In occasione dell’uscita in libreria di Baccano&Piagnisteo (Re Nudo 2025), abbiamo chiesto a Livia Valenti, che ha frequentato l’edizione 2023/2024 della Scuola annuale di scrittura, di rispondere ad alcune domande sul suo esordio.
Buona lettura!
1. La protagonista di Baccano&Piagnisteo si chiama Lilia, vive in zona Porta Venezia a Milano, ha un carattere sfrontato, una migliore amica dalla battuta tagliente e una vera e propria ossessione per Leopardo, il ragazzo che frequenta. Come è nato il suo personaggio?
È nato da me. Significa che sono io? No. Significa che è tutto inventato? Neanche. È cosa comune, si sa, ispirarsi alla propria vita scrivendo il primo romanzo. Ma anche il secondo, terzo, quarto… Oggi si discute molto di autofiction, si sente parlare di pornografia dell’io ecc. Quando leggo un libro in prima persona singolare mi domando subito “è vero? è inventato?” e mi scaravento a cercare informazioni sull’autore… da lettrice sono la prima vittima di questa “malattia del secolo”. Da scrittrice mi son detta: “Mi vergogno a raccontare gli affari miei ma non mi vengono chissà quali altre idee, che faccio? E poi, anche se scrivo di me, sto inventando mille cazzate… Meglio aderire alla realtà, o gonfiare la storia di finzione?” Il pudore e la vergogna li ho gestiti facendoli diventare un tema del libro con una sorta di operazione metaletteraria, quando Lilia e Isabella si dicono ma pensa che vergogna quando tua madre leggerà tutte ste porcherie… e da qui ho risolto anche la faccenda dell’io che non sono io. Ho manifestato questo equivoco partendo dall’elemento più identitario del personaggio: il nome. Penso che molti scrittori si proteggano dall’accusa di “egocentrismo e narcisismo” cambiando giusto il proprio nome, ma alla fine sono sempre loro anche se si ribattezzano. Nel romanzo le due amiche scelgono il nome da dare a questa protagonista dicendo proprio non puoi chiamarti Livia!. E da lì il cambio di una povera consonante.
2. Quanta importanza hanno i dialoghi nella tua storia? E l’ambientazione?
I dialoghi parecchio. Lilia e Leopardo parlano poco, spesso lui non le risponde e Lilia si convince che chi non dice niente ha più da dire stando zitto. Lilia e Isabella parlano tanto, quel silenzio che vige con Leopardo si ribalta in una chiacchiera quasi estenuante con Isabella che ha un’opinione su tutto e sa dire le cose solo con quella schiettezza che mette a disagio. Ora che ci penso, in effetti, ogni volta che Isabella entra in scena è attraverso un dialogo, una litigata, una polemica.
Per l’ambientazione avevo in mente di far emergere molto di più le due città dove si svolge il romanzo, Milano e Firenze, di far percepire il conflitto anche nei luoghi, ma è un’idea che non sono riuscita a sviluppare. Emergono meglio i luoghi chiusi, un po’ lugubri e claustrofobici, la stanza, il bagno, il pub, il manicomio… sono tutti posti squallidi, sporchi, dove la protagonista si caccia per curiosità morbosa, invidia esistenziale e desiderio imitativo (a.k.a. essere radical chic).
3. È risaputo che scrivere di sesso è difficile, ma tu lo fai con grande disinvoltura. Come hai approcciato le scene erotiche in Baccano&Piagnisteo? Avevi in mente qualche riferimento, qualche modello a cui tendere o da evitare a ogni costo?
Con disinvoltura non so, avevo paura risultasse ridondante, noioso. Diciamo che ho tentato di trasformare la paura di ridondanza in una “scelta di stile”: nella prima parte parlo molto di sesso, lo addenso nelle prime cinquanta pagine per poi cambiare prospettiva, entrare più nell’ossessione della protagonista. Alcuni riferimenti sono stati I love dick di Chris Kraus, un libro/saggio/memoir scritto in forma epistolare che indaga l’ossessione psico-sessuale della protagonista, Diavolo in corpo di Raymond Radiguet, Avventure della ragazza cattiva di Mario Vargas Llosa e la rivista Torazine.
Penso che la difficoltà, più che nello scrivere di sesso, stia nella forma con cui lo si fa: avevo paura di suonare retorica. Ho cercato di evitarlo inserendo più elementi pulp possibili, sporcando molto; certo, molte cose risulteranno ancora romantiche, vanilla, ma ho preferito rendere il racconto del sesso schifoso, perverso, disturbante piuttosto che patetico. Il disgusto poi si manifesta in maniera molto più forte e fisica rispetto alla dolcezza. Per questo ho inserito tante metafore su strumenti chirurgici, saliva, pozioni, video terroristici…
4. Cosa ti porti dietro dell’esperienza fatta alla Scuola annuale di scrittura?
Il primo giorno è stato deprimente: mi son sentita minuscola mentre leggevo ad alta voce le quattro righe che avevo scritto in quattro giorni, che già mi facevano schifo, figuriamoci leggerle davanti a tutti. Dopo l’annuale, scrivo ancora quattro righe in quattro giorni, mi fanno ancora schifo, ma non mi sento più minuscola. Quello schifo di cui parlo è la perenne sensazione che quel che hai scritto sia difettoso, storto, e mi vergognavo da matti perché la sua imperfezione era la mia imperfezione. Saranno stati i professori, l’ambiente per niente gerarchico, i compagni che non ti fanno mai sentire in competizione, ma quest’esperienza – oltre ad avermi insegnato a usare magistralmente il narratore in terza persona soggettiva – mi ha trasmesso una grande fiducia e stima in quel testo che prima consideravo un corpo estraneo repellente, e adesso vedo solo come parte di me, e va bene che sia un po’ storta e strana.
