“Tischi” di Andrea Sponticcia è il racconto vincitore della borsa di studio per l’edizione online di Scrivere di notte, il corso serale in programma dal 25 febbraio 2025. Attraverso una lingua asciutta e immune da patetismi, l’io narrante ripercorre gli anni in cui lui e tanti dei suoi amici d’infanzia sono stati inseguiti e poi divorati dal “drago” dell’eroina. È l’apparente distacco, la noncuranza, con cui le vicende vengono riportate a dare ancora più forza a questo vivido racconto-confessione.
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Sono nato a Tischi il 3 settembre del ’45. Avevo tutta la vita del mondo davanti, come diceva mio padre. A diciotto anni, però, iniziai a farmi di drago. Il drago era come chiamavano l’eroina, all’epoca, perché quella che arrivava a Tischi veniva dalla Cina ed era una variante della thailandese. Da allora ogni settimana per otto anni mi sono sparato il drago lungo le vene.
Poi un giorno ho mollato tutto e sono andato via.
Dopo però sono tornato. È che una volta che lasci entrare il drago, non puoi sfuggirgli. Puoi andare ovunque, ma lui sarà sempre dentro di te. Quindi tanto valeva rimanere a Tischi.
Se me lo chiedessero, non è che non saprei dire come fosse la vita a Tischi, da ragazzi, prima della droga. Me la ricordo bene, invece. Sono quei ricordi che rimangono perché fanno luce, in questa oscurità. La questione è un’altra. La questione è che temo che non saprei riviverla in quel modo neanche se potessi tornare indietro a quei tempi e in quel corpo. Ho paura che il drago mi seguirebbe pure lì.
I miei migliori amici erano due. Ce n’erano anche altri, ma i migliori erano Fabio e Guglielmo, detto l’Uomo, perché era quello più interessato alle ragazze e alle macchine. Guidava una Lancia Flavia nera del ’61 e portava i capelli come Elvis.
A Fabio invece piacevano le armi e la caccia.
Aveva un fucile con cui andavamo per boschi anche quando non era stagione. Ricordo che un giorno era autunno e c’erano foglie ovunque. Faceva caldo, l’estate era arrivata in ritardo. Da accasciato lungo un greppo aveva sparato a un nido su un albero lì vicino. Ricordo ancora la sua espressione viva, piena d’interesse per le sorti di quel nido. La ricordo bene perché, se ci ripenso, Fabio ha sempre un’espressione assorta, nei miei altri ricordi. Come se fosse sempre da un’altra parte.
Ci radunavamo a casa sua, d’estate, perché abitava in campagna. Stavamo in salotto. Io, lui, l’Uomo, gli altri. Stavamo nel salotto che dava sul portico. Sulla parete c’era il quadro di un Cristo dalla fronte alta e l’espressione dubbiosa. Ci guardava farci ogni domenica. Non voltò mai lo sguardo.
Non ricordo chi fu il primo a tirare fuori gli aghi. Non lo dico per proteggerlo, è passato tanto di quel tempo che, anche se si sapesse, dubito servirebbe a qualcosa o a qualcuno. È che proprio non lo rammento. La spinta però venne da fuori, da uno dei ragazzi più grandi. Uno che aveva agganciato Fabio, l’Uomo o uno degli altri.
Uno dei tanti che sarebbe entrato e uscito dalle nostre vite così come l’ago entrava e usciva dalla nostra pelle.
Uno di quei viscidi che si aggregavano per provarci con Cinzia, l’unica ragazza del gruppo. Lei non si faceva. O meglio, io non la vidi mai farsi.
Lei neanche aveva il coraggio di guardare, quando ci facevamo. Abbassava sempre gli occhi. Quei suoi occhi mai ridenti e sempre fuggitivi. Fu l’Uomo a farglieli fermare. Si misero insieme quasi subito. Nel 1968 ebbero un bambino. Un maschio.
All’inizio ci si limitava alle braccia, poi ogni vena iniziò ad andare bene. Mani, polpacci, palmi. Ricordo che Mattia guaì come in preda a un orgasmo, la sera che s’iniettò una dose passando dal piede. Non so se per il piacere o per il dolore.
Ricordo la tensione negli occhi di Paolo, nei giorni di secca – occhi scalabersciati, li avrebbe definiti mio nonno.
Ricordo la disperazione di Davide, per lo stesso motivo. O l’apprensione e la paranoia che asfissiavano lo sguardo dell’Uomo, quando a tarda notte si rientrava in paese con le scorte di drago ficcate dentro i sedili e lui vedeva posti di blocco a ogni curva, nonostante piovesse a dirotto.
Ricordo il disgusto negli occhi di Tonino. Sandro che collassava con un rivolo di sangue che gli usciva dal polso. Le risate di tutti, quando farsi di drago sembrava ancora un gioco, una ragazzata da fare la domenica. La lingua di fuori di Fabio, mentre se ne sparava una nella vasca da bagno. La mascella serrata dell’Uomo di fronte allo specchio rotto da Gabriele, quella volta che Gabriele, all’improvviso, mentre si stava specchiando e pettinando, aveva dato di matto e aveva scagliato il pettine contro il suo riflesso.
«Questa ci costerà sette anni di sfiga» aveva masticato e sputato fuori l’Uomo.
Era il 22 novembre 1963.
Lui sarebbe morto sette anni dopo. Overdose, naturalmente.
Lo ricordo fico e a petto nudo, i capelli come quelli di un americano, mentre impugnava la pistola a tamburo di Fabio. Non vedeva suo figlio da nove mesi. Da quando cioè Cinzia era morta e il bambino era stato affidato ai servizi sociali. Non so dove lo mandarono. Non ne parlammo mai. Non parlammo mai neanche di Cinzia. Eravamo troppo impegnati a farci e a litigare per ogni cosa. Solo una volta lui mi disse che sapeva che Cinzia era in pace. Questo perché nell’aldilà non c’era alcun drago da inseguire, mi disse. Né c’era alcun drago a darti la caccia.
Da un lato lo invidio, l’Uomo. Morendo a quell’età, è rimasto giovane per sempre. Inoltre, non ha conosciuto lo schifo che è venuto dopo.
Quando morì, la compagnia si dissolse. Io me ne andai via per un anno o giù di lì. Tornai nel 1971. Tornai che la casa di Fabio si era riempita di estranei. Gente più vecchia di noi. Fasci. Brigatisti. Tossici.
Gente che pensava che sperimentare il dolore e la violenza fosse una cosa divertente da fare una volta, per provare.
Fabio stesso era irriconoscibile. Il ragazzo magro e dai capelli a spazzola con cui ero cresciuto aveva lasciato il posto a un capellone in sovrappeso coi basettoni che se ne stava tutto il giorno in vestaglia e in mutande. Il drago si era messo a spacciarlo.
Ogni tanto si faceva ancora, ma solo quando si faceva anche Liliana, la sua ragazza.
Non so chi dei due obbligasse chi, ma credo che dipendessero più l’uno dall’altra che dal drago, a giudicare da come lui la minacciava di morte con la pistola a tamburo, quando gli s’incrinava la luna, o dal modo in cui lei perdeva e metteva su peso – per non parlare delle ecchimosi sul suo viso di fiore che io scambiavo per sbaffi di mascara, o di quella volta che lei gli sparò ferendolo a una coscia… ma forse mi sto confondendo, perché, ora che ci penso, a rimanere ferito non fu Fabio, quel giorno, ma il suo protegé, un monociglio diastemico che faceva il paio con l’altro suo galoppino, Roberto.
A Roberto, Fabio lo picchiò a sangue, una domenica.
Si era convinto che facesse il doppiogioco.
Lo aveva riempito di pugni mentre Roberto era sotto drago e poi lo aveva gettato per strada con un cartello attorno al collo. Il cartello era un pezzo di cartone con sopra una minaccia per i carabinieri. Fabio aveva scritto e firmato che se loro gli avessero mandato un altro ratto rottinculo in casa, lui avrebbe dato fuoco alla caserma. Poi si era rimesso a picchiarlo e io a quel punto ero corso dentro a chiamare Liliana, per farlo calmare.
Ero corso in mezzo al disordine e alle siringhe usate con gli occhi del Cristo dubbioso fissi su di me, sopra ogni mio passo. E, svoltato l’angolo, avevo trovato Liliana intenta a piantarsi l’ago nel braccio, seduta sotto il raggio di sole che dalla finestra scendeva a illuminarne la bellezza scheletrica e a fondersi con la luce del suo corpo nudo.
Nel vederla così, china entro la penombra luminosa, pensai che fosse un angelo.
Un angelo incinta di nove mesi.
Il funerale si tenne con la bara aperta. Un’anziana la riempì di petali. La bambina sembrava stesse dormendo. Teneva la testa inclinata di lato. Il prete la benedì un’ultima volta, prima di chiudere il coperchio. Né il padre né la madre erano presenti.
Quando tornai a casa, la trovai invasa da una comunità di fricchettoni. Due ragazzi e una ragazza stavano avendo un ménage à trois. Due stralunati pescavano in cucina. Una ragazza rideva. Un idiota con uno strano cappello in testa mi mostrò un quadro astratto e mi disse che le anime di tutto l’aldilà si trovavano lì, in quell’esatto punto luce. Io mi chiusi in camera e mi sparai una dose. Questa è la fine, pensai. Non lo fu.