Perché la lettera è considerata un genere marginale, eccezionale? Per esempio perché è l’unico in cui il destinatario non è generico: anzi è esclusivo. Perfino la tenzone poetica e la lirica amorosa sono pensate, di norma, per una ricezione ben più ampia del solo antagonista, del solo amato. La missiva privata invece si rivolge a un lettore ben preciso, a una lettrice e a lei sola.
Certo, uno scrittore affermato (o presuntuoso) può immaginare che le sue lettere verranno un giorno raccolte e pubblicate… Ma su questa potenziale fantasia di divulgazione, diciamo orizzontale, che porterebbe a scrivere lettere curatissime e anodine, prevale di solito la tendenza verticale alla chiacchierata fuori dai denti, alla confidenza intima o addirittura impubblicabile. (Ecco di nuovo la questione della censura, così centrale per ogni riflessione sull’epistolografia.) La lettera in fondo è proprio questo: il corrispettivo scritto di un colloquio diretto. Di qui espressioni come “voglio parlarti di…”, “scusami il silenzio…”, “bello sentire la tua voce…” Il suo punto di fuga è costantemente l’interlocutore. Un poema o un romanzo terminano con una conclusione lungamente preparata; una lettera si arresta ritualmente con le scuse per l’impossibilità (tempo, impegni, altre lettere!) di proseguire oltre. L’affabulazione si vorrebbe infinita. E occorre giustificarsi, perché il destinatario ha tutto il diritto di esigerla.
Della presenza implicita di questo signore o signora mi interessano due aspetti. In primo luogo, per il dialogo le lettere approntano uno spaziotempo apposito. Giuseppe Antonelli parla di un “cronotopo epistolare”; mi perdonerete se lo descrivo come una sorta di camera a ore, visto che nella lettera privata è sempre presente un investimento emotivo se non addirittura erotico. Qui la temporalità non è quella di chi scrive, né quella di chi legge (a prescindere dal fatto che la tecnologia ci permette di abbreviare lo scarto tra le due). Diciamo “Sto bene”, anche se dovremmo dire “Stavo bene quando ti ho scritto questa frase”. Chiediamo “Stai bene?”, anche se dovremmo chiedere “Starai bene quando leggerai queste parole?” Anche lo spazio è come sospeso: possiamo iniziare la lettera nel luogo A e concluderla nel luogo B o C, dichiarandoli o meno. Questa dimensione alternativa evidentemente si presta a ospitare ogni tipo di invenzione o finzione letteraria: ogni stratagemma utile per “parlare a tutti”.
Ma naturalmente – secondo aspetto – parliamo a uno o una. La lettera è rivolta a una persona ben precisa. Lo diamo tanto per scontato che spesso non ci poniamo neppure un serio interrogativo etico: a che titolo leggiamo una lettera che non era rivolta a noi?
Chi ci autorizza a leggere la corrispondenza privata di Leopardi? È morto da secoli; ma così pure i crani esposti nei musei di antropologia; tuttavia oggi se ne chiede la restituzione e l’inumazione. “Seppellire” la corrispondenza, dunque? Accade già, e più spesso di quanto si creda. In Italia, gli epistolari spesso giacciono per generazioni negli archivi di famiglia. La loro pubblicazione è ben più limitata e parziale che nei paesi anglosassoni, per ragioni molto interessanti – per esempio la differenza tra culture di matrice cattolica o protestante. Gli italiani si mostrano curiosamente vigili nel proteggere la privacy di antenati di cui ignoravano perfino l’esistenza.
Ma qui il discorso sarebbe molto lungo. Spostiamoci sul terreno dei principi: in che senso si può dire che quel dato messaggio ci riguarda, che è per noi? Al netto delle motivazioni di carattere storico-culturale, l’unica soluzione è che nella scrittura epistolare noi troviamo un appagamento estetico, il tipo di piacere-sapere che ricaviamo da un’opera d’arte.
Mi viene in mente ora – la digressione è solo apparente – non una lettera, ma un memoir: Se questo è un uomo.
Primo Levi spiega (in I sommersi e i salvati) di averlo composto “senza pensare ad un destinatario specifico”. “Per me, quelle erano cose che avevo dentro, che mi invadevano e che dovevo mettere fuori: dirle, anzi, gridarle sui tetti; ma chi grida sui tetti si indirizza a tutti e a nessuno”. Sembra la classica posizione dell’universalismo ispirato (o infestato), dell’umanesimo disinteressato di un “generico “miglioratore del mondo”. Subito dopo, in realtà, Levi precisa di aver scritto “per gli italiani, per i figli, per chi non sapeva, per chi non voleva sapere, per chi non era ancora nato”. E poi, stringendo ancora: “per chi, volentieri o no, aveva acconsentito all’offesa”. Ma infine riconosce, con l’occasione della prima traduzione tedesca del libro, che “i suoi destinatari veri… erano loro, i tedeschi”. Ora finalmente “sarebbero diventati lettori”. E neanche questo gli basta: è venuta “l’ora del colloquio”. Attende le loro risposte.
L’opera d’esordio di Levi rivela dunque la sua natura di lettera in attesa di una replica, anche se solo alcuni dei suoi corrispondenti soddisferanno le aspettative: sarà raro ricevere, come scriverà al giovane Wolfgang Beutin nel 1961, “la lettera che speravo e aspettavo”. Pur senza perdere la propria natura di opera che “si indirizza a tutti e a nessuno”, Se questo è un uomo ha finito per mettere a nudo la sua anima singolativa: è pensata anche come una lettera in attesa di risposta. Nulla di strano, allora, che una lettera possa essere pensata anche come un testo rivolto a tutti. Che Leopardi scriva a Giordani o Paolina ma anche, implicitamente, a chiunque nel corso dei secoli condividerà la sua lingua e letteratura; in un certo senso, alla sua stessa letteratura e alla sua stessa lingua. Lettere scritte alle lettere. (Mi colpisce sempre questo nesso etimologico tra letteratura, lettera privata, e lettera grammaticale – in latino è addirittura la stessa parola litterae a indicare tutte e tre queste realtà: come se tra la sala archivio dell’alfabeto e la vasta arena letteraria corresse lo stretto corridoio di un bigliettino, un filo di corsivo.)
C’è però una tensione tra queste due dimensioni – privata e comune, relazionale e artistica – della lettera. A ben vedere, un destinatario deve esserci, ma deve anche non esserci, cioè non essere presente. (Questo è in fondo un corollario del principio semiotico per cui il segno comporta l’assenza del referente.) Madame de Luxembourg, una delle grandi dame dissolute del Settecento, raccontava tra grasse risate di aver conosciuto un uomo che amava allontanarsi dalla sua amante per avere la soddisfazione di scriverle. Rousseau commenta: “Le dissi che avrei potuto essere io quell’uomo, e avrei potuto aggiungere che lo ero stato talvolta.” Ogni lettera aspira alla condizione del colloquio, è vero; eppure evita di raggiungerlo. Ogni incontro è una lettera non scritta, una lettera di meno.
Chi scrive chiede, anzi esige una risposta, secondo un principio di “fedeltà epistolare” (Magro): ma la vuole poi davvero? Pensiamo ciò che Kafka scrive a Milena Jesenská il 20 luglio 1920: “Ieri ti consigliai di non scrivermi ogni giorno, anche oggi sono di questa opinione, sarebbe un gran bene per entrambi e oggi te lo consiglio di nuovo e con più insistenza – ti prego soltanto, Milena, di non darmi retta e di scrivermi ogni giorno, basta anche brevemente, più brevemente delle lettere di oggi, soltanto due righe, soltanto una, soltanto una parola, ma la mancanza di questa parola mi farebbe soffrire terribilmente.” La replica viene richiesta con enfasi iperbolica, ma anche litotica: può benissimo ridursi a una riga, a una parola. Oggi le lettere di Milena sono tutte scomparse.
Sono scomparse anche quelle di Franz Kappus, il destinatario delle Lettere a un giovane poeta di Rilke, che proprio nella prima di esse scrive: “Nessuno può darle consigli e aiuto, nessuno. C’è un unico mezzo. Si immerga dentro di sé.” A volte si scrive per sabotare la corrispondenza, o almeno arginarla. D’altra parte Auden, in uno scintillante sonetto intitolato Who’s Who, racconta la biografia d’eccezione di un immaginario eroe che tuttavia – “dicono meravigliati i critici” – amava una persona senza grandi interessi, pacifica e sedentaria. Una persona (per inciso: i traduttori, chissà perché, ne fanno una donna) che “rispose a qualcuna delle sue lunghe meravigliose lettere, ma non ne tenne nessuna” (answered some / of his long marvellous letters, but kept none). Non è da escludere che siano state cestinate proprio perché troppo meravigliose.
La conclusione appare chiara: tra la scrittura come arte e la scrittura come relazione non c’è alcun legame di necessità. C’è però un legame, per così dire, di potenzialità, o senz’altro di potenza. L’ho mostrato più volte: la lettera può parlare a tutti, e la ragione dev’essere il suo radicarsi in un’esperienza individuale. Lo sguardo espresso dalla lettera è la benzina dell’agire artistico, che alimenta il motore dei linguaggi condivisi. L’impeto lineare della corrente nelle pale radiali del mulino.
Allora un’ultima considerazione: dev’essere proprio grazie a questa loro inevitabile unità e compattezza di sguardo che alcune tra le più grandi lettere private mai scritte possono permettersi di praticare ogni forma di mutevolezza. Variare vertiginosamente i registri, come fa Machiavelli scrivendo a Francesco Vettori il 19 dicembre 1513. Rendere conto di metamorfosi radicali: è il caso di Cechov, che il 7 gennaio 1889 descrive a Aleksej Suvorin il figlio di un servo della gleba che “strizza fuori goccia per goccia lo schiavo che ha in sé”. Formulare una poetica del “poeta camaleonte”: così Keats a Richard Woodhouse il 27 ottobre 1818. Esporre senza timore nuovi progetti artistici che forse rimarranno virtuali: lo fanno, per esempio, le Lettere a Theo di Van Gogh. Oppure raccontare un viaggio – l’erranza è spazio elettivo della scrittura epistolare – senza bisogno di ancorarsi a un’identità di “specialista”: è il discorso che ho cercato di svolgere, nel mio piccolo, in una delle lettere di Tutto quello che non abbiamo visto, definendo la scrittura di viaggio come “l’esperienza del non esperto”. Nella prospettiva della letteratura, la lettera è null’altro che questo: ponte tra l’individuo e la comunità: palestra della voce, laboratorio del vocalizzo, teatro della vocazione.