pittori muralisti, come Diego Rivera. Dall’altro, il fatto che le autorità politiche messicane aprono le porte all’immigrazione, rilasciano i permessi di soggiorno con grande facilità. Il problema è che a volte si ricreeranno in Messico gli stessi conflitti che avevano avuto luogo altrove, per esempio tra franchisti e antifranchisti, o tra stalinisti e trozkisti. Il destino tragico di Trockij sarà deciso da questa situazione. 

    F.D: Malcolm Lowry invece perché va in Messico? 

    P.D.: Il caso di Lowry è diverso. Lowry e Trockij d’altronde arrivano da due direzioni opposte: il primo dal Pacifico, il secondo dall’Atlantico. Lowry va in Messico perché lì l’alcol è meno caro (ride). Davvero, è così: prima di sbarcare in Messico era stato a Hollywood per lavorare come sceneggiatore, un’esperienza catastrofica… Si era sposato di nascosto dal padre, dal quale riceveva una rendita mensile in sterline inglesi, per aumentare il proprio potere d’acquisto decide di andare in Messico e di convertirla in pesos, spendeva soprattutto in alcol.  

    F.D.: Viva è costruito, come la maggior parte dei suoi libri del ciclo Abracadabra, sul principio delle vite parallele. Ce ne sono diverse: Lowry e Trockij, Alfonsina Storni e Tina Modotti, Fabian Lloyd – meglio noto come Arthur Cravan – e B. Traven – al secolo Ret Marut. Ma la coppia principale resta quella di Lowry e Trockij. Il primo incarna la vita contemplativa, e l’arte, il secondo la vita attiva, la politica. Al di là di questo parallelismo per opposizioni, com’è nata l’idea di accostarli?

    P. D.:  In effetti ho spesso cercato di scrivere delle vite parallele sul modello plutarchiano. In Equatoria erano quelle di Brazza e Stanley, in Viva abbiamo Lowry e Trockij, il quale del resto è citato due volte in Sotto il vulcano, nel primo e nell’ultimo capitolo. Il principio è che queste vite debbano avere dei punti in comune ma essere molto differenti. Ciò che mi ha intrigato nel caso di Trockij e Lowry è il loro rapporto al tempo stesso affine e opposto rispetto alla politica e alla letteratura. Lowry pensa che tutta la sua vita debba essere consacrata alla letteratura, e che la sua missione sia scrivere Sotto il vulcano, ma si sente terribilmente in colpa perché non partecipa alla Guerra di Spagna, in cui moriranno alcuni suoi amici. Trockij è invece uno scrittore, e anche un critico letterario, che attende il compimento della rivoluzione mondiale per potersi finalmente consacrare alla letteratura. 

    F.D.: Il paradosso risiede forse nel fatto che Trockij, come scrittore, è piuttosto tradizionale, mentre Lowry è totalmente rivoluzionario. Come se ci fosse un’inversione tra politica e letteratura. 

    P. D.: Sì assolutamente. Ma ciò che hanno in comune è il fatto di porre la letteratura al di sopra di ogni altra cosa. Quando Trockij legge il Viaggio al termine della notte di Céline, scrive un articolo in cui dichiara di essersi trovato di fronte a un autentico genio letterario. Politicamente nulla li legava, al contrario… 

    F.D.: Leggendo il suo libro, si ha il sentimento che, alla fine, sia la letteratura a vincere.

    P.D.: Sì, è almeno quello che spero (ride).

    F.D.: Per quanto riguarda Sotto il vulcano, lei, riprendendo un’espressione del primo editore francese del romanzo, Maurice Nadeau, parla della strana confraternita composta dagli adepti di questo capolavoro. Qual è, a suo parere, il motivo per cui Sotto il vulcano può generare una sorte di ossessione in certi lettori? 

    P.D.: Credo ci siano diverse ragioni. In Francia, una prima ragione è stata forse quella delle peripezie editoriali della traduzione. Maurice Nadeau non era anglofono, Lowry pensava di essere francofono e volle contribuire alla traduzione, firmata da Clarisse Francillon, il cui lavoro sul primo capitolo fu particolarmente difficoltoso, col risultato che molti dei primi lettori non andarono oltre. Per gli altri lettori il romanzo divenne invece un libro di culto, proprio perché riservato a una cerchia di ammiratori inizialmente ristretta. Poi ci sono ovviamente le ragioni legate all’opera di per sé, e alla vicenda della sua redazione. Sotto il vulcano avrebbe potuto essere un fallimento, e non lo è stato, perché il libro esiste, ma è quasi un miracolo che questo libro esista: il manoscritto ha rischiato di finire bruciato in un incendio, Lowry lo ha riscritto più volte, e per finirlo ha distrutto la propria salute con l’alcol. È un libro che incarna l’aspirazione prometeica della letteratura, una certa ricerca di assoluto, a rischio di fallire. E anche se fosse stato un fallimento, un magnifico fallimento è sempre meglio di una mediocre riuscita. Ma lungi dall’essere un fallimento, è pure un libro molto ben costruito: dodici capitoli che si svolgono in un arco di dodici ore, con un lavoro estremamente curato sulla struttura. 

    F.D.: A proposito di questa ricerca di assoluto: è qualcosa che accomuna Lowry e Trockij. Per entrambi, nel suo libro, lei parla di una forma di santità. 

    P. D.: Sì, c’è qualcosa di comune tra la ricerca della bellezza letteraria assoluta di Lowry e il sogno rivoluzionario un po’ delirante di Trockij. Entrambi hanno vite che in qualche sorta assomigliano alle vite dei santi: distruggono la loro vita per consacrarsi a questa ricerca di un assoluto inaccessibile, e la cosa mi sembra ancora più magnifica se si è atei, perché allora si sa che non c’è nulla da aspettarsi in un’altra vita, si sa che è qui e ora che bisognerebbe essere felici, ma si rinuncia a esserlo pur avendo il gusto della felicità, come lo avevano sia Lowry che Trockij. 

    F.D.: C’è una frase nel suo ultimo libro pubblicato in Francia, Samsara, che mi sembra riassumere il senso complessivo del lavoro da lei compiuto in Abracadabra. Guardando dal finestrino di un treno in sosta i volti delle persone sedute nel treno di fronte, lei scrive che avrebbe voluto «conoscere la vita di tutte quelle persone reali», e di aver pensato a quanto fosse «inutile aggiungere delle vite di finzione a quelle vite assolutamente uniche». È una dichiarazione personale di poetica narrativa o un partito preso estetico più generale? 

    P.D.: Amo molto la grande letteratura d’invenzione, e Sotto il vulcano ne è un esempio magistrale, ma più di venticinque anni fa ho deciso di non mettere più della finzione nei miei libri. Secondo me bisogna fare una cosa o l’altra. Le vite che racconto non sono minimamente romanzate, se c’è una parola che detesto è proprio “romanzato”. Tutto quello che racconto è documentato, e quando i personaggi parlano, parlano attraverso le loro lettere, i loro diari, le loro autobiografie. Nei miei libri non ci sono mai frasi del tipo “Lowry pensò che…”. Questa scelta di passare dai romanzi di finzione ai romanzi senza finzione è venuta anche da un’altra motivazione: volevo sperimentare una forma che mi permettesse di giocare liberamente con diversi generi di scrittura con cui avevo voglia di confrontarmi. Da un capitolo all’altro, posso passare dal racconto storico alla prosa poetica, dal racconto biografico alla riflessione politica. Iniziando a cimentarmi con questa nuova forma mi sono reso conto che la cosa migliore da fare fosse rinunciare alla finzione.  

    F.D.: Nei suoi libri, e forse in particolare in Viva, ricorrono personaggi che hanno avuto diverse identità, che hanno reinventato la loro vita in diversi luoghi. In Viva i personaggi più emblematici, da questo punto di vista, sono Arthur Cravan, pugile professionista e poeta d’avanguardia, e il misterioso Traven, rivoluzionario tedesco che scriverà il celebre Tesoro della Sierra Madre, adattato da John Houston per il cinema. Entrambi sono scomparsi nel nulla, senza lasciare tracce. Si è persino pensato, a torto, che potessero essere la stessa persona. Si potrebbe dire che i suoi libri sono dei romanzi senza finzione anche perché i loro personaggi assomigliano a personaggi di finzione?

    P.D.: C’è una frase di Traven che cito in Viva, e che riprendo in Samsara, dove, riferendosi al periodo dopo la Prima guerra mondiale, dice che bastava avere una busta affrancata col proprio nome e indirizzo per poter andare ovunque, come se fosse un passaporto. Ciò permetteva di cambiare identità facilmente, di reinventarsi. È qualcosa che non esiste più, e che in effetti è molto legato alla dimensione romanzesca, alla dimensione della letteratura, la quale ci permette, sia attraverso la lettura che attraverso la scrittura, di vivere più vite, perché una sola vita non è sufficiente. È un po’ il sogno di sfuggire alla nostra finitudine.  

    F.D.: Queste vite sono raccontate da un narratore che, pur esprimendosi alla prima persona, resta in genere molto discreto. Qual è la sua funzione precisa?  

    P.D.: Dall’inizio di questo progetto, ho pensato che ci fosse bisogno di un narratore alla prima persona, perché sarebbe stato lui a raccogliere tutto il materiale documentario di cui si compongono le diverse storie narrate, e mi sembrava importante che fosse lo stesso narratore a incontrare, per fare un esempio, il nipote di Trockij in Viva e i testimoni del processo dei khmer rossi in Kampuchea. Il collante del progetto è il narratore. Questa decisione letteraria mi è sembrata indispensabile anche perché questi libri si svolgono in luoghi che andavano vissuti sul piano delle sensazioni, trasportandovi le proprie orecchie e i propri occhi, il proprio corpo, in modo da restituirne la realtà viva e presente, oltre a quella passata, ricostruita invece tramite la documentazione storica. Ma nei momenti in cui la presenza di questo narratore non è strettamente necessaria, egli tende a scomparire dal racconto. 

    F.D.: Nei suoi libri, lei cita spesso una frase della Camera chiara in cui Roland Barthes parla dello stupore che si può provare nel guardare negli occhi qualcuno che ha visto persone e cose che noi non abbiamo potuto vedere. Un bambino che oggi guarda negli occhi un vecchio avrà guardato, quando sarà a sua volta vecchio, degli occhi che videro persone e cose di un secolo e mezzo o quasi due secoli prima. La strana temporalità insita in questo gioco di sguardi ci insegna a riportare la Storia alla sua dimensione umana, fatta di destini personali? 

    PD.: Sì, penso che alla fine un periodo storico che va dal 1860 a oggi sia molto breve, se misurato in questo modo. Nel mio libro più personale, Taba-Taba, scritto a partire da archivi famigliari, parlo di una mia bisnonna che lasciò l’Egitto per venire in Francia nel 1862, e io ho guardato negli occhi mia nonna che ha guardato negli occhi sua madre. Ciò mostra che, se misurato su una scala famigliare, il tempo storico può sembrare altrettanto rapido di un battito di ciglia. 

    F.D.: Ora che il suo progetto narrativo si sta avvicinando alla chiusura di questo lungo itinerario storico e geografico, che cosa prova il narratore di Abracadabra rispetto al mondo che lo circonda?

    P.D.: Ciò che provo è una forma di compassione per la condizione umana, quali che siano gli errori che i singoli individui possono commettere o aver commesso. Anche quando si scrive la vita di un poco di buono, è normale farlo con una certa empatia, senza un giudizio moralistico. Alle fine, quello che mi resta è questo sentimento di compassione per la condizione umana in quanto tale, una condizione che condividiamo al di là delle differenze tra le culture, i paesi e le epoche storiche. 

    Filippo D'Angelo

    Nato a Genova nel 1973, ha pubblicato i romanzi La fine dell’altro mondo (minimum fax 2012), Le città e i giorni (nottetempo 2024) e l’antologia Troppe puttane troppo canottaggio! Consigli ai giovani scrittori dai maestri della letteratura francese (minimum fax 2014). È direttore editoriale di Snaporaz e traduttore.

    Foto di Gaia Cambiaggi

    Patrick Deville

    Nato a Saint-Brévin nel 1957, è direttore della Maison des Écrivains Étrangers et des Traducteurs (MEET) di Saint-Nazare, e nel 2021 è stato insignito del Gran Premio di letteratura dall’Académie française. Grande viaggiatore e spirito cosmopolita, ha reinventato la letteratura di viaggio e il romanzo storico. Dei suoi libri, tradotti in più di dieci lingue, in Italia sono stati pubblicati Il cannocchiale (Einaudi 1989), Equatoria (Galaad 2013), Peste & colera (e/o, 2020, vincitore nel 2012 del Prix Femina, del Prix Fnac e finalista al Prix Goncourt), Kampuchea (nottetempo 2022) e Viva (nottetempo 2024).

    Foto di Bernard Comment