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I tre pappagalli – La prefazione di Giacomo Papi a “Maestro Severino”
Oggi esce in libreria Maestro Severino – Quello che ci ha insegnato Cesari (Belleville Editore, 19 euro), un libro su uno dei più grandi editor italiani. Creò le pagine culturali del “manifesto”, fondò e diresse con Paolo Repetti Einaudi Stile Libero, facendo crescere almeno due generazioni di scrittori, che qui scrivono di lui. E raccontano com’era ascoltarlo, farsi ascoltare, parlare, rileggere, riscrivere, inventare i personaggi, lavorare sul ritmo, la lingua, la trama. Molti romanzi che avete amato sono anche suoi. Un ritratto polifonico che, pagina dopo pagina, si trasforma in un viaggio all’interno del laboratorio della narrazione. Questa è la prefazione di Giacomo Papi, direttore della scuola Belleville e della piattaforma di scrittura e lettura TYPEE.
Una notte Severino Cesari mi ha raccontato una storia: un uomo che si sente molto solo decide di comprarsi un pappagallo parlante. Entra in un negozio di animali e spiega la sua intenzione al proprietario che lo porta in uno stanzino sul retro dove ci sono tre pappagalli. L’uomo che si sente molto solo indica il primo, un meraviglioso pappagallo rosso e verde. «Sa parlare?», chiede. «Guardi», risponde il negoziante, «questo qui parla correntemente inglese, francese e tedesco, oltre all’italiano ovviamente». «E quanto costa?», chiede l’uomo. «10 mila euro», risponde l’altro, «non ce ne sono molti così». «E quello che cosa sa dire?», chiede l’uomo solo, indicando il secondo pappagallo, che è bianco e giallo e più piccolo. «Questo oltre all’inglese, al francese, al tedesco e all’italiano, conosce il sanscrito e il greco antico. Pensi che sa recitare a memoria l’Odissea in lingua originale!» «E quanto costa?», chiede l’uomo titubante. «È un esemplare unico: glielo dò per 100 mila euro». L’uomo deglutisce, quei prezzi sono al di là delle sue possibilità, così ripiega sul terzo pappagallo che sembra più vecchio e se ne sta su un trespolo in disparte. «E quello lì?», chiede. Il negoziante allarga le braccia: «Be’, lei capisce, questo è speciale». «Cioè?» «Lo vendo a un milione di euro!» «E perché? È tutto spennacchiato! Che cosa sa dire?» Il negoziante scuote la testa: «Non ne ho idea, ma gli altri due lo chiamano maestro!»
Credo sia l’unica barzelletta che Severino mi abbia mai raccontato, ma spiega alla perfezione, e con grazia, le ragioni di questo libro. Severino Cesari è stato il più importante editor italiano degli ultimi cinquant’anni, probabilmente. Molti dei libri che hanno segnato la narrativa italiana degli ultimi vent’anni sono anche suoi. Era nato a Città di Castello, in Umbria, il 30 novembre 1951 ed è morto a Roma il 25 ottobre 2017. Era malato da tanto tempo, ma ha continuato fino all’ultimo giorno a scrivere, trasformando la malattia nella sua ultima vita. La sua notorietà maggiore è legata all’invenzione e alla direzione di Stile Libero, la collana di Einaudi fondata nel 1996 insieme a Paolo Repetti, che aveva conosciuto alla casa editrice Theoria all’inizio degli anni Novanta, per cui Cesari aveva diretto la collana Ritmi e pubblicato nel 1991 il suo Colloquio con Giulio Einaudi. Prima di allora aveva scritto un solo libro di racconti – Storie per quattro giornate, Sellerio, 1989 –, ma il suo lavoro si era svolto soprattutto in ambito giornalistico, prima al manifesto dove era entrato nel 1977 per occuparsi delle pagine culturali e curare gli inserti La Talpa libri e il domenicale, ideati con Gianni Riotta e Marco Bascetta, poi dalla fine degli anni Ottanta all’agenzia Adnkronos.
Negli anni dell’editoria – periodo su cui si concentrano la maggior parte dei testi di questo libro – il lavoro giornalistico rimase una pratica quotidiana implicita che aveva lasciato in dono una rete di contatti e l’attenzione verso ciò che di nuovo accadeva nel mondo. Severino Cesari fu tra i primi, cioè, a intuire la grande trasformazione che avveniva nella cultura italiana alla fine del Novecento, a comprendere il cedimento delle distinzioni tra basso e alto, pop e accademia, e a praticare questa intuizione con cura quotidiana, senza alcun compiacimento intellettuale, ma con identica curiosità, attenzione e rispetto, sia verso l’alto che verso il basso. È questo lo sguardo che ha orientato e indirizzato anche il suo lavoro sui libri, il modo di concepirli e prendersene cura per raccontare il presente il più a lungo possibile. Il modo in cui lavorava sui testi era radicato dentro il tempo, ma stava anche al di fuori del tempo, perché per lui, credo, non esisteva il presente se non attraverso il passato e il futuro.
In pochi sapevano quanti anni avesse Severino, ogni tanto si giocava a indovinare, qualcuno sosteneva che fosse abbastanza giovane, altri vecchissimo, addirittura eterno, perché prima del cancro aveva i capelli lisci e neri e neppure il cancro gli aveva levato quel suo modo di muoversi e guardare che faceva venire in mente un prete umbro, un contadino etrusco, un sacerdote azteco. Era misterioso, perché era moderno e antico. Nel suo corpo e nel modo di muoverlo si sentiva qualcosa di permanente, come un fondo duro e gentile, di terra. Anche il modo in cui parlava era strano: quando lo faceva in pubblico era pieno di incisi ed entusiasmi, accennava a cose che non sviluppava, avviluppava subordinate e coordinate fino a confondere il filo di tutti e a lasciare nell’aria soltanto l’emozione con cui aveva parlato; quando doveva dire qualcosa di pratico o essere duro, invece, era secco – soggetto, verbo e complemento, se il complemento era proprio necessario, altrimenti il verbo bastava; quando scriveva sms – lo ha fatto fino all’ultimo – mandava testi fluviali, editatissimi, affettuosi che ti costringevano a scrollare molte schermate per arrivare alla fine; ma era quando editava un testo che il suo stile si rivelava: in quei momenti Severino taceva, prendeva tempo, poi incominciava a leggerti in faccia ad alta voce quello che avevi scritto e dopo due pagine, quando già ti stavi abituando al suono della sua voce e ti adagiavi nel compiacimento, diceva: «Qui perdi il lettore», e prima che facessi in tempo a formulare una domanda, riprendeva la lettura finché – dopo due, tre, quattro pagine di riflessioni a cui tenevi tantissimo – parlava di nuovo: «Qui lo riprendi». L’editing di un testo in cui vedeva qualcosa non lo incominciava mai in casa editrice, ma in casa o più spesso in un bar. Aveva un’idea quasi mistica eppure laica della letteratura, che per lui coincideva con la “narratività”, con l’azione di raccontare qualcosa scrivendo.
Non che non amasse gli scrittori più concentrati sulla parola che sulla trama, però per lui erano le storie a farsi scrivere, non gli scrittori a scriverle e quindi, quando si lavorava a un manoscritto, si trattava tutti quanti – scrittore ed editore – di prestarsi alla storia che proveniva da qualche luogo profondo che non aveva senso indagare e neppure provare a nominare. Ogni tanto, se stavi a lungo con lui e arrivava a fidarsi, aveva scatti improvvisi di felicità e si metteva a cantare filastrocche goliardiche o a raccontare barzellette – come quella dei tre pappagalli – che ti facevano ridere solo perché erano così stonate rispetto a quello che credevi lui fosse. Se rimanevi con Severino Cesari abbastanza a lungo, ogni parola sembrava circondata da nuvole di silenzio (ed è per questo che Paolo Sorrentino, nella Grande Bellezza, gli chiese di recitare nel ruolo del poeta muto Sebastiano Paf: «Perché non parla mai?» «Perché lui ascolta»).
Però era il suo corpo, il modo in cui stava nel mondo, la cosa che più mi colpiva di lui. Soprattutto le mani, che sembravano condurre una vita indipendente dal resto, specialmente quando toccavano un libro. Aveva le dita un po’ piatte, gentili, ma con le unghie non grandi e dei peli. Chi ha avuto il privilegio di vederlo toccare un manoscritto che aveva amato ed editato, per l’ultima volta, prima che partisse in stampa, sa che posava il blocco sul tavolo di vetro della sala riunioni della casa editrice, dopo averlo perfettamente ordinato in modo che neppure l’angolo di una pagina uscisse a disturbarne la verginità. Per un istante tirava indietro la schiena e guardava la carta, dimenticandosi di te anche se eri a un metro da lui, e subito dopo alzava le mani, faceva un’altra piccola pausa, prima di incominciare a toccarlo, ad aprirlo, a separare i capitoli, mettendoli in fila uno di fianco all’altro da destra a sinistra, per poi fermarsi di nuovo a sfiorare le pile con gesti veloci, poi, quando era abbastanza, ricominciava a tastare, finiva di disporle, dopodiché si gelava, fermava le mani per respirare con le narici, guardava, e quando pensavi che avesse finito le sue dita ricominciavano a volare sopra le pagine sfiorandole, riapriva i capitoli, un attimo, e li richiudeva, li spostava, per sentire il ritmo del racconto per l’ultima volta prima di lasciarlo andare via, per sentire la scrittura e la narrazione che si trasformavano in peso, in spazio, in massa, in cosa.
L’idea di questo libro è raccogliere quello che Severino Cesari ha insegnato sul leggere e lo scrivere alle scrittrici e agli scrittori che hanno lavorato con lui. Il risultato è un ritratto intimo che ricomincia ogni volta da un’angolatura spostata e alla fine diventa completo, se mai può essere definito completo il ritratto di un uomo. Non è facile distinguere il lavoro sul testo dalla relazione privata, perché i due piani si confondono, confluiscono sempre l’uno nell’altro, nel caso di Severino ancora di più. Ma se io dovessi scegliere tra tutte le cose che ho imparato stando con lui, direi che Severino Cesari mi ha insegnato che si scrive con il corpo, non con la testa, che per scrivere una storia devi essere pronto ad alzarti e a sdraiarti, a strisciare, a protendere le mani e ad abbassare la testa – come abbiamo fatto insieme, io e lui, la notte dei pappagalli per capire in che modo raccontare una scena in cui il protagonista si ritrovava rinchiuso nel bagno di un autogrill. Per scrivere devi metterti nelle condizioni di sentire quello che prova il personaggio che sta vivendo al tuo posto: devi provare il freddo, il caldo, il buio, il senso di sporco, e devi annusare l’odore di una folla, se necessario, o almeno provarci. Severino mi ha insegnato che la scrittura e la lettura sono attività fisiche immaginarie, che si attuano nel «rapporto tra l’occhio e la pagina, che è indipendente dal mezzo», come mi ha detto una volta. Anche le lettere e il testo hanno un corpo, come chi legge e chi scrive. Dopo che il libro aveva preso la sua strada, Severino diceva «per me è un libro bellissimo», anche se non era diventato un bestseller. E se gli domandavi di un personaggio, poteva risponderti: «È l’aiutante magico di Propp», il grande teorico russo della fiaba. Ma l’aiutante magico era lui. Quando non ha più potuto toccare la carta Severino Cesari ha cominciato a raccontare su Facebook la sua malattia. La chiamava «la Cura». Ha raccontato i tramonti romani, i fiori che sul terrazzo continuavano a sbocciare, il vento, le passeggiate faticose, gli aghi nelle vene così distrutte che non si bucavano più, uno a uno i dottori e gli infermieri che aveva conosciuto a «Quantico», l’ospedale che lo ha curato, le macchine, le mille medicine, Emanuela, suo figlio Lorenzo, il fratello, raccogliendo intorno a sé sempre più ascolto e sempre più affetto. Se stava un po’ meglio rispondeva agli sms senza arrendersi alla loro brevità, ma continuando a usarli per raccontare qualcosa, come se fossero lettere.
Questo libro raccoglie le nostre risposte.
Giacomo Papi
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