Fino al 15 settembre è possibile candidarsi alla borsa di studio “Giuseppe Pontiggia” per l’undicesima edizione della Scuola annuale di scrittura, che si terrà a Milano tra novembre 2025 e giugno 2026. Per partecipare basta completare il form su questa pagina e inviare un racconto – originale e inedito – di lunghezza compresa tra le 7.000 e le 15.000 battute.
Aspettando le vostre candidature, pubblichiamo il racconto vincitore dell’edizione 2024/2025: La fine dell’estate di Eliana Arpaia.
Buona lettura!
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La fine dell’estate
Geggi era rotondo come la palla che ci infilavamo sottobraccio e che facevamo rimbalzare tutti i giorni sul rettangolo grigio che si apriva tra i palazzi.
Dalle tre in poi era lì che potevi trovarci, la pelle lucida del torso che brillava nel sole malato del primo pomeriggio, il sudore che scendeva in rivoli sulle braccia magre e scure come pietra vulcanica.
Geggi, a differenza nostra, non toglieva mai la maglietta; la faccia paonazza, le chiazze scure all’altezza del petto e della schiena, il rossore su ogni parte scoperta del corpo. La sua mole era spropositata per le lunghe corse dietro un pallone che ci occupavano le giornate, e per questo era sempre in porta.
-Uagliù, facite chiano!
Era l’inizio di luglio, il sole bruciava. Geggi aveva le mani strette alle ginocchia, la schiena piegata.
-Stai in porta e t’allamiente pure?
Nicola urlò la domanda con l’arroganza della sua magrezza; c’erano trenta gradi, percepiti ottanta, e la rabbia delle nostre partite sgangherate non prevedeva interruzioni.
Mi avvicinai a Geggi.
-Vuò nu poco ‘e acqua?- gli chiesi, esitando.
Geggi scosse la testa, il respiro s’era fatto rantolo, i capelli lisci incollati alla fronte grondavano acqua.
Poi, senza preavviso, si tirò su, sgranò gli occhi.
-Cirù- disse. E cadde a terra nella polvere.
Del calcio, noi, non sapevamo granché. Nelle nostre case strette il televisore era di esclusiva proprietà dei nostri padri stanchi, la panacea dopo le lunghe ore di lavoro. Mio padre con me non ci parlava, ma con la televisione sì, e passava serate intere in sua compagnia. Le partite di calcio, però, non si guardavano in casa; per quelle si usciva, si cercava un’evasione dagli appartamenti della nostra periferia ammaccata, ma anche quell’evasione era prerogativa del mondo adulto, nessuno ci invitava mai a prendervi parte.
Quando Geggi cadde a terra, mi chiesi cosa succeda in una partita vera se uno stramazza per il troppo caldo, ma in mancanza di risposte ci limitammo a schiaffeggiargli la faccia e a versargli in testa l’acqua.
Geggi rinvenne, boccheggiò, “Mammà!” urlò tirandosi su.
Quando si rese conto che a guardarlo c’erano dieci facce sottili, nere di sole e calde d’estate, si alzò a fatica, disse che aveva bisogno di una doccia, e se ne andò sbarellando fino al terzo piano del suo palazzo sbilenco.
Nei giorni successivi di Geggi non sapemmo nulla. Andammo diverse volte a bussare alla porta scheggiata del suo pianerottolo, ma ogni volta la risposta fu la stessa:-Geggi sta riposando, nun po’ venì a pazzià.
Noi ci ritiravamo sconfitti fino al nostro rettangolo d’asfalto, un vecchio parco giochi che sorgeva tra palazzoni indistinguibili nella loro miseria, e ci sedevamo tra lo scivolo e l’altalena arrugginiti e cigolanti, a buttarci in faccia l’acqua della fontanella che spuntava nera tra le erbacce.
Le nostre partite di calcio si fecero scarne, le pallonate ora erano incerte, timorose. Senza una porta a cui mirare, non sapevamo cosa farci, con quella palla sporca e mesta che nella sua rotondità ci ricordava Geggi.
Giorni dopo, nelle pieghe oblique del sole, Nicola diede un calcio al pallone così forte che quello schizzò oltre l’arco e i confini protetti del nostro spiazzale, finendo dritto sul davanzale di uno degli appartamenti del secondo piano.
-Nicò, ma che sfaccimme faie!
Erano giorni di ira trattenuta, ogni minima cosa ci faceva saltar su come grilli. L’assenza di Geggi pesava nell’aria più del suo corpo sulla terra, ci chiedevamo troppe cose e nessuno ci rispondeva.
-Vado a prenderlo io- mi feci avanti, ma Nicola scosse la testa, mi superò svelto.
-Io l’ho buttata, io la ripiglio- disse dirigendosi verso la cornice crepata del portone del palazzo incriminato.
Annuii, ma lo seguii lo stesso nell’androne del condominio. Sembrava di entrare in un altro universo, il sole lì non bussava nemmeno, e tutto il grigio del mondo si condensava su scale, pareti, piastrelle consumate e tappeti irti e sporchi. Nicola camminava a testa bassa, io avanzavo dietro di lui nell’eco dei passi sulle scale.
-Che vulite?
La voce come un graffio, la fronte corrugata e ostile; la donna che ci aprì non ci voleva tra i piedi, i ragazzi del quartiere hanno sempre guai da portare.
-Signò, scusateci assaje, ci è caduta la palla sul vostro balcone.
-Facite ambressa.
La donna si scostò e Nicola attraversò la stanza buia che odorava di muffa, dove un Padre Pio a grandezza naturale ci fissava da dietro una tv accesa. Recuperammo la palla, ringraziammo.
-La prossima volta ve lo buco- sentenziò la donna, e stava per chiudere la porta, quando Nicola rispose:-Signò non è colpa nostra: nun tenimmo cchiù ‘o portiere, Geggi se n’è andato.
Il braccio della donna si bloccò sulla maniglia.
-Siete amici di Geggi? ‘O figlio ‘e ’onna Carmela?
Annuimmo, e la ruga sulla fronte della donna si sciolse.
-Ah, chillu povero creaturo, chella povera femmena!
Pregai non si mettesse a piangere; le lacrime per noi erano cose da femmine, e delle femmine non sapevamo niente.
-Aspettate, facitemi nu piacere!
La donna traballò fino alla cucina, e ne riemerse dopo uno scalpiccio di buste di plastica.
-Per piacere, purtatece questo, quella abita al piano di sopra ma io so’ troppo vecchia e nun ce riesco a sagliere.
Tesi le mani e presi l’involucro, profumava di farina.
-Sperammo che Dio aiuta chillu povero creaturo- pregò la donna facendosi il segno della croce.
Poi sparì dietro la porta, portandosi con sé il mistero di quella preghiera.
Quando bussammo, la madre di Geggi aprì con un sospiro.
-Vi ho già detto che Geggi non può venire- disse con la voce stanca e aspra. Stava per chiudere, quando alle sue spalle un movimento la tradì.
-Geggi!- gridò Nicola.
La donna provò a chiudere la porta, ma fummo più veloci. Ci frapponemmo tra lei e l’intercapedine, e Geggi la spinse via, lanciandosi verso di noi. Quando emerse nella luce del pianerottolo, ci accorgemmo con orrore che appariva dimezzato, come se qualcuno gli avesse aspirato i fianchi, le guance, provando a rendere aguzzi i bordi tondi della sua figura.
-Ti abbiamo portato questo, ce l’ha dato la signora del secondo piano- dissi incerto, tendendo l’involucro come per annullare l’improvvisa distanza che sentivo. La madre di Geggi l’afferrò.
-Cinque minuti, non di più- sibilò lasciandoci finalmente soli con Geggi.
-Che ti è successo, che tieni?- chiese Nicola in un soffio, e Geggi alzò le spalle, si appoggiò alla porta.
-Non lo so, da quando sono svenuto al campetto è così.
Io trattenni il fiato, mi sentivo storto e confuso. Geggi pesava almeno la metà di quando lo avevamo visto l’ultima volta, e il suo viso, la mezzaluna rosa su cui tante volte il sole si era impresso come uno stampo, adesso appariva grigio, consumato, un fazzoletto usato accartocciato sotto un sedile. C’era dello spaesamento al bordo dei suoi occhi, come se si fosse guardato allo specchio e si fosse accorto di non somigliarsi più.
-Geggi, sono settimane che non ti vediamo. La signora di giù stava preoccupata, ha detto “povero creaturo”.
Geggi arretrò, un lampo di dolore squarciò il cielo dei suoi occhi.
-Sto bene, uaglìù. Sono solo stanco, nu colpo ‘e calor’, mo passa.
Mi affrettai ad annuire, a dissimilare la paura, e Geggi abbassò gli occhi.
-Mi manca assaje pazzià a pallone- mormorò allungando il mento verso la palla arancione che Nicola teneva stretta sotto il braccio, una boa in mezzo al mare a cui tenersi aggrappati.
-Tieni- disse d’istinto, tendendogliela.
Geggi sollevò le sopracciglia, prese la palla.
-Così la guardi e ti viene la forza per stare meglio. Senz’ ‘e te nun è ‘a stessa cosa.
Annuii, sorrisi come potei.
-Ci manchi a tutti, Geggi. Rimettiti presto.
Geggi fece “sì” con la testa, le ciocche bionde scomposte sulla fronte, gli zigomi animati da un po’ di colore.
-Geggi, trase rinto.
La voce della madre squarciò il velo di quella ritrovata intimità.
-Non venite più, per piacere- sussurrò Geggi senza guardarci -Mamma si arrabbia, dice che mi stanco. Vengo io da voi quando sto meglio.
Noi mimammo il gesto di un pugno nell’aria, come a dargli forza. Poi, con le gambe molli, scendemmo le scale in silenzio.
-Addò sta ‘a palla? C’avite misa na vita e nun l’avite manco pigliata?
A guardarli così -le mani sui fianchi, la pelle annerita dalle giornate estive, le parole come coltelli a serramanico- i ragazzi del quartiere facevano paura. Nicola sollevò la testa, sul volto un guizzo d’orgoglio.
-‘A palla nun ‘a tenimmo. L’abbiamo data a Geggi.
In un attimo lo stupore si sostituì all’aria minacciosa, e fu subito un accalcarsi di mani, di strepiti, dove sta, che fa, gli avete detto che ci manca?
Nicola chiuse gli occhi, spalancò le braccia.
-Geggi è stato sequestrato dalla mamma. Lo vuole far dimagrire e quindi non gli dà da mangiare, s’è fatto sicco comm’ a nu cchiuovo.
Lo guardai, sconvolto, ma qualcosa sul suo volto brillava così forte che non dissi niente.
-Chella grande jetteca! L’amma salvà!
Boati, urla, saliva che si condensa a terra; è così che manifestavamo il dissenso, il nostro opporci alle ingiustizie, come un coro da stadio che si leva oltre le tribune, una bandiera che sventola violenta nel vento.
-Stateme a sentì, tengo un’idea.
Il coro tacque e la voce di Nicola si fece un sussurro, come a renderci complici di un piano segreto. Mentre ci spiegava in che modo ci saremmo ripresi Geggi, lo ascoltammo rapiti, ignari del fatto che Nicola, in quel momento, stava provando a salvare non solo lui, ma tutti quanti noi.
In quei giorni tutto si fece febbrile; eravamo eccitati e forse felici, perché ci univa uno scopo, una frenesia, la voglia di rivalsa contro un nemico comune.
-Lei non ci vuole dare il figlio, ma noi ce lo riprendiamo comunque. E per farlo avimma fà burdello, non esiste una squadra di pallone senza il portiere!
Nicola camminava avanti e indietro come un generale davanti alle truppe, spiegando cosa fare, in che modo, a che ora. Noi annuivamo, sputavamo, ci incontravamo la mattina e ci ritiravamo a casa a sera tarda, la testa sul cuscino troppo piena di pensieri per riuscire a spegnersi.
Attuammo il nostro piano il sabato della settimana successiva, nell’ora in cui si giocano le partite importanti. Nell’immobilità di agosto, eravamo caldi come guerrieri sotto un’armatura, con Nicola che passava in rassegna le munizioni del suo esercito nelle trincee del nostro quartier generale.
-Trucco?
-Ci sta.
-Striscione?
-Pure.
-Magliette?
-Stanno ccà.
Mettemmo al centro dello spiazzale macchiato d’erba i nostri tesori: un ombretto azzurro rubato alla sorella di Giuseppe, uno striscione sottratto a un cassonetto, magliette un tempo bianche che puzzavano di olio di motore, fischietti di plastica usati.
Nicola afferrò i fischietti, ne diede uno a ciascuno di noi.
-Sapete cosa fare- asserì.
E allora lo facemmo.
-Che cazzo sta succerenno?!
Furono queste le parole con cui si spalancarono le imposte, ci si affacciò alle finestre, si inondarono i balconi. Tutti ebbero un motivo per protestare, per urlare, per chiedersi cosa fosse quel caos improvviso.
Ma noi non sentivamo niente, nelle orecchie c’era spazio solo per la voce di Nicola che ci gridava:-Cchiù forte, facimmece sentì!
Con le linee blu sulla faccia tracciate con l’ombretto, avevamo gli occhi rivolti verso l’alto, lo sguardo alla ricerca di un’unica persona, e con i fischietti riempivano l’aria di stridori da stadio mentre con le mani tenevamo ritmi inventati e battevamo scope su vecchi cesti di lavanderia.
-Ma che v’ata mise ‘ncape?- gridò una donna. I portoni dei palazzi si aprirono, le gambe ossute delle madri si fecero in strada.
E finalmente, al terzo piano del palazzo di fronte al rettangolo d’asfalto, si spalancò la finestra a cui stavamo guardando.
-Uagliù, Geggi è uscito!
Urlammo più forte, fischiammo più forte, le scope sulle ceste impazzirono, i piedi pestarono il cemento fino ad assottigliare le suole.
Noi allo stadio non c’eravamo mai stati, ma so che nessuno attorno a un campo ha mai gridato così. Geggi rideva, batteva le mani, da lassù appariva ancora più piccolo dell’ultima volta, i capelli tagliati cortissimi.
Il calcio per noi era questo, un filo diretto che si estendeva tra l’infanzia e l’età adulta su cui camminavamo pestando i piedi, gridando che c’eravamo, che Geggi ci apparteneva come noi appartenevamo a lui.
-Guardate, la mamma sta piangendo!- urlò trionfante Carmelo, e le urla si moltiplicarono.
Io e Nicola ci guardammo, negli occhi la stessa vacua amarezza; solo noi sapevamo il significato di quelle lacrime, e a stento trattenemmo le nostre.
Di quel giorno al cortile si parla ancora oggi. Si parla dei bambini che scambiarono le palazzine per la tribuna di uno stadio, dello striscione con scritto “Geggi libbero” che ancora svolazza nel vento, del pallone arancione che Geggi lanciò dal balcone urlando:-Uagliù, sto tornando!
Si parla di tante cose, e quasi tutte sono vere. Si parla delle magliette rubate al garage del meccanico, delle macchie di grasso tra cui i pennarelli indelebili avevano scritto “Ridateci Geggi”, si parla dei dieci bambini che chiesero indietro il loro portiere convinti che la madre non gli desse da mangiare.
Quando, tre giorni dopo il nostro assalto, scoprimmo che Geggi era in ospedale, l’indignazione e gli insulti contro la mamma di Geggi c’invasero le bocche come amianto tra le lamiere.
Fu Nicola a sedare la folla.
-La mamma di Geggi è insopportabile, ‘o sapimmo- dichiarò sotto la luce dei lampioni sottili, nell’alone triste della sera che si fa viola e poi blu.
-Ma lui una mamma la tiene. Io no, nun ‘a tengo cchiù.
Nicola abbassò lo sguardo, strappò un filo d’erba che si ergeva oltre l’asfalto.
-E l’ultima volta che l’ho vista, tre anni fa, s’era fatta secca come a Geggi.
In lontananza, grilli frinivano pigri, cantando l’estate che scivolava via. Fu solo allora che tutti capirono.
-Perché non ci hai detto niente?
Gianluca aveva nella voce il duro scoglio del risentimento, i pugni stretti sulle cosce, le pupille rosse di chi trattiene il pianto. Sospirai, presi parola.
-Perché la pena non serve a nessuno, Gianlù. Noi volevamo fare il tifo per Geggi, non per quello che è diventato.
Nella quiete cupa della resa, nessuno disse niente.
La mattina del funerale l’aria odorava di settembre, delle prime foglie sotto le scarpe. Il cielo grondava pioggia e tristezza, addosso avevamo il completo di seconda mano delle nostre comunioni.
Arrivammo alla lapide come in pellegrinaggio, l’acqua che scrosciava dal cielo e dagli occhi. Nella foto sulla destra, sotto l’ovale dorato del granito, Geggi era ancora rotondo, era ancora vivo.
-Dici a mammà mia c’ ‘a voglio bene- mormorò Nicola toccando il marmo freddo.
Ci abbracciamo sotto la pioggia di fine estate, una squadra a fine partita che si stringe dopo la sconfitta.
Prima di andarcene, sul mucchio di terreno smosso, sotto un biglietto con scritto “Torna in porta Geggi”, posammo la palla che tante volte ci eravamo lanciati e con cui non avremmo giocato più.
-Voi dite che torna?- chiese Giuseppe mentre ci allontanavamo, il naso che tirava su e la voce che tremava.
Io annuii, guardai Nicola. Gli strinsi il braccio.
-Può essere, Giusè. Chi te vo’ bene torna sempre.



