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Anni luce
di Letizia Muratori
Ero negli Stati Uniti e da una quindicina di giorni non leggevo notizie italiane: niente giornali, niente social. Approfittando della distanza, mi ero presa una pausa di riflessione. Pensare a me e all’Italia come a una vecchia coppia in crisi non mi pareva ridicolo, anzi, perfettamente realistico. Sarà che durante gli ultimi mesi avevo aperto gli occhi ogni mattina cercando un pretesto per attaccarla. La sera mi ero addormentata con addosso lo stesso stato d’animo e lo scontro notturno era finito spesso in singhiozzi. I singhiozzi ottusi che ti fanno precipitare nel sonno senza più un pensiero.
Per Italia non intendo tanto il paese, le persone, la patria, nemmeno mi riferisco a una particolare classe politica e amministrativa, mi rivolgo a una specie di voce, a una compagnia molesta e familiare. L’Italia che conosco si sfoga, il suo è un continuo, interminabile sfogo senza argini, incontrollato, dove il meccanismo del consenso all’improvviso inverte la rotta, si orienta e si riassesta, misterioso, come succede durante le riunioni di condominio.
In pausa di riflessione, fragile – ero ancora in quella fase iniziale del recupero che ti espone alla sicura ricaduta – sono andata a Washington, in gita. Ci sono capitata il giorno del cinquantesimo anniversario dell’allunaggio. Fuori c’erano 110 gradi Fahrenheit ovvero 43 e qualcosa in Celsius. Camminando lungo la National Mall non si sudava, in compenso avevi l’impressione di essere colpito e bruciato da un raggio rovente. Il calore nell’aria non era diffuso, ma come indirizzato, puntato sul tuo corpo. Il sole in cielo non si vedeva mentre accanto all’obelisco si intravedeva l’impronta spenta e diurna della luna. Ai margini dell’immenso parco rettangolare potevi ripercorrere le tappe delle conquiste spaziali americane, o immaginarne di nuove, visitando i capannoni della Nasa. La monumentalità degli edifici museali si mescolava a questa specie di fiera sul prato: explore humans in space, explore Moon to Mars… .
L’atmosfera era rasata e afona, non si avvertiva un suono articolato, nessuno aveva la forza di aprire bocca, gli esseri umani si limitavano a sventolare in giro come bandiere.
Alla National Portrait Gallery, finalmente al riparo, ricordo di aver ammirato un’albumina ottocentesca della luna nel suo primo quarto: era rotonda, grigia e geologica, come la testa del Gesù bambino di Mantegna esposta nell’edificio accanto. La temperatura esterna impraticabile rendeva quelle sale il solo luogo dove si potesse stare: un rifugio, un posto sicuro in astronave. Per nessuna ragione al mondo le avrei più abbandonate. C’era ancora il museo afroamericano da visitare? E pazienza. C’era il museo aerospaziale, mai stato attraente quanto quel giorno? Poteva aspettare. Il non avere scelta in qualche modo alterava la consueta fruizione delle opere esposte e così tutti quei ritratti mi apparivano sullo stesso piano: inedito e rovesciato. Nixon, ritratto da Norman Rockwell, mi era apparso un signore piuttosto simpatico, mentre gli occhi da cane bastonato dei due Kennedy mi avevano subito irritato. Tutti i generali americani mi erano parsi dei perdenti nati, afflitti da problemi di stipsi e tricologici, mentre i capi indiani, impettiti e crinierati di penne, davano l’impressione di avercela fatta nella vita, quelle facce dure erano levigate dal successo.
I volti noti li avevo riconosciuti, eppure quella consapevolezza non mi diceva niente. I ritratti erano comunque un’altra cosa ai miei occhi: le stampelle dove appendevo lo sguardo sfuggito ai raggi roventi e letali dell’obelisco. A quel punto ne ero certa: provenivano da lì. Non c’era solo un caldo satanico fuori, eravamo sotto attacco, un attacco alieno, ma io ero al riparo con tutti quei nuovi amici intorno: Nancy Reagan mi faceva addirittura l’occhiolino. La cara Nancy e il carissimo Bush sr che mi aspettava in un angolo, in piedi: aveva qualcosa dello spettro canino, il suo sembrava il ritratto, preso da una fotografia, di un bracco morto.
Alle sette di sera sono stata cacciata dalla National Portrait Gallery, il museo stava chiudendo. In taxi sono ricaduta nel vizio, non ho resistito, e per sbaglio ho aperto Facebook prima di qualsiasi altra fonte di informazione. Ci ho trovato un paio di facce decrepite, come di streghe sdentate, eppure mi sembrava di riconoscerle: una somigliava a mia nonna, ma era molto più malmessa di come lei era arrivata alla fine, un’altra era identica a qualcun altro che al momento mi sfuggiva. Gli elementi familiari erano sepolti da questa coltre di vecchiaia esasperata quanto realistica. Scorro la pagina e vedo apparire altre streghe e uno stregone che stavolta riconosco: è mio cugino. Si tratta di FaceApp, la app che ti invecchia, ma non ne sapevo niente. Lì per lì, in taxi, mi sembrava fossero passati anni luce dall’ultimo contatto con l’Italia, e per quelle facce rugose ho provato la tenerezza colpevole dell’astronauta che un tempo si pensava tornasse a casa giovane.
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