Avventurosa, libera, sospesa: l’estate, si sa, è una stagione a statuto speciale, terreno fertile per il fiorire di nuove storie. D’estate i protagonisti di romanzi e racconti – ma anche di film, serie tv e fumetti – vivono esperienze rocambolesche o drammatiche, scoprono se stessi, stringono nuovi legami, fanno i conti con il passato.
Per celebrare la stagione narrativa per eccellenza, Belleville ha chiesto ad alcune allieve e allievi di cimentarsi in un racconto estivo. La terza storia raccolta sotto il titolo La bella estate è Nel giallo esatto dei suoi occhi di Francesca Perticone, che ha frequentato il corso serale Scrivere di notte con Marco Rossari, Marcello Fois, Cristina Tizian e Marilena Rossi.
***
Arrivavamo sempre di domenica, verso sera. Il lunedì mattina la signora metteva sul tavolo un cestino con le fette biscottate, i barattoli di marmellata Hero e un panetto di burro. Il sapore della marmellata nel latte sanciva ogni anno l’inizio dell’estate.
A colazione dovevamo compilare il menù della cena. Toccava a me farlo, altrimenti mamma lo restituiva intonso e ci toccava mangiare quello che veniva. Mi divertivo a segnare una croce accanto al nome dei piatti, lasciavo la matita sospesa tra la pasta al ragù e i tortellini, tra le fettine di maiale e le polpette di pesce, e in quel tempo di attesa mi sentivo invincibile, non c’era cosa al mondo che non potessi controllare o decidere.
Greta giocava con la tovaglia o con le miche di pane, sceglievo io per lei. Se mi vedeva armeggiare con foglio e matita, si incuriosiva e cercava di strapparmeli di mano.
«Anche io voio!»
«No».
«Anche io detto!»
«Ma se non sai neanche leggere».
La mamma interveniva solo quando un colpo di tosse in sala o una frase del cameriere all’orecchio le facevano alzare lo sguardo dal piatto vuoto.
«Basta, date qui».
Sbuffava e leggeva con la voce arrabbiata, ma quando arrivava in fondo era troppo stanca per continuare a sgridarci.
«Facciamo una cosa, ognuno sceglie quello che preferisce».
Così in quei giorni, quando lo restituivo alla signora, il menù portava i segni delle nostre tre croci: quella di mamma frettolosa e svogliata, la mia al centro del quadratino e lo scarabocchio di Greta, abbozzato dove io le puntavo il dito.
Al mare andavamo ai bagni Cerri, numero centosessantotto, ombrelloni arancio e lettini verde scuro. La mamma me lo faceva ripetere tutte le mattine, caso mai ci perdessimo. Erano i bagni dove era cresciuto papà, ci teneva che vivessimo l’estate come l’aveva conosciuta lui. L’aveva conosciuta al punto da non volerne quasi più sapere, ci raggiungeva solo nei fine settimana e dieci giorni a metà agosto.
Al mare ci accompagnava il figlio della signora, apriva l’ombrellone e chiedeva alla mamma se ci serviva altro.
Niente, grazie, nessun problema.
Lungo il tragitto mamma indicava la spiaggia pubblica di fianco a noi, i teli sparsi sulla sabbia, le bibite e le borse frigo, e diceva che dovevamo sentirci fortunate. Io ci provavo, camminavo sulla passerella con la schiena dritta per mostrarle quanto fossi orgogliosa di lei, di noi, delle nostre vacanze. Ci riuscivo solo quando non mi cadeva l’occhio sulle altalene della spiaggia pubblica, erano così rosse e lucide che era impossibile non rimanerne incantati. Io e Greta passavamo le giornate a scavare buche sul bagnasciuga, entravamo in acqua due volte al giorno, lontano dai pasti e senza allontanarci dalla riva. Non sapevamo nuotare.
Un giorno che mamma dormiva sotto l’ombrellone, cosa che accadeva sempre più spesso, ho trovato il coraggio di scavalcare la corda. Greta mi ha seguita, l’ho vista scendere dallo scivolo un paio di volte, o così mi è sembrato, poi ho distolto lo sguardo e quando mi sono voltata lei era sparita. Ho guardato in ogni direzione ma non c’era, scomparsa, puff, volatilizzata nel nulla.
Mi ha preso un vuoto dentro che risucchiava lo stomaco e bruciava la gola. Ricordo che correvo, urlavo il suo nome e correvo. Mi sono fermata solo quando un bagnino con i capelli bianchi e le rughe mi si è piazzato davanti. Dovevamo tornare dalla mamma, diceva. Aveva bisogno che gli indicassi dov’era, avremmo cercato Greta in un altro momento. Io non volevo, se lei non c’era più, se io l’avevo persa e lei non c’era più, non potevo tornare. Non potevo più guardare negli occhi la mamma.
Lui però ha insistito molto e alla fine ho ceduto.
«Bagni Cerri, numero centosessantotto, ombrelloni arancio e lettini verde scuro».
Quando sono arrivata ho nascosto la faccia dietro le mani. Mamma mi ha abbracciata e non si è arrabbiata per niente. Greta era con lei, semplicemente era tornata da lei. Era una possibilità che non avevo considerato.
C’era un gatto in albergo, i ragazzi del secondo piano lo chiamavano Mefisto. Era nero con gli occhi gialli e le pupille a rombo, troppo grasso anche solo per saltare sul muretto. Lo trovavamo acciambellato sulle sedie della veranda, oppure sul dondolo, a volte si spingeva fino al cancello ma non lo superava mai. Giravano tante storie su Mefisto, ce le raccontava Sergio il venerdì sera, quando gli adulti cenavano nel ristorante e a noi bambini davano da mangiare prosciutto e melone in veranda. Sergio era il più grande di noi e sapeva tutto sull’albergo. Quando diventava buio ci raccoglievamo in cerchio sul pavimento, lui rimaneva in piedi e la sua figura si stagliava davanti al faro di luce esterno, restituendoci una sagoma scura come uno spettro che faceva piombare Greta tra le mie gambe.
Sergio raccontava storie di fantasmi, morti che tornavano dall’aldilà, spiriti intrappolati in albergo che manifestavano la propria presenza di continuo.
«Avete visto la macchia rossa sulla tovaglia stamattina?»
Greta mi stringeva la mano.
«È il sangue di una ballerina che si è tagliata le vene dieci anni fa».
Se qualcuno urlava o scoppiava a piangere, allora intervenivo.
«Non dire stronzate Sergio, c’era l’anguria stamattina a colazione. Da dove vuoi che venga la macchia?»
I bambini ci guardavano perplessi, sia l’anguria che il sangue della ballerina erano ottime spiegazioni. Ma io dicevo stronzate e altre parole come quella, le dicevo come un adulto, senza incertezze, e questo bastava per farli schierare dalla mia parte.
Le storie su Mefisto erano quelle che mi spaventavano di più, Sergio raccontava che era un vero e proprio fantasma con le sembianze di gatto. Nella sua vita umana era stato un signore grasso e arrogante, marito di una bis-bisnonna della signora dell’hotel. Era uno di quei vecchi che non si alzano mai da tavola, bevono vino tutto il giorno e la notte russano forte. Mefisto picchiava la moglie con una cinghia, i clienti sentivano il rumore delle sferzate che a un certo punto si placava e lasciava spazio al suo russare.
Una notte la trisavola della signora, esasperata dalla sua crudeltà, gli aveva stretto la cinghia intorno al collo, finché non aveva smesso di respirare. Mefisto però era talmente cattivo che in cielo non l’avevano voluto. Dio aveva preso la cinghia, l’aveva tramutata in collare e l’aveva condannato a vagare sotto forma di gatto per l’eternità.
La vendetta di Mefisto non si era fatta attendere, aveva lanciato una maledizione contro la moglie e contro tutte le donne che avessero incrociato il suo sguardo giallo. Arrivati a questo punto un paio di bambini si alzavano e correvano dalla mamma. Greta mi buttava le braccia al collo.
«Il dolore della mia cinghia vi colpirà per sempre».
C’era qualcosa nelle sue parole che riusciva a spaventarmi per davvero, forse in qualche modo potevo già percepire la malattia di mia madre.
«Tra un paio d’anni quell’obeso di un gatto sarà morto stecchito e capirete che questa storia è una cazzata», sentenziavo.
Spiavo le altre mamme per capire se la maledizione fosse vera, cercavo di cogliere nei loro gesti la stessa fatica, quel trascinarsi stanco che vedevo nella mia e che non accennava a migliorare, estate dopo estate.
Ogni anno papà la incoraggiava a partire, il mare le avrebbe fatto bene. E poi non era da sola, c’ero io che ero grande e l’avrei aiutata. Sono sempre stata grande, a qualunque età. Mi prendevo cura di lei, di noi, delle nostre vacanze. Le lavavo la schiena nella vasca da bagno, le asciugavo i capelli, mi occupavo di Greta quando lei era troppo stanca per uscire. Il sabato arrivava papà e sorridevo, andava tutto bene.
Nessun problema papà, davvero.
Con lui andavamo in paese, mi comprava il gelato e ci dava mille lire a testa per la sala giochi. Ero felice per quel giorno in cui tornavo a essere bambina, facevo in modo che mi ripagasse di tutto il resto. Con i problemi che avevamo ci mancava che ne creassi di nuovi. Dovevo essere forte, ero una colonna che reggeva la famiglia, non potevo crollare.
La colonna vacillava solo quando incrociavo Mefisto. Anno dopo anno, man mano che la mamma peggiorava, sentivo che niente era vero come quella maledizione. Il gatto non era morto e io stavo diventando una donna: la vendetta cominciava a riguardare anche me. Sentivo le sferzate della cinghia, non colpivano più solo la mamma. Il giallo dei suoi occhi mi era entrato nelle ossa. Pensavo che se lo guardavo abbastanza a lungo, lui si sarebbe concentrato su di me e avrebbe risparmiato Greta. Ha funzionato per anni, mi sono fatta scudo e ho tenuto la maledizione lontana da lei. Greta usciva con una compagnia di amici, si era tinta i capelli di viola e una volta l’ho vista fumare. Era una ragazza normale. Ha provato a portarmi con sé, abbiamo discusso perché non riusciva ad accettarlo: dovevo rimanere, tenere a bada Mefisto, impedire che il dolore della cinghia raggiungesse anche lei.
Di giorno leggevo sui lettini verde scuro, non mi interessavano più le altalene e questo era un vantaggio. La sera giocavo a carte con la signora, quando non era troppo stanca si univa anche la mamma. In alcuni momenti il dolore si faceva più intenso, sentivo questo gatto nero gigante che mi graffiava il cuore e mi toglieva il respiro. Lo ricacciavo dentro e cercavo di farlo sprofondare in posti che nessuno vedesse.
Nessun problema papà, davvero.
Era mamma quella da proteggere, la figura debole di cui prendersi cura. Mamma che sembrava sempre in punto di morte ma non moriva mai. Mamma così fragile e delicata che però poi resisteva a tutto.
È successo che mi sono distratta. Dev’essere stato un momento di debolezza, colpa della schiena piegata dalle cinghiate del gatto. Come quel mattino in spiaggia, ho distolto lo sguardo un attimo e quando mi sono girata era troppo tardi. Lui era lì, davanti a lei. E la guardava negli occhi.
Non potevo sopportarlo, non riuscivo a tollerare di vedere Greta vittima della mia stessa maledizione. Era impossibile reggere il suo dolore senza che ci fosse più spazio per il mio, vederla sparire un giorno alla volta, un pezzo alla volta, diventare così piccola come non l’avevo mai vista. Era straziante affrontare l’incertezza, quel tempo di attesa in cui non c’era più nulla che potessi controllare o decidere.
Hanno detto tante cose, dopo. C’è stato chi dava la colpa alla mamma, chi al papà. Qualcuno diceva che non ero riuscita a superare quello che è successo a Greta, qualcun altro che volevo attirare l’attenzione. Del resto non ero neanche morta. Quando mi sono allontanata dalla riva, la corrente non mi ha portata via. Una parte di me voleva vivere e a quanto pare era quella che sapeva nuotare, anche se nessuno gliel’aveva insegnato.
Ho dato ragione a tutti, in momenti diversi. Mamma e papà dovevano sapere che le bambine non sono colonne, che hanno il diritto di crollare, devono crollare quando sono piccole. Perché se la si assapora troppo tardi, la bellezza che c’è in una caduta prende un gusto tragico e irreversibile. Si sente solo il tonfo e si dimentica la possibilità di ricostruirsi e diventare altro, che nessuno è destinato a essere colonna per sempre.
E in quanto a Greta, lei sarà sempre una mia responsabilità, non posso smettere di pensarlo. Non ho smesso neanche quando mi dicevano che con il mio comportamento non la aiutavo, che la mia protezione non faceva che renderla ancora più fragile, che la mia presenza la spingeva a voler sparire ancora di più.
«Non posso lasciarti stare, capisci? Non riesco a vederti così, con tutto il bene che ti voglio».
È stato un dottore a spiegarmelo, nell’ultima clinica in cui l’hanno ricoverata.
«Non vi potete salvare a vicenda, se vi appoggiate l’una all’altra nel mare in tempesta non farete che annegare».
Non ho smesso di sentire che lei è compito mio, ma adesso quando le capita qualcosa mi fermo a ricordare quello che ha detto il dottore: non posso buttarle addosso tutto il bene che le voglio. Non punto più il dito sul piatto che deve scegliere, la guardo disegnare scarabocchi lontano dai quadratini, le lascio lo spazio intorno perché nuoti da sola, anche se fa fatica, anche quando la vedo arrancare.
Una sera rincasando ho trovato Mefisto sul pianerottolo, dormiva sul tappeto davanti alla porta. Sembrava mi stesse aspettando. Quando mi sono avvicinata si è svegliato ed è scappato via. Quella notte l’ho sognato, mi fulminava con il giallo scintillante che ancora mi fa tremare.
«Il dolore della mia cinghia vi colpirà per sempre».
Mi chiedo da quante generazioni quel gatto rabbioso dimori nella testa delle donne della mia famiglia, forse molte di più di quelle che passano tra la signora dell’albergo e la sua trisavola. Chissà quale lunga storia di dolore si snoda attraverso le mie antenate. Ce lo tramandiamo da anni, oppure secoli, questo gatto malvagio che ci condanna a soffrire. Nel sogno guardo Mefisto nelle pupille a rombo e protesto.
«Non è colpa mia».
Tanti anni dopo averlo incontrato, finalmente sono riuscita a dirglielo, anche se in sogno. Non ti ho ucciso io Mefisto, non ti ho messo io sulla veranda, né nella mia testa. E in nessun modo avrei potuto evitare che qualcun altro ti ci mettesse.
Vedevo solo la colpa, un torto ancestrale da riparare. Quella notte ho smesso di farlo, se ci sono dei torti non possono essere riparati e non è neanche importante che io ci riesca. Perché quello che cerca Mefisto non è la vendetta, dietro a questo ammasso di pelo nero non si nasconde il desiderio di rivalsa, ma la paura. È lei che rende Mefisto eterno e gli impedisce di andarsene.
Su una cosa Sergio si era sbagliato: non è stato Dio ad allontanarlo dal cielo, lui stesso ha preferito trasformarsi in gatto, perché aveva paura di morire. Me l’ha confessato nel momento in cui ho trovato il coraggio di affrontarlo. Il gatto nero è la paura, il terrore che striscia sotto la pelle, che mangia le ossa e spezza il fiato. È l’angoscia che mi prende al pensiero delle infinite trappole che la strada nasconde, delle innumerevoli possibilità che esistono di perdersi, di venire traditi o distrutti. È il bisogno di scegliere il menù della cena, mettere la crocetta su quello che succede dopo, è l’incapacità di accettare che nella vita adulta ti tocca mangiare quello che viene. Se cerchi di scappare, la paura diventa pervasiva, si diffonde in ogni cellula del corpo e ti spinge a cercare il mare, pur di non ascoltarla più.
Da quella sera ogni volta che torna da me Mefisto è sempre più piccolo, scarno, senza forze. Ieri per esempio pesava sì e no quanto una farfalla. Ho capito perché ha lanciato la sua maledizione contro le donne che incrociano il suo sguardo. Sa perfettamente che se la si guarda in faccia quella paura, se si riesce ad attraversare il senso di vuoto, di stordimento, quel momento in cui si crede di aver perso ogni coordinata, lui sparisce.
Ho cercato a lungo e il luogo dove infine ho trovato pace è l’unico in cui non avevo mai osato guardare: nel giallo esatto dei suoi occhi, al centro della mia paura.
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