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Domenica d’agosto: “Nessuno vuole finire al ventisettesimo piano di un grattacielo”

    D’estate i protagonisti di romanzi e racconti – ma anche di film, serie tv e fumetti – vivono esperienze rocambolesche o drammatiche, scoprono se stessi, stringono nuovi legami, fanno i conti con il passato.
    Per celebrare la stagione narrativa per eccellenza, Belleville ha chiesto ad alcune allieve e allievi di cimentarsi in un racconto estivo.

    Dopo le storie di Annalisa Maitilasso, Stefano Adesso e Francesca Perticone, è la volta di tre racconti agostani, che pubblichiamo sotto il titolo “Domenica d’agosto“. Ecco Nessuno vuole finire al ventisettesimo piano di un grattacielo di Arianna Montanari, allieva dei corsi I mestieri del libro con Stefano Izzo e Giulia Caminito Ritratto di famiglia con Giulia Caminito.

    ***

    «Non capisco come puoi dire che lo rifaresti, ti ha mollata alla stazione di Piacenza dopo ventiquattro ore, te ne rendi conto?»

    Il bar del Coin di piazza V Giornate era il posto più freddo della città. Non solo per l’arredo, tutto specchi e acciaio lucidato, linee dritte e pulitissime, ma proprio per la temperatura, che non superava mai i 22 gradi. Fuori, ce ne saranno stati almeno 35.

    «Non è che proprio mi ha mollata, è che non sapeva bene cosa fare… Comunque sì, lo rifarei», mi aveva risposto Livia con quel suo fare tranquillo, «mi spiace solo che vi siate preoccupati così tanto».

    «Io non ero preoccupata, lo sapevo che stavi bene», avevo commentato senza riuscire a mascherare il fastidio. «Solo non sapevo dov’eri, e mi stavano tutti addosso». Buttai giù l’ultimo goccio di caffè shakerato, quello denso che si accumula sul fondo del bicchiere e per prenderlo bisogna spingere in fuori la punta della lingua.

    Da quando ci eravamo riviste non si può dire che fossi riuscita a guardarla davvero. C’erano state poche parole, parecchio imbarazzo. E dire che davanti al suo portone ci avevo anche provato. L’avevo abbracciata sotto i tigli di via Cadore ma l’avevo capito subito che la mia stretta era un po’ troppo forte, che suonava falsa, ostentata. «Ma cos’hai fatto?», le avevo poi chiesto scuotendo la testa, esibendo tutto lo scandalizzato stupore di una vecchia beghina. «Mi andava così», aveva risposto Livia stringendosi nelle spalle. Il mio orgoglio allora si era frantumato di fronte al suo sorriso timido e coraggioso e non ero più stata capace di dire granché.

    Eravamo salite sulle bici per andare lì, per mancanza di alternative forse, che il 17 agosto cosa vuoi trovare di aperto, solo il bar all’ultimo piano del Coin, il posto più freddo della città, e mi ero sentita friggere di fronte a lei, sulla panca addossata al muro. La superficie liscia in ecopelle che si incollava alle cosce nude, il Nokia sul tavolo, silenzioso, che sembrava segnasse sempre la stessa ora, le 16.22. Intorno a noi, una manciata di poveri milanesi defraudati delle vacanze, costretti a riparare in un bozzolo di aria condizionata.

    Mi ricordo che in un angolo c’era un tizio magrolino, l’avevo notato subito. Indossava le Puma che io portavo alle medie e aveva il pomo d’Adamo così pronunciato che c’era da chiedersi come facesse, la pelle, a non sgualcirsi lì intorno. Mi sembrava un po’ sfigato ma non era brutto, e poi in quel momento mi sarei aggrappata a chiunque pur di non parlare con Livia della sua avventura del cazzo. Anzi, sarei andata volentieri a sedermi con lui, mollandola lì da sola, così magari capisce come ci si sente, avevo pensato. Peccato che lui fosse già impegnato a fare lo splendido con la tipa che gli sedeva di fronte – era bionda e con due tette così, ma lo vedevo, che aveva la fronte piena di brufoli.

    «Scusa, vado un attimo in bagno», avevo detto a Livia dopo aver riposto il mio bicchiere di caffè sul tovagliolino nero. Ero passata di fianco al tizio col pomo d’Adamo ancheggiando studiatamente sulle mie All Star rosse, gli avevo sfiorato la spalla con il fianco ma quello niente, non aveva neppure alzato lo sguardo, neanche un pochino, neanche per sbaglio.

    In compenso era stata Livia a guardarmi, mentre tornavo a sedermi di fronte a lei. Non con insistenza, che non l’ho mai vista insistere, non credo neanche che ne sia capace, più come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se non si desse alternativa. Mi teneva addosso quegli occhioni che risaltavano grandi nel viso piccolo, occhioni da cerbiatto, color nocciola. E visto che lo vedevo, che se lo chiedeva e che stava per chiedermelo «C’è qualcosa che non va, Ire?», che era lì lì per domandarmelo e io mai avrei saputo risponderle, dirle la verità, essere sincera, mi era uscito un «Guarda lì», e avevo indicato col mento il tizio col pomo d’Adamo e la tizia con le tette. «Quei due stanno facendo un primo appuntamento al bar del Coin», le avevo detto. «Si può essere più sfigati?». Lei aveva riso perché il mio essere stronza la divertiva, e la liberava, io credo, dal suo essere sempre così buona.

    Quell’anno Livia era venuta al mare con me, nello stesso paesino romagnolo dove andavo tutti gli anni, quello che vanta un porto canale piuttosto grazioso, i natali di Marco Pantani e un grattacielo bianco e azzurro, smisuratamente alto rispetto al contesto, che ci permetteva di trovare sempre la strada di casa e che portava il nome della donna amata dall’ingegnere che l’aveva progettato, Marinella.

    Tutti i pomeriggi il grattacielo proiettava la propria ombra sulla spiaggia, uno stabilimento dopo l’altro, come una meridiana a cui non era dato sfuggire. Quando arrivava al nostro ombrellone mia madre, infastidita da quel buio improvviso, raccoglieva in fretta il suo telo e la borsa di paglia, e andava via. «Vi aspetto per cena», diceva soltanto, e ci lasciava libere di accendere le nostre Lucky Strike da spegnere nella sabbia.

    Di sera, la piazza del grattacielo si riempiva di adolescenti bruciati dal sole. Ci si incontrava tutti lì, chi era in vacanza e chi viveva nei dintorni, e lì si rimaneva per ore, con un Bacardi Breezer o una birra in una mano e una sigaretta nell’altra. «Ve’ mo’, sono arrivate le milanesi», dicevano i nostri amici romagnoli vedendoci arrivare, e a noi, gambe nude, pance scoperte e lucidalabbra al lampone, ci sembrava di poter avere tutto.

    Quel lungo parallelepipedo bianco e celeste non ci mollava mai, occupava il nostro sguardo dalla mattina alla sera. Il modo che avevano alcuni amici, vagamente compiaciuto, di dire «Abito al grattacielo» suonava sciocco e provinciale alle nostre orecchie di città; ci lanciavamo un’occhiatina complice corredata da una smorfia di cinismo e ribattevamo che noi no, stavamo in una villetta su una via interna, che aveva anche un piccolo giardino. Ogni tanto, però, ci arrivavano delle informazioni che rintuzzavano la nostra curiosità – tipo che c’erano quattro ascensori ma se c’era un black out era un casino, che poteva succedere di farsi 15, 20 piani a piedi, e che quando l’avevano costruito, negli anni ’50, era il palazzo più alto d’Italia, e solo dopo era venuto il Pirellone. «Se vai abbastanza in alto si vede la ruota di Mirabilandia», dicevano, «solo che l’hanno costruito sulla sabbia, sicuro viene giù prima o poi», e mentre loro ridevano, forse per smorzare quel fosco presagio, capitava che a Livia scappasse una frase tipo «Mi piacerebbe salirci, un giorno, vedere com’è da dentro», e che io subito mi trovassi ad annuire, «Sì, anche a me, in tutti questi anni non ci sono mai entrata».

    Poi un giorno i fratelli Marchica, 18 e 16 anni ed entrambi, ancora, l’apparecchio ai denti, avevano improvvisato una festa al grattacielo. «I nostri genitori sono partiti», avevano detto, «venite per le 10, portate da bere», e noi, tutte allegre e con le minigonne delle grandi occasioni, avevamo finalmente varcato l’ingresso che sbirciavamo ogni sera di ritorno dalla spiaggia.

    Nel rincasare, qualche ora più tardi, avevamo scambiato solo poche parole distratte. Non avevamo avuto, io credo, il coraggio di confidarci la reciproca delusione, ma il nostro silenzio era lì a parlare per noi: il grattacielo si era rivelato di uno squallore innominabile. Gli ascensori, gli stretti corridoi, le pareti annerite da decenni di fumo passivo trasudavano tristezza. Si sentiva, dal ventisettesimo piano dove stavano i Marchica, il vento mugolare in modo sinistro, e le porte tutte uguali, in legno chiaro, i pavimenti in linoleum, davano l’idea di trovarsi in un residence costruito per la classe media, più che in una casa fatta per viverci. E quel che era peggio era che nei dettagli sopravviveva, struggente e malinconica, tutta quell’ambizione di futuro e grandezza che aveva portato l’ingegnere romantico a disegnare il grattacielo.

    Eppure, per una qualche forma protettiva verso quel luogo che abitavo tutte le estati e che per me era casa, famiglia, identità, un attimo prima di sistemarci sul letto a castello mi ero sentita di dire, di dirlo ad alta voce, di dirlo a lei e a me, «Bello il grattacielo, eh, anche più bello di come sembra da fuori». Livia aveva annuito in uno sbadiglio, «Sì, sì, bello, molto», aveva detto senza guardarmi, e aveva spento la luce in fretta, «Buonanotte».

    Un paio di settimane più tardi, l’ultima sera al mare, che a sedici anni sembra l’ultima della vita, avevamo passato la notte in spiaggia, aspettando che il sole facesse capolino all’orizzonte. Poi le vacanze erano finite, eravamo tornate a Milano e il giorno dopo era successo tutto.

    Mia madre mi aveva svegliata scuotendomi per le spalle, le luci accese, gli occhi increduli e spaventati, e senza riuscire a dirmi niente mi aveva messo in mano il cordless. «Pronto», avevo farfugliato nella cornetta, più per un gesto automatico, incorporato negli anni, che per lucida consapevolezza.

    «Irene», mi aveva risposto una voce da uomo adulto dall’altra parte del telefono, una voce scossa che non avevo riconosciuto subito e che non aveva ritenuto necessario farsi riconoscere. «Livia è scappata di casa», mi aveva detto.

    Ora, su questo punto le cronache si dividono. La cronaca ufficiale, ovvero la mia, riporta come io mi sia alzata dal letto con uno scatto, subito in piedi, in allarme, sull’attenti, abbia esclamato «In che senso scappata?» e subito mi sia resa disponibile per contribuire alle ricerche della fuggitiva.

    C’è poi una cronaca minoritaria, alimentata perlopiù da testimoni incerti, quali mia madre e il padre di Livia, di certo troppo sconvolti per essere attendibili, che hanno sempre sostenuto che di fronte a quella scoperta, «Livia è scappata di casa», io abbia risposto candidamente con due sole parole, un attimo prima di girarmi dall’altra parte e coprirmi gli occhi con il cuscino nel tentativo di riprendere sonno. Le due parole, dicono, erano «Beata lei».

    A prescindere da dove risieda la verità, un’ora più tardi mi ero trovata davanti a una grossa scrivania di legno scuro, in un ufficio dall’illuminazione scarna e polverosa che sapeva di decenni passati. Accanto a me, preoccupata come se a scappare fossi stata io, occhi lucidi e voce tremolante, c’era mia madre; di fronte, sguardo accigliato e inquietudine così palpabile che sembrava di poterla toccare, stava il padre di Livia.

    «Dov’è andata?», mi chiedevano. «Non ne ho idea», rispondevo. «Non è possibile, siete sempre state insieme, tutti i giorni, fino all’altro ieri», ribattevano. «Diccelo, dov’è andata?», e io non potevo fare altro che rispondere, di nuovo, «Non ne ho idea», «Non può esserle venuto in mente così, in un giorno, deve averti detto qualcosa», «Ha conosciuto qualcuno al mare?», «Si è trovata il fidanzato?». Io scuotevo la testa e più passava il tempo, più loro insistevano e più l’apprensione per le sorti della mia amica cedeva il posto a un fastidio intermittente, a un vago risentimento che faticavo a nascondermi. Mi sentivo una cosa un tempo apprezzata e poi passata di moda, dimenticata in un angolo.

    Con un giro di telefonate piuttosto spericolato riuscimmo a risalire al compagno di fuga. Era un ragazzo di San Donato poco più grande di noi, amico dei Marchica, che avevamo conosciuto quella benedetta sera al grattacielo. Damiano, si chiamava. Con la scusa di accendere si era piazzato sul divano in mezzo a noi e, senza nessunissima ironia, ci aveva spiegato fin nel dettaglio la sua idea di vita autentica, che, diceva, aveva mutuato da Alexander Supertramp – aveva però le spalle larghe e gli occhi verdi, e Livia non era stata capace di temporeggiare neanche un secondo quando, dopo aver recitato un paio di versi di Walt Whitman, le aveva chiesto il numero. Io ero rimasta in silenzio, seduta accanto a loro con la testa china sul cellulare, a messaggiare con un interlocutore che non esisteva.

    «È carino, ma mi sembra un po’ un coglione, no?», le avevo detto appena lui si era spostato, con i suoi jeans strappati, dall’altro lato del salotto.

    «No, a me sembra solo bonissimo», mi aveva risposto lei con sguardo sognante. Pensavo che dopo quella sera non si fossero più parlati, e invece.

    Si era portata dietro, mi stava raccontando, soltanto un pacco di cracker e un tubetto di maionese. Il cellulare l’aveva lasciato accanto al letto. Niente soldi, perché, diceva Damiano, «Gli uccelli volano liberi, hanno bisogno solo delle briciole per vivere». Il piano di fuga era confuso, puntavano verso sud, dove lui aveva certi amici, ma non era importante perché, diceva Damiano, «Quello che conta è il viaggio, non la meta». Erano saliti su un interregionale che partiva all’alba da Rogoredo e si erano fatti il viaggio chiusi in bagno, fino a Piacenza. Avevano pranzato coi cracker e la maionese, si erano riposati sul prato del giardino Margherita, erano finiti poi a dormire sotto i portici della piazza dei cavalli e avevano sentito freddo. La mattina dopo lui aveva trovato un passaggio in macchina fino ad Ancona – ma c’era un posto solo, stretto, sul sedile posteriore, non potevano proprio starci in due, le aveva detto con un buffetto sulla guancia. Lei, da una cabina, aveva telefonato ai suoi: «Mi venite a prendere?».

    Messa così, la sua avventura sembrava anche più triste del grattacielo di Cesenatico.

    «I tuoi mi avevano dato questa», dissi a Livia quando ebbe finito di raccontarmi tutto, mostrandole una paginetta ripiegata in quattro su cui spiccava il suo corsivo tondolotto. «Credevano che avrei potuto scoprire qualcosa, ma ho scoperto solo che…».

    «Che imbarazzo», mi interruppe lei portandosi una mano alla fronte e scuotendo la testa, «speravo l’avessero buttata».

    «Ho scoperto solo che», ripresi a dirle con sguardo malizioso «la città mi sta stretta, è un labirinto di cemento gommoso in cui mi sento soffocare», le dissi citando le sue stesse parole. «Io voglio vivere libera, senza un programma e senza tante ragioni», proseguii cercando di dare voce a quell’idealismo schietto che il prof di Italiano le segnava sempre in blu ma che a me, in fondo, inteneriva un sacco. Lei, la mia migliore amica, aveva riso, «Dai smettila, che mi vergogno», si era sporta lungo il tavolo e mi aveva preso la lettera dalle mani. Io non le avevo detto niente della frase sul grattacielo, l’unica che davvero ricordo e che mi aveva fatto sentire tanto piccola e tanto ingenua: «Io non voglio finire a lavorare in un ufficetto grigio al ventisettesimo piano di un grattacielo», aveva scritto. «Io non sono come gli altri». Mi sembrava che non fosse più tanto importante.

    Poi avevamo raccolto le borse da terra per andare via, che i genitori di Livia non sentivano ragioni, la volevano a casa per le 18. Avevamo pagato i caffè e, dopo aver lanciato un’ultima occhiata alla coppia di sfigati accanto al bagno, ci eravamo lasciate alle spalle l’ultimo piano del Coin per immergerci di nuovo nel caldo umido della strada, che era gommoso e soffocante come la nostra città.

    > Leggi qui gli altri racconti della rubrica “Domenica d’agosto“.

    Redazione Belleville