C’è un dibattito appassionante – per chi voglia lasciarsi appassionare – sulla nascita della new weird fiction all’inizio degli anni Novanta. Cos’è, cosa non è, a cosa somiglia, a cosa potrebbe somigliare se non somigliasse già a qualcos’altro. Discussione che avanza qualche sospetto, perché gli esponenti di spicco del genere sono anche i suoi teorici (China Miéville) e antologizzatori (Jeff Vandermeer). Di fatto il new weird è una miscela di fantasy, horror e fantascienza, un ibrido che non si lascia definire troppo agevolmente, se non per la serietà e un’ambizione che trascende il puro intrattenimento. Vanta una costellazione di precursori che possiamo far risalire fino a Poe e a Lovecraft – e se il concetto è quello che il genere o lo fondi o lo sfondi, allora anche Kafka, Borges, e naturalmente Ballard, Burroughs.
Per sfondare ulteriormente, dovrei dire che la mia primissima esperienza con la narrativa new weird non si è consumata attorno a un libro ma davanti a un videogioco, Maniac Mansion della Lucasfilm Games. Scritto da Ron Gilbert (poi creatore di Monkey Island) e Gary Winnick. Era il 1987: Commodore 64 e joystick dell’Atari, accoppiata weirdo-nerdo. Se come ha detto China Miéville la narrativa new weird è quella definita – contro il ricorrente catalogo di vampiri, lupi mannari e fantasmi del fantasy tradizionale – dall’immagine del “tentacolo”, qui di tentacoli ce n’erano due: Green Tentacle (un chitarrista rock piuttosto friendly) e Purple Tentacle (inflessibile guardiano del laboratorio segreto), tentacoli parlanti, nientemeno, per il resto era una ridda di faccende sconclusionate e pazzoidi, meteore senzienti dedite alla manipolazione mentale, esplosioni di criceti in microonde, atmosfere alla Frankenstein, per tutto il gioco ti portavi appresso una motosega di cui non si riusciva a trovare la benzina. C’era addirittura un personaggio di nome Weird Ed (we’re dead?).
Ora, quella goduria burrascosa, aproblematica ma complicatissima (sadismo a tonnellate, nei videogiochi di Ron Gilbert), di far appassire un pomeriggio su Maniac Mansion me la restituisce intatta il memoir, anzi l’antimemoir di M. John Harrison, scrittore cultuale per gli esponenti del new weird e della new wave fantascientifica. Da pochi giorni è in libreria per Mercurio, si intitola Vorrei essere qui (trad. di Luca Fusari), e sono quarant’anni di appunti, annotazioni, pagine di taccuino. È un libro che con la “leggibilità” in senso canonico non ha niente a che spartire, e proprio per questo regala una grande lezione su cosa sia, dopotutto, “leggere”.
Comincia, non a caso, con una riflessione sul “prendere appunti”. La teoria di Harrison è fin da subito fantasmatica, la memoria frattura l’identità, “separa”. Gli appunti come momenti di “cattura e ipnosi”:
[…] accomunati, in primo luogo, da un’affettuosa affinità tonale. Erano tutti ugualmente distanziati e inoffensivi, come se a viverli non fossi io. In un certo senso no, non lo ero. La persona che ne fece esperienza è venuta dopo. Ho sbagliato a credere che quella persona fossi io, che fosse l’identità che mi ero costruito vivendo la mia vita, prendendo appunti e prendendo appunti sugli appunti.
Scriviamo appunti e non sappiamo, veramente, a chi serviranno, che uso ne farà il nostro io futuro/mutato/dislocato. «Tratta questi appunti come se li avesse presi un altro, come se fossero l’esperienza di un altro». Prendere appunti oggi è identificare un fantasma che verrà consegnato in lettura al nostro fantasma di domani. Un carteggio fra estranei.
Più che una recensione, Vorrei essere qui meriterebbe un’antologia, una rassegna delle sue perle sulla scrittura. Ne prendo, col dovuto rammarico, giusto qualcuna:
Scrivere narrativa è un tale stacco dalla realtà non perché «ci si perde in un mondo secondario» o cazzate del genere, ma per un motivo preciso: è lecito cominciare un romanzo dicendo che «mercoledì pomeriggio alle sei meno un quarto c’era un po’ meno traffico del solito». Se lo dicessi ad alta voce nel mondo reale, qualcuno ribatterebbe subito che il traffico era un po’ peggio del giorno prima. Scrivere è il puro sollievo di non dover discutere di tutto quello che succede per sforzarsi di essere d’accordo sull’esistenza del mondo: è il contrario di Twitter, per dire.
Il “puro sollievo”, contro il senso di colpa della narrativa d’invenzione che si vergogna di dover inventare, o quantomeno si sente a disagio – quel disagio da cui vengono l’ansia del verosimile, le “storie vere”, l’autofiction, le pulci dell’ombelico, la Grande Storia sullo sfondo, l’espianto dello storytelling dal bidone della cronaca, l’ibridazione saggistica e insomma le diverse specie di falsetto con cui ci assilla la narrativa contemporanea:
Non c’è bisogno di vergognarsi. Nessuno ti verrà a stanare. Lo sanno già. È scritto sul contratto. L’unico dovere è fingere […] Non c’è bisogno di appellarsi alla sospensione dell’incredulità […] Non ci crede nessuno che i pianeti alieni che hai inventato esistono davvero; in tutta franchezza, nessuno crede neanche all’esistenza della stazione degli autobus che hai descritto tale e quale alla realtà.
Capite il godimento? Il puro sollievo di leggere uno scrittore con decenni di mestiere che quando la dice… la dice davvero, senza girarci intorno e senza mettersi in posa?
«I concetti, le idee, li odio. Avere un’idea non significa avere qualcosa da scrivere: avere qualcosa di cui scrivere significa avere qualcosa da scrivere». Una cosa di cui potreste seriamente innamorarvi è la capacità di Harrison di flirtare con la bellezza dell’ovvietà, diportare alla luce – alla Lyotard – l’astuzia o l’ironia che “regolano” la struttura dell’ovvio: «Uno degli svantaggi del libro di carta rispetto a quello elettronico è che, se manca l’elettricità e le pile si scaricano, lo si può leggere soltanto nelle ore diurne; uno dei vantaggi del libro di carta è che, se manca l’elettricità e le pile si scaricano, nelle ore diurne lo si può leggere lo stesso».
E ancora. Si è discusso del new weird come liberazione del fantasy dalle pastoie tolkeniane, ma guardate questo rovescio di Harrison nel capitolo intitolato un fantasy in cinque volumi:
Volume 2, I palazzi perduti: tutte le sere Eldrano il Signore degli Elfi viene portato a dormire su una barella in titanio e materiale composito rinforzato. Due o tre aiutanti sollevano gli spessi lembi di carne e puliscono amorevolmente le ulcere tra le cremose pieghe di lardo dove ancora si annidano i suoi genitali. Ha perso un po’ del suo piede destro a causa del diabete. La Regina l’ha lasciato da cent’anni, è scappata nel Nord con il suo Nano. Ma nulla di tutto questo guasterà il suo sogno di correre un’ultramaratona.
A quasi ottant’anni, Harrison è un “venerato maestro” che sa come prendersi in giro. Dorme sorprendentemente bene ma rimane in costante fuga da sé stesso. Qualcuno per fortuna ha portato questo suo libro in Italia – ancora grazie. Vedremo come verrà accolto dal paese che legge soprattutto “protagonisti” e scrinfluencer.
Ultima lezione, sullo stile:
Lo stile tardo arriva quando capisci che sei: abbastanza competente da scrivere le cose che volevi scrivere a venticinque anni; abbastanza impaziente da provare ancora una volta ad andare fino in fondo; abbastanza arrabbiato da non permettere a nessuno di convincerti a fare qualcos’altro. Al contempo lo stile tardo è freddo, divertito, sprezzante e selvaggio nei confronti di tutte le persone che sei stato o hai cercato di essere. Lo stile tardo è quando finalmente il mostro che sta là sotto ne ha abbastanza di te.
M. John Harrison, Vorrei essere qui, trad. di Luca Fusari, Mercurio, 2024