Ho imparato a scrivere in cantiere: a volte mi capita di pronunciare questa frase.
Sono, di solito, incontri pubblici, nei quali per ragioni a volte di intrattenimento, spesso per posizionamento, a volte per pura vanità, si finisce per interpretare un ruolo. Il mio è quello della scrittrice ingegnera, la donna che dopo la laurea e il dottorato, dopo una breve incursione nella ricerca accademica e tanti anni di professione, ha finito per dedicarsi alla scrittura. Non è un ruolo che interpreto volentieri, non mi piacciono le semplificazioni, e con il mio essere ingegnera ho sempre avuto un rapporto contrastato. Ma dovendo convivere con questa etichetta, ho finito per approfondire il mio essere doppia, studiando gli scrittori tecnici, a partire da Primo Levi. Ma di questo, abbiate pazienza, proverò a parlare fra un poco.
Per ora voglio partire dalla mia boutade. Ho imparato a scrivere in cantiere, dico quando devo mettermi in posa, e subito il pensiero vola a Jack London che scrive Martin Eden su un barile. Ma non è così. Non ho scritto una sola riga negli anni di cantiere più intenso, come non ho scritto una sola riga per tutti gli anni della laurea e del dottorato. Non ne avevo bisogno, lo studio di come è fatto il mondo mi occupava completamente. Sono stati anni di pochissimo sonno e completa immersione. Come si analizza un fenomeno, i modi per schematizzarlo, analizzarlo, semplificarlo, deformarlo fino a trasformarlo in qualcosa di concreto, riempivano ogni mio orizzonte. Ho scavato per anni, senza pensare ad altro. Solo, quando non studiavo, leggevo romanzi. Quello che mi passava fra le mani, senza alcun ordine né disciplina. Leggere è sempre stato il mio posto segreto.
Ma dentro a ogni frase c’è sempre qualcosa da salvare, e se vogliamo trovare una verità nella mia basta girarla, invertire il meccanismo biella-manovella, e dire che il cantiere mi ha insegnato a scrivere. Ecco, questa è una frase vera, senza posizionamenti. Il cantiere mi ha insegnato a scrivere, perché mi ha insegnato a osservare. Prima del cantiere, negli anni di formazione accademica, avevo difficoltà a vedere le cose. Sapevo molto, approfondivo tutto, ma difficilmente vedevo veramente. Ero affascinata dalla perfezione di certe opere idrauliche. Ammiravo le soluzioni ingegnose, mi piacevano le linee curve. Lo sfioratore a calice, la diga ad arco gravità di Rosamarina, che andai visitare con il Dipartimento. Sognavo di progettarne una uguale. Tutti gli allievi ingegneri sognano le grandi opere, a nessuno verrebbe in mente di sognare l’ordinario, la cura del già realizzato, la noia della manutenzione. Per questo la manutenzione è la cenerentola dei programmi di spesa per le opere pubbliche, e ci perdiamo dietro alle fantasie delle grandi opere, ponti tanto grandiosi quanto ipotetici.
Ma non voglio divagare. Conoscevo la meccanica dei fluidi, ne discretizzavo le equazioni, programmavo, sapevo calcolare i profili di corrente della piena. Eppure la prima volta che sono arrivata nel mio primo cantiere, un piccolo raccordo di argine di modesta rilevanza, non ho riconosciuto i luoghi. Dove mi hai portata, volevo dire al geometra mentre scendevo dall’auto. Cosa è questo posto? Perché c’è tutta questa polvere, questo rumore? Dov’è l’opera che ho pensato, calcolato, progettato, disegnato con tanta cura? Perché la realtà mi fa questo affronto, di non assomigliare a come l’aveva immaginata?
Ci ripenso spesso, quando mi dispero perché sulla pagina spuntano personaggi non previsti, fioriscono le sottotrame, quando nel mio procedere dentro la storia che sto scrivendo non ritrovo nulla del come l’avevo pensata. Ripenso a me in cantiere, gli scarponi nel fango, che sogno sfioratori a calice e dighe ad arco mentre discuto con il proprietario di un piccolo appezzamento che dice che no, lui da là il camion non me lo fa passare. Ci ripenso, e capisco che servono entrambe le fasi, l’idea della grande opera, e la sua realizzazione terrena. Si costruiscono le opere che si possono realizzare, esattamente come si scrivono i libri che si è in grado di scrivere. Non quelli che si vorrebbe fare.
Allora il cantiere mi ha insegnato a osservare, a cercare di conoscere prima tutti i proprietari che diranno di no, che non vorranno l’opera, a capire dove è fangoso, come piove, pensare qual è il momento giusto per iniziare i lavori. Il cantiere mi ha insegnato ad adattarmi all’imprevisto, come quando ho cercato di scrivere un romanzo che raccontasse quarant’anni della Sicilia, e dopo avere fatto seicentomila battute ed essere arrivata a malapena a quattro sono stremata, e mi fermo. Cambio piano. Lo trasformo in una bilogia, e riprendo la storia dopo vent’anni. Il cantiere mi ha insegnato che un romanzo è un progetto, un lavoro artigianale, un meccanismo imperfetto, e come tale lo devo rispettare. Aprire al momento giusto, chiudere prima che si guasti. Per questo mi piace. Della vita ho imparato l’imperfezione, e cerco di restituirla. Il cantiere mi ha insegnato che quello che ha un inizio ha anche una fine.
Nulla dies sine linea, si dice a volte quando ci si addentra nei discorsi sul metodo nella scrittura. Nessun giorno senza scrivere. Per me non so se è così vero, di certo Nulla die senza pensiero del romanzo, questo lo posso dire. I miei romanzi sono progetti, che via via organizzo. Mi appunto la prima idea, comincio ad accumulare il materiale, immagini, articoli di giornali, libri letti e da leggere. Arriverà il loro momento, del romanzo su un carcere, della storia del gruppo di ricerca con morto, dell’isola che si specchia di notte. Arriverà o forse no, ma se così sarà il materiale sarà accumulato, sedimentato, pronto per essere aperto.
Classifico la mia vita in cartelle sul pc, filtro tutto attraverso il metodo, anche se sono consapevole che non è indispensabile, è solo ossessione del controllo la mia. So che potrei scrivere anche senza tutti gli oggetti di indagine che mi porto dietro dal lavoro, le tabelle per controllare le battute giornaliere, i quaderni numerati con date e spunti segnati con rigore, le tavole sinottiche per verificare personaggi in scena o scansioni temporali, gli appunti su albe e tramonti giorno dopo giorno. Lo so, ma è solo così che riesco a lavorare. E proseguo a classificare.
Osservare, come scrivere, è una forma di malattia. A volte penso che vorrei ripercorrere tutte le strade che ho fatto, tutti i posti dove sono stata, adesso che il cantiere mi ha insegnato la scrittura, ne ha fatto i miei occhiali, anche se non sempre sono comodi. Assomigliano a quelli della bambina del racconto di Anna Maria Ortese, ricordano la disperazione di chi non vuole più vedere, il Did you see more glass? di Salinger.
In quanti posti sono stata prima di vedere davvero, mi dico, quando ancora pensavo che la realtà fosse uno sfioratore a calice e non il terreno fragile su cui poggia la diga. Quanti romanzi scriverei, tornando in quei posti, penso, anche se non è vero. Uno dei miei primi ricordi è proprio di una strada. Sono le chiome degli alberi che vedevo dal sedile posteriore dell’auto dei miei genitori, che annunciavano l’arrivo a casa. Sono i salici a bordo strada della SS 114, strada statale orientale sicula, a un’oretta scarsa da Siracusa, e non ho bisogno di tornarci per vedere altro. Il mio immaginario era già tutto là, sulla punta di quei salici, e il cantiere mi ha permesso di sistematizzare tutto. Di raccontare le città dei miei romanzi, immaginarie o reali che siano, come se le vedessi. Prima dall’alto, nella loro evidenza topografica. L’orografia, le colline, i fiumi, gli avvallamenti. Vedo le strade, so dove sorge il sole, capisco le ombre, sento le zone umide. È un volo d’uccello, un modo di raccontare per me fondamentale, nella globalità smaterializzata in cui viviamo. Raccontare il paesaggio per me è un atto politico, come anche usare la parola tecnica, rimetterla al centro, esaltarne il potere evocativo. Depressione, resilienza, temprare, a ogni parola il suo significato originario. Riportarla indietro, per farla esplodere di nuovo, come ho cercato di fare con Nina sull’argine. Mi piacerebbe essere riconosciuta un giorno per questo, per i miei occhiali, come è successo a me leggendo una poesia di Wilcock: una vena calcarea traforata da infiltrazioni di alto tasso salino. Sono subito andata a vedere che studi avesse fatto, per scoprire che era un ingegnere.
Ma uno scrittore tecnico è anche altro. Spesso è uno scrittore doppio, e se di Wilcock non conosco abbastanza l’opera per dirne con sicurezza (anche se il suo Libro dei mostri qualche suggestione può darla), studiandone altri qualcosa credo di aver capito. Si può essere doppi in tante maniere. Si può integrare la propria professione nella scrittura, come fa Primo Levi, con l’articolo Ex chimico, con il racconto Tiresia ne La chiave a stella, forse anche con Carbonio de Il sistema periodico, tentando di tenere tutto insieme, come un giocoliere con tante palline, la Shoah e l’impolmonimento delle vernici, la carne dell’orso e la chiave a stella che si fa spada per Libertino Faussone. Si può inventare una lingua lontana e inaccessibile, forse a testimoniare la fatica della professione, come Carlo Emilio Gadda. Si può decidere di scrivere per tutta la vita sotto pseudonimo, come Paolo Barbaro, al secolo Ennio Gallo, in cui la scissione è dichiarata. Da una parte lo scrittore, dall’altra l’ingegnere.
Io non so come mi posiziono. Credo di aver capito, in questi miei pochi anni di natura doppia, che devo integrare le parti, non rifiutare la mia formazione. Non sbandierarla come posizionamento, così da nascondermici dietro, per poi allontanarla in privato, ma lasciare che i due mondi si parlino, che i vasi proseguano a comunicare, nell’equilibrio delle pressioni. In fondo è quello che è successo. Negli anni i miei due mondi, separati inizialmente da una valvola a tenuta, hanno cominciato a contaminarsi. Scrivendo relazioni tecniche mi sono allungata spesso nel terreno del contenzioso, quel bordo liminale dove la tecnica sfiora la giurisprudenza. Era, a suo modo, un uso creativo della lingua. Un dire non dire, un vedo non vedo, l’utilizzo passivo aggressivo degli incisi, con è appena il caso di sottolineare che usato come guanto di sfida all’arma bianca. In guardia, fellone!
È stato molto divertente manipolare la pagina fino a renderla una superficie apparentemente liscia, di lettura comprensibile a tutti, ma con le asperità ben nascoste, pronte a bucare la pellicola sottile del primo significato. Forse è per questo che, ai primi romanzi, alcuni commenti sul mio stile mi facevano rimanere male. Scrittura pulita, mi si diceva, stile scorrevole, e a me pareva un appunto negativo. Se è scorrevole non è letteraria, pensavo, schiacciata dalla paura dell’impostura dell’abusiva delle lettere. Se è scorrevole allora non sono all’altezza, rimuginavo, e così in questi anni mi esercito a tenere insieme le parti, a frenare le inquietudini. Mi guida il desiderio di farmi capire, anche quando organizzo uno stile più complesso, di parole inventate e periodi zoppi. Mi guida l’intento di Primo Levi, il rapportino di fine settimana come modello letterario come diceva lui, anche se sospetto che anche per lui alcune affermazioni fossero un modo per nascondersi.
Però analogamente posso dire che il mio modello letterario sono state le centinaia di relazioni tecniche che ho scritto in anni di esercizio e professione, tutte con il medesimo schema. Un’introduzione generale (un inizio come un volo d’uccello), una prima parte che inserisca il progetto nel suo contesto storico (ecco la presentazione dei personaggi), un corpo centrale che sviluppi le parti (mi muovo dentro lo sviluppo della storia), e le conclusioni, che anticipano i progetti successivi, i lotti di completamento. Chiusure sospese, mai definitive, come mi piace che finiscano i miei romanzi. Allora sì, alla fine di questo lungo giro forse torniamo al punto: il cantiere mi ha insegnato a scrivere, perché mi ha insegnato a osservare.
Come l’altra sera, a una presentazione in un piccolo paese pieno di vento, quando al tramonto le rondini velavano il cielo e io seguivo il loro movimento mentre il relatore parlava, fino a che l’occhio mi si è inceppato. Dalla grondaia sotto la quale le rondini entravano e uscivano veloci scendevano due imbocchi di pluviale che si raccordavano poco sotto. Li ho fissati per qualche minuto, senza capire, e avrei voluto fermare tutto, dire Scusate, ma perché è fatto così quel pluviale, lasciate stare le rondini, guardate il tubo, perché ci sono due imbocchi? C’è una doppia pendenza del tetto forse? E perché c’è una doppia pendenza? Sembra a falda unica… Così osservavo e pensavo, anche se non ho detto nulla. Perché un conto è raccontarsi in maniera civettuola, dire Ho imparato a scrivere in cantiere come Jack London su un barile, un conto è denudare le proprie fissazioni. Anche se alla fine scrivo per questo. Perché quel pluviale sono i miei occhiali, con cui guardo dove gli altri non guardano.



