Avventurosa, libera, sospesa: l’estate, si sa, è una stagione a statuto speciale, terreno fertile per il fiorire di nuove storie. D’estate i protagonisti di romanzi e racconti – ma anche di film, serie tv e fumetti – vivono esperienze rocambolesche o drammatiche, scoprono se stessi, stringono nuovi legami, fanno i conti con il passato.
Per celebrare la stagione narrativa per eccellenza, Belleville ha chiesto ad alcune allieve e allievi di cimentarsi in un racconto estivo. A luglio, sotto il titolo di La bella estate, pubblicheremo tre storie, una alla settimana a partire da oggi.
Il primo racconto si intitola Batman è un nome stupido e l’ha scritto Annalisa Maitilasso, che a Belleville ha frequentato i corsi Scrivere di sabato con Ester Armanino e Gianni Biondillo, e Molto forte, incredibilmente lontano. Scrivere dalla distanza con Cristina Marconi.
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Ho questo ricordo dell’estate in cui Batman ingoiò un dente. Non era un dente qualunque e nemmeno un dente suo. Ma Batman con quella faccia fredda che voleva dire non ti perdono e le espadrillas blu, l’aveva fatto. Aveva deglutito.
E il bello è che in quel momento, in mezzo allo scandalo generale, trovai il gesto appropriato. Gli sorrisi. Batman non ricambiò e partì a combattere il crimine da qualche altra parte. Gli sarei andata dietro volentieri tra i muretti bassi del nostro cortile condominiale. Se fossi stata invisibile, chiaro. Perché avvicinarsi a Batman equivaleva a entrare nella sua bolla di travestimenti ridicoli, lotte immaginarie e zero amici.
Ma torniamo al dente, che era poi l’incisivo superiore di mio fratello: al suo posto adesso si allargava un laghetto di sangue e bollicine. Uno spettacolo che non valeva la pena restare a guardare. Come ho già detto, non si trattava di un dente qualunque, si chiamava Ghiri ed erano settimane che mio fratello non si lavava i denti di sopra per non scomodarlo. Ghiri faceva un po’ schifo, ricordava un pipistrello minuscolo e albino. Quell’incisivo da latte, appeso tutto di traverso alla gengiva, instillava nelle dita di mia madre una tale smania da estrazione da spingerla a sospendere le regole base dell’educazione e infilarsi in bocca a suo figlio con qualunque pretesto:
Apri che voglio vedere se ci sono carie!
No!
Guarda che cade lo stesso. Prima o poi.
Prima o poi. Tutti, in casa, non vedevamo l’ora che cadesse questo dente a cui mio fratello si era affezionato come se fosse un animaletto vero. Lo proteggeva con i gomiti, i calci e le ginocchiate quando qualcuno si avvicinava troppo. Mangiava in un modo rivoltante, praticamente a bocca spalancata, pur di evitare qualsiasi colluttazione. La storia di Ghiri ci teneva sulle spine perché non c’era molto altro a cui badare. La scuola era finita da un pezzo e, col passare delle settimane, il gruppo degli amici del cortile si era ristretto, decimato dalle vacanze. Di pomeriggio, tra le aiuole e il cemento, eravamo ormai meno di una decina, talmente annoiati e immalinconiti dal caldo da abbandonarci a una varietà limitata di passatempi, tra cui: lo scrostamento dell’intonaco dei garage (sotto l’ocra avevamo scoperto un miracoloso turchese che ci sembrava brillare come la tomba di Tutankhamon), la fabbrica dei braccialetti, i bagni di fango alle barbie, la creazione di una fossa comune per le palette che rubavamo al parco, la guerra dei gavettoni e il concorso di Miss Italia.
Ma nessuno di questi giochi ci entusiasmava quanto origliare i litigi delle vicine. In ciabatte, prendisole a fiori e reggiseni in vista, s’inalberavano a turno, aggressive come felini per via dell’odore dei cassonetti o degli sgarri all’orario del silenzio; era un po’ come vedere dal vivo i documentari che davano il pomeriggio presto quando non c’era nient’altro in tv.
Anche noi scattavamo per un nonnulla. Davamo la colpa al caldo, più ostinati e cattivi del solito. Mia madre ci portava per dispetto al centro estivo della polisportiva. Tutte le mattine. Va bene che lavorava, ma non cercava nemmeno di inventare bugie che addolcissero la pillola. Ci andate e basta. A noi non restava che fargliela pagare lagnandoci fino all’ora di cena. Da come ci teneva stretti per i polsi, guardando dritto davanti a sé, capivo che ci compativa: luglio è il mese più lungo dell’anno se hai nove anni e due genitori che vanno in ferie ad agosto.
Anche i genitori di Batman non sembravano voler andare in vacanza. A dire il vero, Batman non sembrava avere genitori, punto. Sua madre si vedeva solo di sfuggita. Suo padre chissà chi era. Avevo messo in giro la voce che fosse in galera e nessuno mi aveva smentito. Batman se ne stava sempre da solo a imbarazzare gli adulti che accennavano a chiedergli se avesse voglia di un gelato o se gli andasse di giocare con gli altri bambini a nascondino. Noi, tra l’altro, non giocavamo mai a nascondino.
Mia madre, che aveva quest’abitudine di intervenire sempre, provava a parlargli inclinando il collo in un modo tutto gentile, al che Batman invecchiava a vista d’occhio, sempre più sordo e sempre più gobbo, con la fronte a pochi centimetri da un piccolo arsenale di coltelli di plastica, pietre e bastoni snodati in via di riparazione.
Batman possedeva anche un nome normale, che però ho dimenticato. Poteva essere Davide o Daniele. A pensarci meglio, era Marco. Per tutti Batman era Batman da quando si era dipinto la mezzaluna superiore della faccia con un pennarello nero. A volte, si fabbricava un mantello con un sacco della spazzatura; altre, si legava alla testa una fascetta da tartaruga ninja. Evitava i costumi interi: eravamo già troppo grandi per quello, anche se una volta l’avevo visto in lacrime strapparsi di dosso la tutina del Power Ranger blu. Forse, un regalo. Forse, era il suo compleanno e qualcuno di noi s’era messo a ridere forte. Forse, addirittura io.
Il giorno in cui l’incisivo di mio fratello andò in pasto a Batman, avevo litigato con le mie amiche a causa dell’elezione di Monica a Miss Italia motivata esclusivamente dai suoi capelli lunghi e paglierini, senza contare altri dettagli rilevanti.
Non vorrei dire, ma ha i denti storti.
La tua mamma non ti ha insegnato che queste cose non si dicono.
Mentre mi infrascavo in una difesa poco elegante della libertà d’espressione (che in bocca a me assumeva il suono autoritario dell’asserzione – è la verità – o al massimo la metrica circolare di un mantra – specchio riflesso ti butto giù dal cesso), vidi di sfuggita mio fratello che mostrava Ghiri agli amici, tenendoli a debita distanza con un bastone dipinto di nero.
Era un venerdì pomeriggio. L’indomani sarebbero partite altre due famiglie. Questo conto alla rovescia settimanale aveva l’effetto di acuire il nostro malumore. L’invidia superava il senso di sollievo di fronte all’approssimarsi del momento in cui anche noi avremmo salutato il cortile, le panchine e le Miss Italia brutte, di rotta su Gallipoli, verso un campeggio con i pedalò e la baby-dance. Dal canto suo, Batman era del solito umore nebuloso: stava seduto a incidere rune e altri codici sulla terra sotto ai platani.
All’improvviso sentiamo un colpo secco. È mio fratello che, nel tentativo di creare un mulinello, con un gesto del polso si dà il bastone sui denti. Una specie di autogol che però non innesca nessuna ola da parte del pubblico. Invece lo raggela. Perché il dente è caduto. Per terra c’è una bava di sangue che lo tiene stretto come se fosse un aquilone in miniatura finito nella polvere. Monica interrompe la mia filippica ancora in corso:
Tuo fratello sanguina.
Più che sanguinare, mio fratello gorgoglia. Fa proprio le bolle per la rabbia. E qualcuno commenta:
È il bastone di Batman. La colpa è sua.
Non si capisce se intenda dire che è stato Batman a spostare la mazza con la telecinesi o se il dolo stia nell’aver messo in circolazione un oggetto contundente. Tutti ci rendiamo conto che nessuna delle due accuse si regge in piedi; tutti tranne mio fratello, che in un secondo movimento sballato fa roteare di nuovo il bastone e lo spezza per terra.
Batman si sente chiamato in causa. Succede tutto molto in fretta. Sembra un nastro che si riavvolge: col fiato sospeso, contiamo i secondi prima dell’entrata in scena degli adulti, mentre s’innesca un ingranaggio di azioni simultanee, tanto che non ha senso indagare sui colpevoli. Eppure la domanda arriva lo stesso:
Chi ha iniziato? chiede mia madre. Chiedono le vicine. E non capiscono che è stato Batman a correre, ma anche il bastone a spezzarsi e i maschi a spingere e le femmine a sgolarsi e io a sporgermi in avanti. Poi, di nuovo Batman a fare la mossa: invece di raccogliere il suo bastone, eccolo che pinza con due dita il dente e lo fa sparire tra le labbra.
E lì tutto si ferma. La sorpresa ci spiazza: noi, mia madre, le vicine. Tutti a bocca aperta. E va bene che in cortile s’è visto di tutto: minacce, rappresaglie e intimidazioni d’ogni tipo. Ma il suo gesto ha un’anima feroce, cannibale, che scavalla di colpo lo standard della guerriglia a cui siamo abituati. E così ci accorgiamo di dettagli invisibili fino a quel momento: per esempio, dei dieci centimetri buoni con cui Batman supera tutti gli altri bambini in altezza. O del fatto che la sua fronte corrucciata si è ricoperta, chissà quando, di brufoli nuovi e luccicanti.
Quella sera, con il diario segreto stretto sullo sterno, assodo un dato di fatto: mi sono innamorata. Capisco anche che bisogna procedere con cautela. Aspetto qualche giorno prima di raggiungerlo dietro ai piloni di cemento, stando attenta a non essere vista. Deve fare lui il primo passo. E infatti lo fa.
Perché non te ne vai?
Il cortile è di tutti. Posso stare dove voglio.
Allora stai da un’altra parte.
L’anno prossimo vai alle medie?
No, in quinta.
Vai alle Paoli?
No, alle Marconi.
Ho esaurito gli argomenti di conversazione, perciò prendo a vantarmi delle vacanze in campeggio e del viaggio lunghissimo per arrivarci. Senza finire di ascoltare l’inventario degli accessori del bungalow, Batman si alza e se ne va in un punto in cui tutti ci vedrebbero se provassi ad avvicinarmi di nuovo.
Due giorni dopo gli consegno tre cose: un pacchetto di Big Babol, un Ovetto Kinder e un marine paracadutista con un braccio solo. Batman mi fa vedere come trasformare l’ovetto in melma su una lamiera bollente. Il paracadutista ci muore dentro risucchiato dalle sabbie mobili. Batman mi ama, scrivo la sera sul diario. Ne sono sicura perché nonostante la tentazione, nessun chewingum è finito nei miei capelli. Ebbene sì: era una prova.
Ci sono talmente pochi bambini in giro, che divento spavalda. Non ho bisogno di nascondermi.
Batman mi insegna ad affilare la lama del nunchaku-sega-spada laser con una combinazione di foglie lanceolate e urina umana (la sua). Gli faccio capire che, se per questo, anche io ho il coraggio di fare pipì nel secchiello. E che le armi che mi fabbricherò dovranno avere il mio marchio e il mio odore di riconoscimento per essere efficaci. Lui approva. Tutto questo senza scambiarci una parola. Non ridiamo ma ci guardiamo molto per capire se sta funzionando: entrambi crediamo nella telepatia dei ninja. Mi porta in un posto segreto. Mi fa vedere i colpi principali, quelli più letali. Faccio di tutto per non perdere la concentrazione.
Ma lui urla no e il no rimbomba nel buio cavo del seminterrato, viaggia nel tempo, rimbalza sulle porte zigrinate di mille cantine, attraversa grate di metallo e portali astrali, fino a tornare come un boomerang verso di me. No: è la prima parola che mi rivolge in modalità maestro-discepolo. Sono lusingata da questo battesimo verbale, ma anche abbattuta dal mio errore. Non capisco se ho sbagliato solo il ritmo o tutta l’architettura del triplo calcio laterale rotante. Ci metto più impegno. E finalmente lui sorride senza muovere le labbra. È fatta.
Nei giorni successivi non penso più a Gallipoli. Anzi mi ricordo che mi fa schifo la baby-dance e ancora più schifo mi fa lo zelo con cui mia madre ci consegna alle cure di animatori dallo sguardo spento, probabilmente neppure maggiorenni. Ignoro gli altri bambini e le bambine come Monica, che non sanno che Batman ha ragione quando dice che:
L’importante nella difesa è l’attacco in incognito.
Le armi sono pericolose se le usi bene.
Anche se le usi male. Ma è meglio usarle bene.
I cani sono meglio dei gatti. E più di tutti, i migliori sono i topi.
Quando i bambini ridono di te, vuol dire che sono deboli e tu forte.
I topi vivranno sempre e muteranno, a un certo punto, saranno grandi come noi e ci batteranno.
Batman è un nome stupido.
E allora come vuoi che ti chiamo? chiedo io.
Lui sta zitto. Dopo un po’ dice che i nomi sono segreti e i ninja non li rivelano a nessuno tranne a uno solo. Quello che ti salva dai nemici.
Ridacchio. Checcavolo. C’è un limite alla mia capacità di stare dietro alle balle di Batman. Ma poi lui si volta di schiena con una lentezza seria, inesorabile, e la sua mole esprime chiaramente che ogni concetto puoi prenderlo di petto o alle spalle. E allora mi avvicino sperando che quel nome segreto si materializzi nella mia testa, senza che io debba inventarmelo. Il tipico ricatto del fedele scettico: se funziona, crederò. Ma lui si gira e mi mette in mano una soluzione meno aleatoria, chiudendomi le dita intorno a un postit di un giallo inoppugnabile. A pensarci ora, è un mago dei gesti importanti.
Si baciano con la lingua
Sono al buio, uh!
Batman, toccagli le tette!
Non ci eravamo accorti di avere un pubblico. D’istinto, ci allontaniamo. Ma è solo per prepararci al combattimento. Abbiamo tutte le armi che ci servono infilate nell’elastico dei ciclisti. Eccoli davanti a noi, giusto all’imboccatura del seminterrato delle cantine, ridono e ululano prima di scomporsi in un fuggi-fuggi generale. Noi rimaniamo immobili, con gli occhi come lame e l’assetto giusto, mostrando un lato impermeabile al senso del ridicolo.
Ma non serve. Si vede lontano un miglio che facciamo finta. Che il lanciafiamme è venuto storto (e non lancia fiamme) e che le munizioni che abbiamo nascosto sotto un mucchio di foglie di magnolia sono inutili perché chi ride vince sempre.
Batman mi ha stufato. Mi sgrida quando mi insegna i colpi. E poi suda. Non voglio vederlo più, scrivo sul diario il pomeriggio successivo. E invece di seguire mio fratello giù per le scale del condominio, rimango con lo sguardo fisso sul ciuffo di Ambra di Non è la Rai. Mi parla, tra mille moine, ma non afferro cosa dice perché il volume della tv è azzerato. La pancia mi pesa un quintale, non riesco a muovere un muscolo.
Si fa sera e sono ancora sul divano.
Per me quell’estate finì lì, anche se poi a un certo punto arrivò agosto. E con agosto, il mare, la febbre del bigliardino (ero diventata fortissima), il chiosco dei gelati Algida, la penombra pomeridiana, i semi d’anguria appiccicati sulla guancia di mio padre e, dappertutto, quell’odore di doposole, salsedine e plastica dei braccioli. In campeggio, avevo l’impressione di stazionare su un altro pianeta. Come se non ci fosse mai stato nessun cortile afoso a luglio, pieno zeppo di minori incattiviti. Finché una mattina, frugando in tasca a caccia di monete per i videogiochi, non trovai un foglietto giallo. Dentro c’era un segreto ninja tutto spiegazzato.
Batman, non lo rividi più: a settembre il deposito delle munizioni era vuoto. E sentii mia madre parlare di trasloco. Non avevo idea di dove fosse finito, sapevo solo che adesso doveva cavarsela da solo contro i nemici e, anche, che avrei continuato a raccontare le avventure di un certo Batman, nonostante fosse un nome molto stupido, su quello eravamo d’accordo, per non dover rivelare l’altro nome, quello vero.
Quello che sveli solo a chi ti salva.
O non ti salva ma avrebbe voluto.
E così è stato.
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